Le nuove plebi globali dentro la crisi sistemica
di Giovanni Iozzoli
Carlo Formenti, Oligarchi e plebei. Diario di un conflitto globale, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 162, € 15,00
Il nuovo libro di Carlo Formenti è essenzialmente una raccolta di articoli, dispiegati come anelli di un ragionamento continuo e coerente sulla crisi e suoi suoi attori sociali, maturato lungo il corso degli ultimi sette anni. Al centro della riflessione troviamo i due campi in cui si spaccano le società occidentali dentro questa stagione di trasformazioni accelerate: quello delle nuove oligarchie che stanno usando la crisi per concentrare ulteriormente poteri e ricchezza; e quello delle nuove masse proletarizzate, che stanno manifestando una confusa e sempre più diffusa repulsione verso ideologie e prassi delle élite, senza che questa ripulsa maturi in direzione di un qualche progetto di alternativa di società.
La prima parte del libro raccoglie spunti di analisi – quasi una narrazione in diretta – che partono dal 2011 e si allungano fino al 2017. Le pratiche di un neoliberismo feroce e pervasivo, sono al centro di ogni riflessione: il loro incunearsi “microfisicamente” nel tessuto sociale, nella vita, nel bios, fino ai grandi scenari macro – la guerra, il ciclo economico, il rapporto finanza/produzione. Una cronaca in tempo reale del disastro della modernità capitalistica, che può essere letta e declinata a vari livelli.
Si può partire da un tema attuale – l’essenza delle ideologie workfare – a proposito della scelta inglese del 2012, di affidare ad agenzie private la gestione dei sussidi e la ricollocazione degli iscritti alle liste di collocamento:
Il principio del workfare (il sussidio di disoccupazione bisogna guadagnarselo, altrimenti si è passibili di sospensioni o decurtazioni dell’assegno) non è certo una novità, ma qui siamo in presenza di pratiche ancora più penalizzanti. Soprattutto perché il compito di gestire questo avvio al lavoro coatto non è affidato alla pubblica amministrazione bensì a contractor privati che funzionano di fatto come agenzie interinali e hanno il potere di decidere come e quando i soggetti “renitenti” siano passibili di sanzione. Per di più questi nuovi schiavi del XXI secolo non sono affatto utilizzati per svolgere lavori di pubblica utilità: puliscono uffici e abitazioni private, con il risultato che le imprese e gli individui presso i quali vengono “comandati” spesso licenziano i lavoratori che svolgevano in precedenza questo tipo di attività. Detto in poche parole: si sfruttano i disoccupati per creare nuovi disoccupati! A questo punto sorge una domanda: esiste una qualche differenza fra queste ignobili politiche e quelle dei governanti inglesi che, fra fine Settecento e inizio Ottocento, costringevano al lavoro coatto i “vagabondi” (cioè i poveri che rifiutavano di sottoporsi al regime schiavistico delle manifatture)? (p. 14)
E ancora, il tema della privatizzazione dell’istituzione carcere:
Da fonti di stampa apprendiamo che alcuni Stati americani avrebbero stipulato con le imprese dei contratti che li obbligano ad affidare alla loro gestione una quantità minima di detenuti. Insomma: le imprese pretendono che tutti i loro “letti” (per usare una metafora sanitaria) siano occupati, in modo da sfruttare al massimo la capacità produttiva della struttura. Naturalmente ciò impegna le amministrazioni pubbliche a condurre politiche ferocemente repressive anche nei confronti dei reati minori, onde poter fornire “carne fresca” ai carcerieri-padroni. (p. 18)
E il dramma sociale della sanità iperprivatizzata:
dopo la bolla del debito immobiliare, scoppiata nel 2008, e dopo quella del debito studentesco, che minaccia di scoppiare nei prossimi anni, sembra profilarsi una bolla del debito sanitario. Dentisti, dottori e altri operatori sanitari, in combutta con le società finanziarie, hanno infatti iniziato a offrire prestazioni a credito ai pazienti che non possono pagare. Chi cade in questa trappola si trova nelle condizioni di dover sborsare per anni rate gravate da interessi degni dei più efferati strozzini (fino al 30%). (p. 19)
Sulla diffusione dei corsi di laurea universitari on-line:
In un momento in cui l’università di massa è al centro di un duro attacco da parte dei governi neoliberisti, i quali, attraverso l’aumento delle tasse di iscrizione e il taglio delle risorse, cercano di ridurre il numero degli iscritti e di discriminare fra università di serie A (per formare le élite) e B (per formare una forza lavoro flessibile, disciplinata e destinata a svolgere attività esecutive e sottopagate), l’informatizzazione dei corsi è uno strumento ideale per agevolare il progetto: 1) corsi online e a basso costo per la maggioranza degli studenti, che così resteranno a casa evitando di creare pericolose concentrazioni umane (notoriamente nido di velleità sovversive); 2) disciplinamento mentale attraverso moduli didattici che incorporano idee e valori precodificati; 3) sontuosi profitti per le imprese che forniranno le infrastrutture hard e soft alle università digitalizzate. (pp. 20-21)
La sezione centrale del libro è dedicata alle trasformazioni del lavoro, dentro la durissima offensiva liberista che in occidente sta ridefinendo il rapporto salariato, i mercati del lavoro, le forme dello sfruttamento e quelle della resistenza sindacale. A tal proposito Formenti commenta la nascita di una grande associazione di tutela del lavoro freelance negli Usa, l’unica organizzazione sociale in rapido incremento:
la Freelancers Union non è un vero sindacato, bensì qualcosa di simile alle vecchie gilde professionali, un organismo che non ha – né rivendica – alcun potere di contrattazione con i padroni, ma serve a raccogliere fondi per finanziare servizi come l’assistenza sanitaria, che resterebbero altrimenti fuori portata per questi lavoratori “autonomi” […] un’alternativa “mercatista” al sindacato tradizionale: la Freelancers Union si concepisce infatti come un’azienda (sia pure non profit) nata per erogare servizi non ai membri di una classe sociale bensì a individui che vengono presentati come “imprenditori di se stessi”. Finché simili equivoci non verranno spazzati via, non ci saranno speranze di restituire ai lavoratori quel potere che, per sua stessa natura, non può essere che collettivo. (pp. 46-47).
E i rischi del “taylorismo digitale”:
Negli ultimi anni è prevalsa la convinzione che lo spirito del taylorismo sia tramontato assieme alla fabbrica fordista, sostituita da un modo di produrre che – grazie alle tecnologie digitali – si fonda sulla creatività e sull’autonoma capacità di cooperare dei lavoratori. Questa visione ottimista è andata in crisi a mano a mano che ci si è resi conto del fatto che le nuove tecnologie – in particolare gli algoritmi del software – incorporano una serie di regole, procedure e schemi cognitivi che sono in grado di controllare/disciplinare i comportamenti del lavoro “creativo” in misura non inferiore di quanto la catena di montaggio facesse nei confronti del lavoro fordista. (p. 49)
Per arrivare alla degenerazione estrema delle vecchie figure dello sfruttamento salariato – il lavoro gratuito come estremo adattamento alla nuova organizzazione produttiva:
Finiti i tempi della gerarchia e dell’autoritarismo [Formenti cita tesi in voga nella sociologia del lavoro americana], viviamo in un’epoca in cui la prima preoccupazione dei capi non dev’essere più farsi obbedire, bensì fare in modo che i subordinati siano sempre più autonomi e capaci di decidere da soli. […] Secondo un altro articolo, esiste un sistema infallibile per creare questo clima di cameratismo, familiarità reciproca, condivisione ed entusiasmo per la “missione” comune: basta convincere i dipendenti a svolgere lavoro volontario (e gratuito) nei weekend e al di fuori del normale orario di lavoro. […] Tutto questo mi ricorda la campagna di arruolamento di migliaia di giovani volontari per l’Expo milanese, sedotti dal miraggio di un’esperienza che – garantiscono partiti, media, istituzioni e imprese – potrà offrire loro brillanti opportunità future di impiego. (pp. 57-58)
E sugli scioperi nel settore pubblico, commentando un articolaccio liberticida del «Corriere della Sera», a firma Dario Di Vico:
Il messaggio di fondo – cosa aspettiamo a metterli fuorilegge? – è chiaro, ma vale la pena di approfondirne alcuni aspetti. Partiamo dai titoli. Il pezzo di sinistra, quello che fa la cronaca dello sciopero, inalbera sopra a un titolo a effetto (Città in coda aerei a terra), un occhiello che recita:Lo sciopero delle sigle minori blocca i mezzi pubblici, frase che contiene un evidente paradosso: se le sigle sono minori, come mai riescono a bloccare i mezzi pubblici e a raccogliere elevate percentuali di adesione (a Palermo si è arrivati al 78%)? […] Vedrete che una formula per rendere gli scioperi illegali si troverà. Auspicabilmente con l’appoggio delle sigle confederali [che] esorta Di Vico, abbandonino ogni “pigrizia” e si facciano parte attiva per stroncare le velleità dei sindacatini. Un vero grido di guerra, condito da un appello demagogico agli “interessi dei più deboli” vale a dire precari e partite Iva che sarebbero i più danneggiati da questi scioperi. Di Vico recita questa litania un giorno sì e l’altro pure, come se i precari non fossero il prodotto – e le prime vittime – di quelle politiche economiche di cui lui è uno dei più solerti piazzisti. (pp. 62-63)
Tra l’altro la recentissima produzione normativa della Commissione di Garanzia, sta praticamente azzerando il diritto di sciopero per migliaia di lavoratori del trasporto pubblico locale, nel silenzio generale, come fosse una faccenda irrisoria e non un vulnus decisivo alla Costituzione.
La sezione più dolente – e spietata – è quella in cui Formenti descrive la parabola tragica e suicida di tutte le sinistre occidentali, dalla socialdemocrazia agli “tisprasiani” di ogni sorta. L’essersi candidati a gestire il progetto neoliberista, o aver sostenuto l’utopia di un “altra Europa possibile”, ha prodotto un terreno di macerie nel cuore di quelle società in cui, nei “trenta gloriosi”, era prosperata l’esperienza (e il mito) del patto sociale e del compromesso capitale-lavoro. Al tradimento dei partiti dell’Internazionale Socialista e del mondo progressista, segue, tra il 2016 e il 2017, un domino impressionante di sconfitte elettorali epocali: Hollande, la Brexit, Illary Clinton e Matteo Renzi, tutte tappe di una via crucis delle élite, anche intellettuali e accademiche, che avevano teorizzato per anni la “terribile bellezza e la geometrica potenza” della globalizzazione e delle sue mortifere politiche gestite in salsa social-liberale. E mentre le élite sociali manifestano una chiara incapacità di prevedere e controllare le scelte dei popoli, le sinistre politiche brancolano nel nulla.
In entrambi i casi le élite hanno manifestato tutto il loro disprezzo nei confronti dei proletari sporchi, brutti e cattivi che si sono ribellati ai loro diktat. Imitati, ahimè, dalle sinistre (anche radicali!) che hanno detto che non si può stare dalla parte degli operai inglesi perché sono egemonizzati dalla destra razzista e xenofoba. (p. 78)
Le sinistre “per bene” di ogni risma, negli ultimi anni, risultano scioccate e spiazzate da opinioni pubbliche che sono in totale “dissonanza cognitiva e valoriale”, rispetto alle loro fruste narrazioni. La vittoria di Trump negli Usa fa emergere questo sconcerto; Formenti riprende Mark Lilla e il dibattito tra gli allibiti progressisti americani dopo la vittoria di Trump:
l’ossessione per le differenze identitarie – e la retorica “politicamente corretta” che l’accompagna – che pervade da decenni scuole, media e università americane, scrive, ha prodotto una generazione di progressisti “narcisisticamente inconsapevoli delle condizioni dei soggetti esterni ai loro gruppi autocentrati”. Molti di costoro sono convinti che il discorso politico si esaurisca nella narrazione delle diversità e “non hanno praticamente nulla da dire in merito a questioni come le classi sociali, la guerra, l’economia e i beni comuni” […] Questo atteggiamento ha influenzato a tal punto i giovani giornalisti, intellettuali e operatori della comunicazione da renderli del tutto ciechi di fronte a ciò che non riguarda i temi identitari (p. 79)
Un panorama di macerie che però non è un vuoto (in politica non esiste questo concetto) quanto piuttosto un campo aperto, attualmente presidiato dalla galassia delle forze populiste. Su questo mondo, Formenti è molto esplicito:
non va dimenticato che il populismo, pur se si dichiara né di destra né di sinistra, è sempre ideologicamente orientato: può produrre ridistribuzione del reddito, solidarietà e amicizia fra i popoli, come è avvenuto per i populismi bolivariani, ma può anche produrre razzismo, nazionalismo e intolleranza, come avviene con i populismi alla Salvini e alla Le Pen. Detto altrimenti: il populismo è oggi il terreno su cui si gioca la sfida di un cambiamento radicale, con tutti i rischi relativi, mentre la democrazia reale è il terreno su cui germogliano oppressione, sfruttamento, dominio sulle masse popolari da parte dell’élite economica e politica (p. 77)
Quello di Formenti, in questi anni, è la traiettoria lucida, rigorosa e a suo modo iconoclasta, di un intellettuale che si è scisso definitivamente dal “progressismo”, dai miti “spinelliani”, da ogni idea di “campo democratico”, dal ripugnante “political correct” che diventa linguaggio religioso della modernità e cerca nell’individualismo solipsistico, nel civismo a chilometri zero, in una idea di libertà fondata sull’assimilazione acritica dell’american way of life, una sua qualche ragion d’essere:
è da qualche decennio che gli intellettuali più intelligenti nel campo della sinistra hanno avviato una riflessione in merito al fatto che, oggi, la critica della società capitalistica non può non accompagnarsi a una critica radicale dell’ideologia “modernista” e della sua grottesca variante postmoderna, il “nuovismo” (p. 83)
La raccolta si chiude con una sezione sanamente intitolata “Polemiche”. Qui l’autore sceglie di polemizzare “dentro” al suo campo, quello del pensiero critico. E i suoi bersagli sono certe sbracature “moltitudinarie” che non sanno più leggere la complessità della stratificazione e delle gerarchie di classe, coltivando il mito di una dimensione orizzontale della cooperazione produttiva già pronta per essere rovesciata come un guanto; o contro gli intellettuali radical che guardano al “popolo” come teppa reazionaria che si lascia ammaliare dai pifferai del populismo; o contro la volgarità di coloro che lanciano accuse di “rossubrunismo” ogni volta che si apre una riflessione seria sulle categorie (storiche non metafisiche) della sovranità nazionale. È la parte più densa del libro, quella forse meno accessibile al lettore occasionale, ma anche quella in cui la vis polemica e il solido retroterra di Formenti, gettano legna nel fuoco del dibattito politico e teorico contemporaneo. E Dio solo sa se ce n’è bisogno.
Effettivamente Carlo Formenti è uno dei pochi intellettuali che vale la pena di leggere, stante il disorientamento provocato dal filone post -operaista, a partire da Antonio Negri e la sua corte. Quel che è chiaro a Formenti è il concetto di lotta di classe condotta da un quarantennio dalle classi dominanti e il loro obiettivo dichiarato: ” costruire una società più giusta con meno sindacato ” ( pag.55 ), giacchè la vulgata che vorrebe tutti imprenditori di se stessi presuppone la dissoluzione dell’identità di classe.Inoltre, Formenti mantiene un saldo orizzonte internazionalista e i suoi strali sull’arroganza neocoloniale in America Latina (pag 115-116 ) e l’unità antimperialista di Correa e Morales sono da incorniciare, se consideriamo quanto sta avvenendo di grave in quel continente.