Le frontiere del capitale – Into the Black Box*
Come la nuova organizzazione logistica e il potere degli algoritmi hanno cambiato il mondoE tutta questa coscienza comune si accontenta di usarmi come una scatola nera?
Dato che la scatola nera funziona, è superfluo sapere cosa ci sia dentro?
A me non sta bene. Voglio sapere cosa c’è dentro, io.
Voglio sapere perché ho scelto Gaia e Galaxa come futuro, altrimenti non starò in pace.
Isaac Asimov, Fondazione e Terra, Mondadori, Milano, 1986, p. 14
1.0 – Prequel
Questo volume nasce dal percorso di ricerca collettiva Into the Black Box.
Era il finire del 2013. Da qualche anno si susseguivano in EmiliaRomagna, Lombardia e Veneto blocchi dei facchini ai cancelli degli interporti. Eravamo in piena crisi economica globale. Dopo la bolla dei subprime Usa, l’intero territorio europeo aveva visto abbattersi la scure dell’austerity. Le piazze di mezza Europa si incendiarono. Per confrontarsi su questo, un seminario internazionale intitolato proprio Teaching the Crisis si tenne a Berlino. Partecipammo entusiasti. Giovani militanti e ricercatori di mezzo mondo portarono le loro esperienze e analisi. Piazza Syntagma, Porta del Sol, Piazza Taksim, Kottbusser Tor o le strade di Lubiana: chi aveva attraversato quei luoghi di conflitto si incontrò per parlare di crisi, di reazioni, di lotte e di prospettive. Da Bologna portammo l’esperienza delle “lotte nella logistica” e non è riduttivo dire che davanti a noi si aprì un mondo (puntata 4.1).
Confrontandoci, leggendo, partecipando e approfondendo scoprimmo che la logistica era in tensione ai quattro angoli del globo. Si annotavano blocchi logistici in Canada, Australia, Cile, Grecia, Cina, Olanda, Belgio e altrove. I lavoratori di quel settore sfruttavano la loro posizione strategica. In un mondo dove la produzione è globale, dove ogni passaggio del processo produttivo si svolge in un luogo diverso, se blocchi un segmento puoi arrivare a bloccare tutto. Facchini e operai della logistica evidentemente lo sapevano. O comunque, lo facevano. Noi l’abbiamo scoperto con loro. Grazie a loro.
A fianco a forme più o meno intense di conricerca, negli anni immediatamente successivi al 2013 abbiamo incontrato strumenti teorici importanti. In primo luogo i lavori di Keller Easterling (Extrastatecraft. The power of infrastructure space – Verso, 2014) e Deborah Cowen (The deadly life of Logistics – Minnesota Up, 2014). Sempre in ambito anglofono, libri e articoli di Edna Bonacich e Jake Wilson, Anna Tsing, Stefano Harney e Fred Moten, Sandro Mezzadra e Brett Neilson. Inoltre, e non certo meno importante, la riscoperta di una radice italiana operaista di studi critici sulla logistica: la rivista «Primo Maggio», i lavori di Sergio Bologna, e ovviamente il “Dossier Trasporti” del 1978. Con strumenti teorici di matrice marxiana e operaista, partecipazione ai movimenti e con un confronto proficuo e costante con compagne e amici, ci siamo spinti/e ad accogliere la logistica come campo di studio, lotta e lavoro. Inoltre, con la logistica abbiamo scoperto una lente (vedi la puntata 3.1) attraverso cui scrutare la storia e le mutevoli geografie del capitalismo globale (su questo 3.2 e 4.2).
Lo sbocciare della cosiddetta industria 4.0, del capitalismo delle piattaforme e della gig economy ha in qualche modo radicato ed espanso la nostra prospettiva. Nei secondi anni Dieci, la logistica ha mantenuto e anzi incrementato la sua efficacia ermeneutica imponendosi come razionalità alla base del potere algoritmico delle piattaforme. Nuovi soggetti al lavoro hanno invaso le nostre città costruendo nuovi “campi di battaglia” (vedi puntata 3.6). A fianco ai facchini delle sigle più tradizionali, i rider del food delivery o i driver di Amazon hanno portato nuove forme di lotta o puntellato quelle in corso (si veda la puntata 4.3 sui gilets jaunes), prodotto nuovi modelli di sindacalismo auto-organizzato, e issato nuove rivendicazioni, squarciando il velo elegante e confortevole del capitalismo 4.0 (vedi puntata 3.5). Come percorso di ricerca collettiva abbiamo seguito, partecipato e scritto di questa effervescenza (si vedano le puntate 4.5, 4.6 e 4.7). Ancorati/e a un’attenzione puntuale rivolta a ciò che è circolazione (si veda la puntata 4.4), l’orizzonte degli ultimi anni ci è apparso (o, almeno, così ci sembra) piuttosto nitido e leggibile. Leggibile attraverso gli occhi della logistica (puntata 3.3).
Certo, riunire scritti pensati singolarmente come facciamo in questo volume significa dare il là a un vero e proprio montaggio. E montare un film o una serie televisiva significa quasi riscriverli, collocandoli in un contesto narrativo differente. Costruire un nuovo significato rispetto alla mole di fotogrammi accumulati. Per fare il montaggio bisogna essere immersi nelle questioni tecnico-espressive e artistiche del film, saperne tirare le fila (coerenza della trama, caratterizzazione dei personaggi, comprensibilità delle idee di fondo, etc.), ma anche porsi dal punto di vista dello spettatore/ice che è totalmente all’oscuro delle problematiche e degli a priori del film.
Per questo motivo, nel costruire questo volume abbiamo provato a fare un lavoro di montaggio doppio: “esterno” e “interno”. Da un lato tentiamo di restituire quello che abbiamo definito capitalismo a trazione logistica, capitalismo delle piattaforme, e delle tendenze e scenari di conflitto al suo interno. Lo facciamo mettendo in sequenza una serie di inquadrature (riquadri teorici) e di scene (stralci di inchiesta). Un montaggio che, come per tutta la nostra produzione, si svolge come un lavoro di équipe che si coadiuva procedendo per tagli, catalogazione, organizzazione, dialoghi, effetti speciali. Dall’altro lato, invece, abbiamo provato a riunire alcuni degli scritti che a noi sembrano più efficaci per restituire il nostro percorso, sperando che riproponendoli in una tale forma olistica risultino utili a raccontare una piccola storia collettiva del nostro presente.
2.0 – Montaggio
Ouverture
Geminiano Montanari nasce a Modena il primo giugno 1633. Fino al 1664 studia, viaggia e lavora tra la Toscana, Salisburgo e Vienna, e tra il 1657 e il 1658 compie un avventuroso viaggio alle miniere d’argento di Ungheria, Boemia e Stiria allo scopo, tra l’altro, di sperimentare un’innovativa pompa idraulica. Dopo questo periodo lavorerà in università tra Bologna e Padova, dove morirà il 13 ottobre 1687. Montanari è un uomo di un’altra epoca, come si può dedurre dal fatto che il suo inquadramento come “matematico” si accompagna a riconoscimenti nei campi dell’ingegneria, della metallurgia, della meccanica, della fisica, dei moti celesti nonché delle tecniche amministrative e contabili, come pure dell’astrologia e dell’alchimia. Ma è soprattutto per i suoi studi sulla moneta che viene assoldato per varie ricerche, sia dai Medici fiorentini che dalle autorità veneziane, in un momento storico in cui circolavano quattro monete (quelle preziose d’oro e d’argento, quelle bancarie – le promesse di pagamento, quelle “basse”, a poco o nullo valore intrinseco – e, infine, quelle immaginarie, non circolanti, puramente contabili e legali). Contribuisce anche a realizzare un torchio a bilancia per il conio di speciali monete d’argento, che diverse zecche europee già producevano, usato dal Granduca fiorentino per contrabbandarle in Turchia e di qui in Persia, dove inteverrà direttamente il Gran Visir per interromperlo.
Quando Marx descrive le condizioni degli operai di Londra parla dei loro quartieri come delle «miniere della miseria [che] vengono sfruttate dagli speculatori dell’edilizia con maggiore profitto e con minore spesa di quanto siano mai state sfruttate le miniere di Potosì. Il carattere antagonistico dell’accumulazione capitalistica e quindi dei rapporti di proprietà capitalistici in genere diventa qui così evidente». Dopo questa metafora che su scala planetaria lega lo sviluppo della metropoli inglese all’estrazione di argento in Bolivia, Marx, in una nota, richiama una frase di Montanari tratta dal volume Della moneta (1683 circa), che raccoglie vari scritti non pubblicati. L’inattualità di Montanari trasuda dall’italiano che suona a noi desueto. Ma l’immagine che descrive pare essere una di quelle alle quali, in particolare con l’accelerazione storica vissuta con la pandemia, siamo abituati/e a simbolizzare il nostro presente. Scrive Montanari: «È così fattamente diffusa per tutto il globo terrestre la comunicazione de’popoli insieme, che può quasi dirsi essere il mondo tutto divenuto una sola città in cui si fa perpetua fiera d’ogni mercanzia, e dove ogni uomo di tutto ciò che la terra, gli animali e l’umana industria altrove producono, può mediante il denaro stando in sua casa provvedersi e godere. Maravigliosa invenzione!».
Come non pensare a una persona che, seduta in casa propria, ordina oggi su qualche piattaforma digitale una qualsiasi merce prodotta “altrove” per potersela “godere”? Montanari sembra dirci che au fond è l’astrazione del denaro che consente questa circolazione globale. Nei circa 350 anni trascorsi tra Montanari e noi, potremmo dire che lo scarto spazio-temporale tra l’astrazione capitalistica e la sua concretizzazione si è progressivamente ridotto, riempiendo il mondo di apparati logistici, infrastrutture, processi urbani, macchine.
Scena I – 29 luglio 2021
Nel porto di Rotterdam, fondato nel 1283, attracca la Ever Given, una delle navi portacontainer più grandi al mondo. Lunga quattrocento metri, a bordo trasporta 18.300 container con merci di ogni tipo per un valore stimato attorno ai 600 milioni di euro. Il viaggio della Ever Given era iniziato l’8 marzo a Yantian, in Cina, proseguito a Tanjung Pelepas (Malesia), e dopo aver scaricato parte del suo carico a Rotterdam terminerà le consegne nel Regno Unito, per poi riprendere le sue usuali rotte trans-oceaniche. Solitamente il viaggio è tuttavia molto più breve e fruttuoso. Una parte dei container sono infatti colmi di vestiario per la stagione estiva, che ormai sono fuori tempo massimo per essere commercializzati. E anche una serie di altre merci (in particolare di Ikea e Lenovo) potrebbero risultare ormai inutili. La nave infatti, qualche mese prima, è diventata un caso mondiale rimanendo incagliata nel Canale di Suez, bloccandolo totalmente per quasi una settimana a partire dal 23 marzo, ed è stata quindi costretta a fermarsi sino a inizio luglio per accertamenti e procedure legali.
Il proprietario della Ever Given è la giapponese Shoei Kisen Kaisha, la nave è registrata a Panama, il management tecnico è della compagnia tedesca Bernhard Schulte Shipmanagement (Bsm), ma la compagnia di trasporti che la gestisce (la Evergreen Marine) ha la sede centrale a Luzhu (Taiwan). Quando si incaglia vicino al villaggio Manshiyet Rugola, per Shoei inizia una estenuante trattativa con il governo egiziano (richiesta: un miliardo di dollari di riparazione danni) che si concluderà con un accordo i cui termini non sono stati resi noti. Nel corso del contenzioso, a tre membri dell’equipaggio è consentito lasciare l’imbarcazione, cosa usualmente non concessa, in quanto il loro contratto a tempo è scaduto. Nonostante le dimensioni, la Ever Given ha a bordo solo il capitano (incriminato per l’incidente) e 25 marinai, tutti indiani e con contratti per lo più legati a singole missioni. D’altronde la storia degli equipaggi marittimi è intrecciata a doppio filo con la storia del colonialismo, tanto che ancora oggi le crew marittime globali sono composte in prevalenza da forza lavoro cinese, filippina, indiana e indonesiana.
Scena II – 27 novembre 2020
È ancora notte a Kemps Creek, nel Nuovo Galles del Sud (Australia), all’estrema propaggine dell’immenso sprawl urbano che costeggia il cuore di Sydney nell’entroterra, dalla parte opposta al mare di Tasman. Il più grande magazzino australiano di Amazon (grande quanto 24 campi da rugby) è in piena funzione, tra poche ore le flotte di driver inizieranno a sparpagliarsi per una tra le “giornate di lavoro” (ormai in realtà la distinzione giorno/notte non corrisponde più alla dicotomia lavoro/sonno) più pesanti, quella del Black Friday, dove il giro di vendite di Amazon ha numeri da capogiro. La forza lavoro di Amazon, 1.2 milioni di impiegati diretti a livello globale, è oggi spremuta al massimo, e affiancata da altre centinaia di migliaia di lavoratori/ici assunti per l’occasione. Dopo Kemps Creek a partire saranno i driver di Daito, estrema periferia di Osaka (Giappone), assieme agli altri otto Fullfilment center (i magazzini in linguaggio amazonese) nipponici. Inseguendo il sorgere del sole toccherà quindi alle altre centinaia di magazzini sparsi per India, Arabia Saudita, Turchia, svariati paesi europei, per concludere la giornata in Brasile, Stati Uniti e Canada – i contesti nei quali opera quotidianamente Amazon.
Questa dorsale logistica planetaria che pompa merci all’interno di centinaia di milioni di abitazioni emette ogni anno cinquanta milioni di tonnellate di CO2, ma la multinazionale tecnologica ha progressivamente assunto un profilo da impero non basandosi solo su questa mega-macchina della distribuzione, bensì diversificando il suo business in maniera estremamente ramificata aggiungendo all’e-commerce il cloud computing, lo streaming digitale, l’intelligenza artificiale. Amazon è parte delle cosiddette Big Tech, tra le più influenti compagnie del pianeta e detiene un capitale di molto superiore al Pil di numerosi Stati. Il suo fondatore, Jeff Bezos, si è lanciato negli ultimi anni verso la nuova frontiera dell’economia spaziale, progettando turismo extra-orbitale per ricchi. Il 21 giugno 2021, dopo aver completato il suo volo inaugurale di 10 minuti fino alla cuspide dello spazio esterno e ritorno, dal deserto del Texas occidentale, Bezos, vestito con una tuta spaziale blu e un cappello da cowboy, ha mandato un tweet ringraziando i dipendenti e i clienti di Amazon, notando che: «Hanno pagato per tutto questo». Sui social è partita una ridda di commenti che dicevano che: «Sì, i lavoratori di Amazon hanno pagato con salari più bassi, la rottura dei sindacati, un luogo di lavoro frenetico e disumano, e gli autisti di consegna che non hanno l’assicurazione sanitaria durante una pandemia […] E i clienti di Amazon stanno pagando perché Amazon abusa del suo potere di mercato per danneggiare le piccole imprese».
Scena III – 16 marzo 2019
Sin dalla mattina violenti scontri avvolgono gli Champs-Élysées, una delle strade più famose e lussuose di Parigi e del mondo. Fino al 1616 in quella via c’erano dei semplici campi, fu Maria de’ Medici a far costruire un percorso alberato che si estendeva dal Louvre fino alla Tuileries. Attraverseranno le diverse stagioni della storia francese e tutt’ora sono un simbolo contestato. Fino a sera decine di migliaia di persone manifestano e a fine giornata moltissimi negozi di lusso e ristoranti esclusivi sono in fiamme. Numerosi i negozi saccheggiati e gli assalti ai blindati delle forze dell’ordine. Si stimano 200 milioni di euro di danni. La mobilitazione va in scena in tutto il paese e s’intreccia con i cortei per la giustizia climatica, e la giornata – il diciottesimo sabato di fila di protesta – è particolarmente dura perché cade il giorno successivo alla chiusura della consultazione nazionale proposta da Macron per dibattere su alcune rivendicazioni dei gilet gialli.
Le migliaia di pettorine catarifrangenti che si aggirano per le vie del lusso vengono spesso da fuori Parigi e sono il simbolo di un movimento nato a partire dalla scintilla di un aumento dei costi del trasporto, e non è un caso che sia una strada e non una piazza il terreno della loro battaglia. La forza del movimento è stata d’altro canto il blocco delle rotonde stradali diffuse su tutto il territorio, l’inceppamento della circolazione e l’interruzione dello scorrere del tempo capitalistico, dall’altro l’imposizione di una rigidità temporale che per mesi e mesi si è definita nella mobilitazione di tutti i sabati, gli Atti dei gilets jaunes.
Scena IV – 22 gennaio 2018
Più di 50 rider di Hong Kong si sono ritrovati davanti alla sede di Deliveroo in Jervois Street per dar vita a uno sciopero contro un cambio nella app con cui lavorano e che rischiava di abbassare le loro paghe. Qualche giorno prima anche in Belgio e Olanda i fattorini del food delivery – queste nuove soggettività del lavoro che hanno iniziato a popolare le strade delle principali città del mondo con i loro borsoni dai colori sgargianti quasi fossero degli enormi cartelloni pubblicitari su due ruote – per via della decisione dell’azienda di trasformarli in lavoratori autonomi. A Parigi durante un altro sciopero i loro colleghi del neonato Clap – Collectif des livreurs autonomes de Paris – hanno esposto uno striscione che recita: «La rue est notre usine». La strada è la nostra fabbrica. Uno slogan semplice ma che riassume efficacemente sia la dislocazione dei processi produttivi all’interno degli spazi urbani sia la costituzione di nuove soggettività operaie metropolitane. Scioperare non vuol dire tanto bloccare la produzione quanto inceppare i flussi, impedire la copertura di quel maledetto ultimo miglio che va fatto nel più breve tempo possibile. Ad aprile la prima assemblea italiana delle unions – forme innovative di sindacalismo metropolitano basate sull’auto-organizzazione e il conflitto – tenutasi a Bologna ha lanciato il primo logout collettivo dalle piattaforme di food delivery contro quella che i rider hanno ribattezzato “la schiavitù dell’algoritmo”. La data scelta non è casuale – il primo maggio – come a segnare una ricollocazione di questa figura emblematica del capitalismo delle piattaforme all’interno di un patrimonio collettivo di lotte di classe piuttosto che sotto l’ombrello della retorica neoliberale dell’imprenditore di sé stesso.
Intermezzo
Il découpage è un metodo di analisi critica di un film, che esamina nel dettaglio la messa in scena operata dal regista. Etimologicamente deriva dalla parola francese découper che significa frammentare. Possiamo dire di aver adottato metodologicamente un procedimento di analisi critica che ha scomposto in alcune scene i flussi capitalistici, frammentandole e approfondendole in quanto tali. In fase di post produzione si tratta però di rimontarle, provando dopo il primo approccio scompositivo a dar loro un differente significato. Questa operazione serve per togliere “normalità” alle operazioni del capitale, cercando di portarne in risalto quell’aspetto gotico, alchemico, fantasmatico che l’analisi marxiana attribuisce al capitale. La “realtà” del capitale è infatti popolata da entità spettrali, un «mondo stregato, deformato e capovolto in cui si aggirano i fantasmi di Monsieur le Capital e Madame la Terre, come caratteri sociali e insieme direttamente come pure e semplici cose» (Il Capitale, III, p. 943). L’oggettività spettrale della merce che fluisce cela al suo interno un arcano, la radice materiale dell’accumulazione. Lo sfruttamento del lavoro vivo. La doppia faccia degli “spettri di Marx”, dove il carattere fantasmatico del capitale deriva dall’avere carattere sociale ed essere una semplice cosa. E dove il lavoro vivo è spettro che può però tramutarsi in un “fantasma che si aggira”.
Lasciando a chi legge la possibilità di un proprio montaggio delle quattro scene da poco presentate, qui proponiamo una tecnica connotativa alla Sergej Ėjzenštejn. Ossia: frammentiamo l’immagine unitaria del capitale per costruire un significato differente attraverso l’associazione di scene che prese singolarmente avrebbero una valenza diversa. Proponiamo di seguito alcuni riquadri per questa diff ente traiettoria interpretativa.
Il punto che ci sembra importante da preservare è quello di costruire una comprensione “sofisticata” del presente che miri a tenere insieme uno scandaglio delle dinamiche “oggettive”, di potere e di comando – sistemiche se vogliamo – con i conflitti, le lotte, le alternative, i potenziali di rottura che si producono costantemente al loro interno. Legare, in altre parole, circolazione e riproduzione capitalista – la logistica del capitale – con il suo costante contro-piano – il fil rouge del lavoro vivo, della sua autonomia e della sua ribellione.
Per rimanere sulla metafora cinematografica, si tratta di praticare un continuo campo-controcampo, mostrare la caratteristica dialettica, la natura relazionale del rapporto di capitale, il suo sviluppo incerto, non lineare né predefinito. Di fronte a un presente che appare come un immane Capital Game apparentemente senza via d’uscita, suggeriamo di guardare alla radice antagonistica del rapporto di capitale, rovesciare e rimontare le sue scene, per scrivere finali differenti. Con Capital Game richiamiamo evidentemente la fortunata serie tv dal successo planetario Squid Game, e più in profondità intendiamo alludere al carattere complessivo assunto oggi dalla sussunzione reale capitalista.
I° riquadro: Le frontiere del conflitto
Il concetto di frontiera oggi ha assunto un significato epistemico decisamente ampio. Sandro Mezzadra e Brett Neilson hanno costruito un libro intero su questo termine,1 e anche nei loro lavori più recenti esso assume carattere cruciale. In generale ci sembra che l’utilizzo che fanno questi due studiosi del concetto di frontiera sia conseguente a un’analisi del capitalismo contemporaneo inteso come un rapporto sociale che, attraverso la sua capacità estrattiva, «attinge ai suoi molteplici fuori per sostenersi e perpetuarsi».2 Frontiera, in questo senso, definisce quanto sta all’interno del capitalismo e quanto sta potenzialmente “fuori” (come, ad esempio, le pratiche di cooperazione sociale) in una prospettica generale che vede il capitalismo alla continua ricerca/costruzione di nuovi territori da colonizzare e nuovi processi di accumulazione da innescare.
In linea con questa lettura, Nancy Fraser e Rahel Jaeggi hanno parlato delle spinte del capitalismo a spostare continuamente la frontiera tra «il politico e l’economico, la produzione e la riproduzione, la società umana e quella naturale non-umana, lo sfruttamento dalla espropriazione».3 E proprio a queste spinte si contrappongono quelle che hanno chiamato i boundary struggles (lotte di frontiera) utili a difendere pratiche e spazi non ancora sussunti dal capitale.
Andando a ritroso possiamo accostare queste due letture con l’analisi del conflitto che diede l’operaismo di matrice trontiana, collocandolo proprio nel punto più avanzato dello sviluppo capitalista (nella “frontiera” più avanzata). Esattamente di questo, in fondo, ci parlano le lotte dei facchini della logistica, le lotte dei driver di Amazon o dei rider delle molteplici piattaforme digitali di food delivery. Allo stesso modo, così ci parlano le molteplici lotte locali a difesa dei territori dalle spinte estrattive del capitale o le resistenze alle forme di finanziarizzazione della vita perpetrate attraverso l’estrazione e la rilettura algoritmica dei big data, la nuova frontiera del mining globale.
II° riquadro: Contro-logistica
“A ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”. Sembra Archimede. È la terza legge della dinamica. Nei termini di questo libro possiamo parafrasare dicendo che a forme di logistica più o meno violente sono sempre corrisposte forme di contro-logistica. Ad esempio, si possono considerare come forme di contro-logistica i moti di ribellione degli schiavi della tratta Atlantica. La cosiddetta “idra dalle molte teste” è stata la prima a contrastare la “più grande operazione logistica della storia”, vale a dire lo spostamento di milioni di schiavi verso il nord America. Nei secoli degli imperi globali, dove organizzazioni logistiche come la Compagnia delle Indie Britannica fungevano da veri e propri Stati esercitando sovranità in territori lontani dall’Europa, la contro-logistica dei pirati ha avuto per decenni l’obiettivo di minacciare i commerci delle grandi potenze europee, figli spesso di depredazioni e sfruttamenti in molteplici parti del globo. E poi potremmo richiamare la presenza di contro-logistica negli spazi urbani dell’Ottocento che si stavano trasformando in metropoli, nella fabbrica in espansione di inizio Novecento, e si può risalire agilmente fino all’oggi. Recentemente una vera e propria “logistica dei riot”4 ha puntellato il panorama globale. I riot, secondo Nick Dyer-Witheford e prima di lui Joshua Clover, sono “la forma di resistenza paradigmatica in un capitalismo sempre più circolatorio”. Da Parigi a Santiago del Cile, da Hong Kong all’Iran o al Canada, negli ultimi anni si sono moltiplicati gli episodi di contro-logistica e si è al contempo amplificata la loro efficacia. Dai blocchi della circolazione urbana anche durante la pandemia, agli episodi di scioperi dei portuali o dei facchini, questi lavoratori/ici e abitanti urbani si sono (ri)scoperti essenziali in periodi di lock down da Covid-19: la logistica oggi è ben lontana dal “sogno” di raggiungere una circolazione liscia e senza interruzioni di sorta. La contro-logistica impone alle grandi compagnie sonni meno tranquilli.
III° riquadro: Le soggettività algoritmiche
Sullo sfondo del nostro discorso abbiamo finora fatto leva su un assunto, ovvero che il capitale non sia una cosa o uno status, ma un rapporto sociale che si articola all’incrocio fra dispositivi di assoggettamento e pratiche di soggettivazione, dominio e sabotaggio, potere e resistenze. Abbiamo anche insistito sul carattere logistico e digitale del capitalismo contemporaneo. Questo non solo significa che le lotte di classe contemporanee sono inevitabilmente segnate dalla centralità della circolazione e della rete; ma implica anche il fatto che le soggettività prodotte all’interno dei rapporti sociali di un capitale logistico e digitalizzato non possano che essere soggettività algoritmiche. Il potere degli algoritmi, infatti, è innanzitutto un potere governamentale, produce delle condotte, plasma delle forme di vita tramite applicazioni, protocolli, standard. Quali sono oggi queste soggettività? Durante la nostra ricerca abbiamo iniziato a tratteggiare un quadro variegato, molteplice, frammentato di queste figure del capitalismo contemporaneo mutuando alcuni concetti da altre traiettorie del pensiero critico – ad esempio il cyborg – e raccogliendo nuove nominazioni sorte recentemente – i tangpinger, i nomadi digitali, i cyberflaneur.
L’elemento della soggettività, a nostro avviso, costituisce uno dei punti fondamentali dello sviluppo di un capitale logistico e digitalizzato per due motivi. Il primo ha a che fare con le dinamiche di valorizzazione. Oggigiorno i processi di riproduzione sociale sono sempre più al centro di una nuova accumulazione, le piattaforme si nutrono della cooperazione sociale – affettiva, comunicativa, produttiva – sviluppata dalle soggettività algoritmiche. Senza i dati prodotti dalle nostre interazioni non ci sarebbe gestione delle supply chain né profitto per molte aziende digitali. Inoltre – e qui veniamo al secondo punto – le soggettività algoritmiche non sono plasmate una volta per tutte ma evolvono, si sovrappongono, confliggono tra loro. L’imprenditore urbano che sogna di arricchirsi tramite Airbnb può rapidamente trasformarsi in un operaio sociale che a causa della pandemia inforca una bici e effettua consegne con Deliveroo. La costruzione delle soggettività algoritmiche è dunque punto di scontro politico ed economico fondamentale per la riproduzione stessa del capitale.
IV° riquadro: Nuovi territori
Un mondo fluido, liscio, che circola veloce come il denaro. Che assume le forme di un piano digitale, in cui si possono comandare operazioni just in time and to the point. In cui in maniera incessante, senza interruzioni, si definiscono circuiti che fanno scorrere valore intrecciando grandi miniere e zone di estrazione di materie prime in aree apparentemente “vuote” e isolate fino ad arrivare a consegnare a domicilio, nei cuori metropolitani, le merci prodotte dall’assemblaggio di tali materie prime con una variegata galassia di forme di forza-lavoro e di macchine sparse per il globo. Tra una zona di produzione del litio nei deserti delle saliere del Cile e la trasformazione di questo pregiato materiale e una persona che guida una Tesla nel centro di Londra, auto elettrica che necessita del litio per funzionare, intercorre una miriade di passaggi. Si devono attraversare oceani in navi porta-container, laboratori di trasformazione della materia prima, industrie, centri di programmazione high tech, porti, interporti, rimesse, immensi magazzini, uffici finanziari, e mille altri ancora. Il capitalismo contemporaneo mira a produrre spazi a propria immagine e somiglianza in una dimensione globale e interconnessa dall’infinita complessità. Nuove spazialità che assemblano forme “arcaiche” e ad alto consumo di risorse naturali e corpi, con forme iper-tecnologiche, senza soluzione di continuità.
Da un lato abbiamo dunque questi paesaggi emergenti, disegnati digitalmente e legati e governati tramite algoritmi e big data. Dall’altro però questa disseminazione e proliferazione di spazio-tempi si definisce anche attraverso la moltiplicazione di vecchie e nuove cartografie del conflitto sociale. Il processo di rivolta di un movimento come quello dei gilet jaunes non è emerso né a Parigi né in altre grandi città, e neppure dalle periferie o dai suburbi che le circondando. La scintilla e una grossa parte della composizione sociale dei gilet jaunes è piuttosto una popolazione che abita gli spazi urbani automobilizzati, gli ex-urbi, le grandi zone di impiego, i distretti dello shopping e dei centri commerciali, collocate al margine e tra le grandi centralità urbane. Una forma di azione politica suburbana, ex-urbana, o periurbana che dir si voglia, che si configura come novità assoluta per questi luoghi prodotti dalla grande neoliberalizzazione del territorio che ha caratterizzato Europa e Stati Uniti negli ultimi decenni. A questi nuovi territori del conflitto si legano lotte indigene e contro grandi opere come quelle contro piani estrattivisti in Amazzonia, contro infrastrutture come Standing Rock negli Usa o in Canada, scioperi inediti in magazzini periferici di Amazon sparsi per il globo. La territorialità planetaria emergente è insomma una sequenza di luoghi in tensione.
Sipario
Chissà se Geminiano Montanari avrebbe mai potuto immaginare il mondo contemporaneo, pur a partire dalle sue peregrinazioni e intuizioni che danno il segno di come alcuni processi che oggi viviamo abbiano una lunga provenienza storica. Una lunga storia, segnata però da continue rotture e cambi di direzione. Ci pare di poter dire che oggi proprio su queste ultime sia necessario lavorare, in un contesto globale in cui la stessa parola “crisi” non regge più, laddove in pochissimi anni si sono condensate crisi finanziarie, ecologiche, belliche, pandemiche, energetiche, del sistema internazionale, dei sistemi politici, etc. Viviamo un mondo in tensione che necessita di una continua ricerca di chiavi politiche e interpretative per essere compreso e sfidato. Con questo libro speriamo di riuscire a dare un piccolo e parzialissimo contributo in questa direzione, presentando alcune tappe del nostro lavoro di ricerca e invitando a scomporlo e rilanciarlo in un montaggio necessariamente collettivo. Qui abbiamo presentato alcune scelte, svoltesi il 22 gennaio 2018, il 16 marzo 2019, il 27 novembre 2020 e il 29 luglio 2021, che ripercorrono le mobilitazioni dei rider (emblema delle lotte nel capitalismo di piattaforma), la mobilitazione spuria dei gilet jaunes, il mondo di Amazon, e la logistica globale. Alcuni dei vettori che riteniamo strategici per gli anni a venire. E abbiamo proposto alcuni riquadri che attorno alle concettualizzazioni di frontiere del conflitto, contro-logistica, soggettività algoritmiche e nuovi territori provano a indicare una serie di possibili impostazioni politiche per approfondire il modo in cui i precedenti vettori possono comporsi.
Abbiamo, come già detto, volutamente lasciato a chi ci leggerà la possibilità di lavorare con questi strumenti e materiali grezzi per costruire nuovi montaggi e lanciare più avanti una capacità critica di interpretazione e intervento sul nostro presente. Con questo si chiude il sipario di questa lunga introduzione al volume e vi lasciamo con le 14 puntate che ne compongono la struttura.
Buona lettura e buon lavoro di montaggio!
Into The Black Box, Le frontiere del capitale, red star press, 2022
* Into the Black Box (www.intotheblackbox.com) è un percorso di ricerca politica nato a partire da differenti forme di conricerca nelle lotte logistiche del nord Italia. Nel tempo l’orizzonte del collettivo si è ampliato focalizzandosi sull’intreccio tra logistica, trasformazioni spaziali e mutazioni del lavoro. Negli ultimi anni l’attenzione si è concentrata in particolare sulle nuove tecnologie e la rivoluzione industriale 4.0, intessendo studi teorici e inchieste. La prospettiva di Into the Black Box mira ad analizzare in modo congiunto le trasformazioni capitalistiche e le soggettività che ivi confliggono. Nel 2021, Into the Black Box ha curato il libro Capitalismo 4.0. Genealogia della rivoluzione digitale.
Note
1 Ci riferiamo a S. Mezzadra, B. Neilson, Confi e frontiere, Bologna, il Mulino, 2015.
2 S. Mezzadra, B. Neilson, Operazioni del capitale. Capitalismo contemporaneo tra sfrut- tamento ed estrazione, Roma, manifestolibri, 2020, p. 58.
3 N. Fraser, R. Jaeggi, Capitalism. A Conversation in critical Th y, Polity Press, 2018, p. 54.