Le multinazionali fanno la spesa bio

Le grandi imprese transnazionali hanno cominciato a interessarsi seriamente ai prodotti biologici come dimostra il recente acquisto di Vegetalia da parte di Ebro Foods

di M. Angeles Fernàndez e J. Marcos

Il nome suona vicino, fresco e naturale, ma Ebro Foods invece nasconde un conglomerato aziendale che opera in più di venti paesi e che è formato da altrettante imprese che hanno sede a Varsavia, Teruel o Nuova Delhi. Il “dove siamo” del gruppo comprende ora una nuova bandierina nella provincia di Barcellona, a Moianès, la sede di Vegetalia, che include un casale in pietra e pannelli solari per l’autogestione. Una delle grandi imprese dell’agroindustria dello Stato spagnolo che aveva svolto un ruolo pioneristico nella alimentazione ecologica. E non per caso.

Nel corso del 1986, Salvador Sala Druguet decise di “dare un nuovo senso alla sua vita” e di condividere il suo “percorso di sviluppo” con gli altri, come racconta in una intervista dell’Associazione “Vita Sana”. In base a questa filosofia fondò una delle prime imprese di alimentazione biologica, vegetariana e vegana della Spagna, che vende circa 1.500 prodotti, che è pioniera nel campo della produzione di proteine vegetali, che ha oltre 80 dipendenti e che ha fatturato 11,5 milioni di euro nel 2016, il doppio dell’anno precedente.

Ebro Foods ha pagato 15 milioni di euro per poter impadronirsene. Per entrare nel mercato che essa rappresenta. Un anno prima, già aveva mostrato la sua nuova strategia imprenditoriale comprando il gruppo francese Celnat “pioniere nel campo della alimentazione biologica e uno dei produttori di cereali biologici più importanti di Francia”, secondo la nota informativa diffusa in quei giorni. Per l’impresa francese, che aveva fatturato circa 22 milioni di euro nel 2015, vennero pagati 25,5 milioni per “rinforzare la sua posizione nel campo della salute, attribuire maggior rilievo al compito che il settore bio va a svolgere all’interno del gruppo e per una collocazione più strategica all’interno delle nuove tendenze del settore alimentare”, spiegarono all’epoca.

È sempre più chiaro: più che cercare di condividere una filosofia del modo di intendere  l’alimentazione e il consumo, l’acquisto di queste due importanti imprese rappresenta un tentativo di entrare in alcuni mercati finora considerati diversi dai loro comportamenti quotidiani. In altre parole, cercano solo di guadagnare più denaro. Le cifre dei loro bilanci lo confermano: nel primo trimestre del 2017, Ebro Foods ha conseguito profitti per 51,6 milioni di euro, cioè in misura superiore del 19 per cento rispetto all’anno precedente. I risultati economici ”positivi” sono descritti in un comunicato stampa dell’impresa, che non ha voluto rispondere  alle domande fatte dal nostro giornale: “Il successo nel posizionamento di tutte le nostre grandi marche, europee e nordamericane, nei comparti dell’alimentazione biologica e del cibo sano, sta rendendo possibile l’apertura di una nuova via di crescita per il gruppo, ponendoci in posizioni di avanguardia nelle nuove tendenze dell’alimentazione. Per questo motivo abbiamo deciso, lo scorso mese di gennaio, l’inserimento della società Vegetalia, nella divisione Bio del gruppo”.

Dalla mostra “Le nostre radici si affondano nella terra”. Foto: Nuria Gonzàlez

UN SETTORE IN CRESCITA

I dati ufficiali confermano che il consumo di prodotti ecologici in Spagna è in aumento. Nel 2015 giunse a toccare i 1.500 milioni di euro (un aumento del 24,5 per cento rispetto al 2014). “La spesa per i prodotti ecologici è aumentato molto di più di quella per l’alimentazione e le bevande tradizionali, settore che negli ultimi anni è cronicamente stagnante”, sottolinea il rapporto “Caratteristiche del settore della produzione ecologica spagnola, in termini di valore e di mercato, riferite all’anno 2015” (disponibile in PDF) pubblicato dal Ministero Agricoltura, Pesca, Alimentazione e Ambiente.

Il documento aggiunge che “non vi è dubbio che questa evoluzione della domanda interna di alimenti ecologici perverrà a stimolare tutta la grande distribuzione e molte grandi industrie alimentari ad interessarsi per prendere in considerazione e a seguire, con una competitività e una promozionalità sempre più spinte, questo comparto in crescita del mercato agroalimentare spagnolo”. L’iniziativa di Ebro Foods non è casuale.

Phil Howard, professore all’Università del Michigan, e ricercatore sui temi dell’agricoltura e dell’alimentazione, spiega in una conversazione con la nostra redazione, che “le grandi imprese si sentono attratte dall’innovazione e dal tasso di crescita, che sono a  livelli molto più alti di quelli dei prodotti alimentari tradizionali. È molto più facile, per un grande multinazionale, comprare una impresa che ha sviluppato con successo una nuova categoria di prodotti, piuttosto che investire in innovazione al proprio interno. Le grandi imprese desiderano aumentare il loro potere nel futuro, e queste acquisizioni danno loro il controllo su nuovi segmenti di mercato”.

Le tendenze di fondo non sono limitate ad alcuni territori. Nei primi quindici anni di questo secolo il consumo mondiale di prodotti ecologici è aumentato di quasi sei volte, passando da 11.500 milioni di euro nel 2000 ai 65.000 milioni di euro stimati per il 2015 (sono stati 60.600 nel 2014), sempre stando allo stesso rapporto. Il ministero stima anche che la tendenza è verso l’aumento poiché ci sarà “un coinvolgimento sempre più importante delle industrie della distribuzione tradizionali nella trasformazione e nella vendita di prodotti ecologici, in una prospettiva di tassi più elevati di consumo e di vendita”.

DINAMICHE DEL SETTORE

Il cambio di mano di Vegetalia conferma una tendenza. L’impresa proprietaria di Cola Cao e Nocilla (Idilia Foods) ha comprato Biogrà. E, in precedenza, Natursoy, fondata da Tomàs Redondo, socio iniziale di Salvador Sala Druguet in Vegetalia, è stata comprata dal conglomerato francese Nutrizione & Salute. La multinazionale Danone vende in Spagna yogurt ecologici dopo aver acquistato una impresa degli Stati Uniti. La lista è lunga. Di fatto, negli Stati Uniti, che determina la tendenza, esiste un gran movimento di compravendita di imprese con etichette biologiche ed ecologiche: Coca Cola o Kellogg sono solo alcune di quelle che sono attive nel settore. “Tutte le statistiche indicano che il consumo di prodotti ecologici in Spagna è in aumento e il grande capitale sta vivendo il momento come una grande opportunità di fare affari. Questi prodotti rappresentano una forma di differenziazione che viene adottata per poter competere”, spiega a questa rivista Diego Roig, direttore della società di consulenza Ecological.bio.

Le grandi imprese agroindustriali, i fondi di investimento e la grande distribuzione non sono fuori da questa analisi del settore. È significativo che Amazon abbia comprato, in cambio di 13.000 milioni di dollari, la Whole Foods, una catena di supermercati presente negli Stati Uniti, in Canada e nel Regno Unito, impresa molto importante nella vendita al dettaglio di alimenti ecologici. Nello Stato spagnolo, Amazon già vende le vivande ecologiche dell’impresa Cocina Maruma. E Carrefour aprì la primavera scorsa il suo primo negozio Bio in Spagna, nel quale vende i propri prodotti. Spar, da parte sua, ha anche aperto due negozi simili alle Canarie, mentre El Corte Inglès ha creato una “isola” di prodotti ecologici.

I cambi di proprietà non sono delle operazioni puramente finanziarie, ma comportano delle modifiche ai principi che sono alla base dei prodotti ecologici. Cosa succederà alla sovranità alimentare, con le connessioni con il territorio, con il rispetto dell’ambiente, con la cura delle relazioni di vicinato? “In futuro, tutti questi sforzi diretti a creare delle alternative rispetto ai prodotti della grande impresa e ai suoi impatti negativi saranno assorbiti all’interno delle stesse grandi imprese. Anche se nel tempo alcuni di questi impatti negativi possono essere sopportati”, riflette Phil Howard.

Più ottimista si mostra Diego Roig, che ritiene ci possa essere spazio sia per le persone che consumano dei prodotti più tradizionali come per quelle che cercano di salvaguardare i principi dell’alimentazione ecologica. E afferma: è positivo il fatto che vi siano dei prodotti ecologici all’interno della grande impresa, perché ciò da visibilità e permettere di entrare in luoghi che finora non erano avvicinabili, anche se questo presuppone che si siano adeguati alle forme di funzionamento del sistema agroalimentare e che possano esserci dei rischi. Il gioco non appare semplice, osservando il caso della EbroFoods. Che cosa è questa impresa? Quali principi vengono rispettati?

UN PROFILO PIENO DI DUBBI, LA EBRO FOODS

I dati confermano che l’obiettivo della Ebro Foods è quello di ottenere maggiori profitti e maggiori entrate ogni anno. Per raggiungere questi obiettivi, le sue strategie sono state molto diverse, in certi casi non rispondenti ad alcuna etica e che si muovono in modo opposto ai principi della agricoltura ecologica e alla sovranità ecologica. Di fatto, in quanto agroindustria transnazionale, le attività e le forme di funzionamento della Ebro Foods provocano una serie di effetti negativi, come quelli per l’impianto per la lavorazione del riso in Marocco.

Un comunicato di Veterinari senza Frontiere rilancia la denuncia delle comunità contadine della località marocchina di Chlihate sulla occupazione delle terre e delle risorse naturali da parte della transnazionale del riso. “Era una zona di elevata ricchezza agricola, con terre molto fertili, la popolazione non solo è rimasta senza lavoro, ma anche senza la terra per produrre alimenti. L’occupazione, da parte di Ebro Foods delle poche terre che circondavano il paese è stata la goccia che ha fatto  traboccare il vaso producendo una chiara ferita del diritto al cibo della popolazione locale, provocata dall’impresa e sostenuta dal governo marocchino”. Il risultato della presenza di questa industria è stato, sottolinea l’organizzazione non governativa, una maggiore povertà e l’emigrazione.

Ebro Foods sviluppa strategie diverse, alcune mancanti di etica e in opposizione ai principi dell’agricoltura ecologica e della sovranità alimentare. Maite Navalòn Gòmez riferisce nel suo lavoro di tesi di laurea universitaria, pubblicato dall’Università Politecnica di Valencia, che “uno degli impatti più importanti che causa questo gigante è il controllo che esercitano all’interno del settore e che rende impossibile la concorrenza di prodotti autoctoni o ecologici”. Di fatto, nel 2013 fu condannata per condizionare i prezzi. El Pais sottolinea che “essere il leader mondiale del settore risicolo e al secondo posto in quello della pasta, permette alla Ebro di essere in una situazione ottimale per negoziare i prezzi dei cereali essenziali per realizzare i suoi prodotti”. E nelle sue conclusioni, Navalòn afferma che “le agroindustrie non generano benessere sociale nè ricchezza per la società, non creano posti di lavoro dignitosi e non rispettano la sovranità alimentare”. Tanto meno creano delle articolazioni dei territori rurali, e nemmeno stimolano relazioni basate sulla cura né la sostenibilità, le loro pratiche sono ispirate ai principi neoliberisti, come quelle che applicano i fondi di investimento o le complesse tele di ragno costruite dagli interessi delle imprese e della speculazione.

Continuando ad analizzare le partecipazioni azionarie, emerge anche un 7,9 per cento che è di proprietà degli eredi di Juan Luis Gòmez-trenor Fos (morto recentemente, fu una delle personalità importante per la  della Coca Cola in Spagna e uno dei più ricchi del paese, sempre secondo Forbes), nonché la presenza della famiglia del presidente Hernàndez Callejas: da un lato, attraverso l’ Hercalianz Investing Group (che controlla almeno in parte l’Istituto Spagnolo del Riso ed è rappresentata nel Consiglio di amministrazione da Felix Hernàndez Calleja, fratello del direttore della Ebro Foods) e, inoltre, dal  Gruppo Tradifin (anch’esso collegato all’Istituto Spagnolo del Riso e rappresentato da Blanca Hernàndez, già consigliera di Prisa). La  presidente della Fondazione Ebro gestisce il fondo di investimenti che controlla la Soixa, la “sicav” familiare, strumento finanziario con il quale si paga solo l’1 per cento delle imposte.

Le connessioni con i fondi pubblici di questa transnazionale non si realizzano soltanto attraverso la partecipazione del ministero delle Finanze con la SEPI nel suo azionariato, ma anche con sovvenzioni dirette come quelle della Politica Agraria Comune (PAC). La famiglia Hernàndez intascò, nel 2016, più di 28 milioni di euro, mentre la famiglia Carceller ha incassato più di 9 milioni di euro. Fino al 2010 non sono mai state rese pubbliche, le liste delle persone o degli organismi che avevano beneficiato di questi aiuti europei, e questo perché vi era una decisa opposizione di alcuni poteri che avevano interesse a tener segreto il numero delle entità che aveva goduto di questi benefci. Le famiglie presenti nella Ebro Foods hanno ottenuto una parte consistente della torta rappresentata da questi fondi, che erano nati per sostenere la struttura agricola e che avrebbero dovuto assicurare le dovute risorse nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale. L’esperta di politica ambientale e agricola dell’associazione per la transumanza e la Natura, Concha Salguero, spiega che “la PAC si è trasformata in una politica finanziaria e che vi sono molti gruppi d’interesse dietro le sovvenzioni. Se vanno a finire alle multinazionali, significa che dietro questi posizionamenti di mercato, c’è un forte interesse del settore finanziario”.

(*) ripreso da Comune-info; fonte: desplazados.org (traduzione di Alberto Castagnola).

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

2 commenti

  • Perfetto.
    Big FOOD vuole fare Big BUSINESS, del resto se ne frega.
    Usa i pasdaran vegan e vegetariani come forze messianiche di propaganda.
    Una bruschetta ischitana, pane, pomodoro e olio, per loro, non darebbe vegan. Il pane deve essere di quinoa, senza glutine etc.
    Quinoa? Ha fatto danni ambientali e sociali enormi. Coltivare quinoa per soddisfare i vegan e compagnia danzante si sono distrutte foreste e comunità autosufficienti. Bio, tutela dei lavoratori? Scordatevelo. Fanno fare il lavoro sporco lontano, lontano. Lontano dagli occhi foderati di prosciutto e ignoranza.

  • Ricordiamolo sempre: Hitler era vegetariano, e furono i nazisti i primi a costituire enti per la protezione della natura. Si può fare dell’ottimo bio facendo lavorare gli schiavi, ad impatto zero, senza usare le macchine, dandogli poco da mangiare in strutture non riscaldate e facendogli recuperare i propri rifiuti per farne compost per nutrire il terreno. Il problema è il mercato, alimentato dal consumo, a cui sembra che nessuno voglia rinunciare; e le multinazionali e la concentrazione dei profitti e delle proprietà, che vanno semplicemente distrutte, con ogni mezzo senza preoccuparsi se sia bio o no (l’uso del gas nervino o di qualunque altro mezzo rapido efficiente e letale sul 10% della popolazione mondiale può essere facilmente riassorbito dall’ecosistema).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *