Le parole fanno male?
Ho tenuto da poco (con Christiana De Caldas Brito) un bellissimo laboratorio – per qualità dei e delle partecipanti in primo luogo – di scritture a Bologna. A un certo punto è partita (o almeno sembrava stesse per prendere il via ma orologi con denti aguzzi ci hanno morso nei polpacci e bloccato) una discussione sulle parole corrette-scorrette. Provo a riassumere cosa è successo perché mi sembra interessante.
In un esercizio ho trovato la parola “razza” (“razza peruviana” se la memoria non mi inganna) così ho chiesto – mi sembra senza avanzare certezze – una riflessione sull’uso di parole come questa: cioè che hanno un carico di storia (e di sofferenza) addosso. Oltretutto la stra-grande maggioranza degli scienziati oggi concorda che le razze non esistono; a paradossale (o ironica) conferma di ciò, i razzisti – che invece (purtroppo) esistono – non riescono a mettersi d’accordo su quante razze vi siano: 4, 15 oppure 130? (NOTA 1)
Nella breve – purtroppo brevissima – discussione che è seguita c’è chi ha notato che nei miei messaggi e persino nel parlare io cerco sempre di usare la doppia declinazione maschile-femminile: care/i, studentesse e studenti…. E’ una scelta, non un tic. Commentando gli esercizi del primo sabato avevo scritto: «la maggioranza delle persone ha usato il maschile (per esempio “aspiranti scrittori”) pur se nel corso ci sono più donne. E’ una questione aperta: linguistica ma direi ancor più socio-politica. Ognuna/o è ovviamente libero di scegliere se accettare le consuetudini “maschilo-centriche” oppure contestarle anche nella scrittura. Il mio parere, per quel che conta, è che chi non viene “nominato” non esiste e dunque per non escludere metà del mondo sarebbe meglio cercare una maniera per evitare che parli solo il maschile (o un ingannevole neutro)». Sarebbe meglio cercare…
Alcune persone hanno sollecitato a continuare questa discussione a lato del laboratorio, cosa che in effetti è accaduta (e chi fosse interessata/o può vedere su: http://assemblealegislativa.regione.emilia-romagna.it/studenticittadini/Forum/forum.asp).
Allora ho accennato alcune questioni, più domande che risposte.
Non è un decalogo…
1 – Le parole contano? Nella scuola di don Milani (NOTA 2) si pensava di sì, addirittura si sosteneva che (cito a memoria, dunque all’ingrosso) «l’operaio sa 500 parole, il padrone 5mila… per quello lui è il padrone». Forse non è così (o non è più così) ma mi pare uno spunto assai interessante.
2 – Le parole (come i simboli) hanno una storia. La frase «Il lavoro rende liberi» non suonerebbe così tremenda se non fosse stata usata dai massacratori per sbeffeggiare le vittime; dagli anni ’30 del ‘900 la svastica è, in gran parte del mondo, un simbolo di orrore eppure in India è disegnata tuttora come “buon augurio” perché questo significa nella tradizione millenaria di quella cultura.
3 – Le parole hanno una storia complessa che magari crediamo di conoscere ma che forse ignoriamo. Ecco una piccola provocazione. «Le nostre parole fono e fonetica – insistette il ragazzo – inizialmente usate per indicare non i suoni bensì la loro rappresentazione scritta, insomma le lettere dell’alfabeto, le hanno inventate sì i greci, ma come? Copiando di sana pianta proprio dal nome che essi stessi avevano dato al popolo che chiamavano fenici». (NOTA 3)
4 – Le parole cambiano significato nel tempo? Su questo non c’è dubbio. (O magari invece lo credo solo io?).
5 – Alcune parole spariscono? Certo ma non sempre dipende dalla lingua piuttosto dalla “storia”. Se dovessi fare due esempi direi: nessuno dice più «sfruttamento» e raramente si sente parlare di «giustizia sociale»; ricordo che alcuni studenti di un corso mi hanno replicato che lo stesso concetto di «giustizia sociale» è riassunto in «solidarietà» ma a me risultano due parole/concetti legate sì da parentele ma certo non sinonimi.
6 – Usiamo alcune parole (o frasi) in modo errato? Certo, di continuo. Ma credo che adoperare impropriamente l’espressione «nell’occhio del ciclone» (o «a 360 gradi») non sia particolarmente significativo se non della nostra superficialità in questioni scientifiche; più interessante sarebbe capire perchè noi italiani chiamiamo «Medio Oriente» quello che visibilmente è dal punto di vista geografico «il vicino Oriente» (e infatti questa è l’espressione usata dai francesi).
6 bis – Se invece di «Africa» scrivo e dico sempre «Afriche» è un errore, una mania o sto cercando di comunicare qualcosa?
7 – Le parole vengono rubate e fanno figli? Su questo mi permetterete di citare una poesia scrita in siciliano (spero non occorra traduzione).
«Un populu mittitilu a catina spugghiatilu attuppatici a vucca è ancora libiru. Livatici u travagghiu, u passaportu a tavola unni mancia u lettu unni dormi, è ancora riccu. Un populu diventa poviru e servu quannu ci arrobanu la lingua addutata di patri: è persa pi sempri. Diventa poviru e servu quannu i paroli nun figghianu paroli e si manciano tra d'iddi» (NOTA 4) 8 – Forse «il linguaggio è una pelle: io sfrego il mio linguaggio contro l'altro»; o almeno così ha scritto Roland Barthes.
9 – Conviene non sprecare le parole. Seguendo il suggerimento di Eduardo Galeano: «la mia regola è usare soltanto parole che migliorino il silenzio».
9 bis – Se un tipo famoso (Gianfranco Fini) dichiara che un razzista è uno «stronzo» e la successiva discussione linguistico-politica si concentra sulla parola «stronzo» invece che sulla parola «razzista» di chi è la colpa se non si è migliorato il silenzio?
10 – Credo che conoscere poche parole (dunque usare un solo linguaggio sia in senso letterale che metaforico) possa essere un limite. O addirittura una prigione se prendete per buoni questi versi:
«Conoscere una sola lingua,
un solo lavoro,
un solo costume,
una sola civiltà
conoscere una sola logica
è prigione». (NOTA 5)
11- La parola libera, opprime, pesa? Questo è il punto. La discussione resta aperta. In genere le parole, pur importanti, contano meno dei fatti: forse – e sottolineo il forse – su questo siamo tutte e tutti d’accordo ma è per scrivere la parola giusta – in un romanzo, in una Costituzione, in una canzone d’amore – che si passano notti insonni.
12 – In ogni caso conviene usare le parole nel modo migliore. Scrivendo, parlando, persino pensando. Per questo concludo parafrasando Leo Szilard (NOTA 6). Lui ha scritto: «Gli americani erano liberi di dire tutto quello che pensavano, visto che non pensavano quello che non erano liberi di dire?»; e io lo traduco così: «Noi esseri umani oggi siamo liberi di dire tutto quello che pensiamo e di trovare le parole giuste, visto che non pensiamo quello che non siamo liberi di dire e che non conosciamo le giuste parole?». Faccio notare il punto interrogativo.
Per ora mi fermo qui.
Daniele
NOTA 1 – Nello «stupidario» finale del bel libro di Gianantonio Stella «Negri, froci giudei & co» (Rizzoli, 2009) c’è addirittura una classificazione con 128 varianti del (solo) «meticcio bianco-nero».
NOTA 2 – Scuola di Barbiana, «Lettera a una professoressa», Libreria editrice fiorentina (1967 e successive ristampe).
NOTA 3 – Pino Nicotri, «Vicolo Scanderberg», Marsilio 1999.
NOTA 4 - Ignazio Buttitta (la poesia è del gennaio 1970, adesso non ricordo dove sia stata pubblicata). NOTA 5 - Ndjock Ngana, «Vivere» (idem, cioè su due piedi non ricordo in quale sua antologia si trovi) ma potete leggerla su questo blog.
NOTA 6 – La frase di Leo Szilard è in «La voce dei delfini», 1965: Feltrinelli (ora ristampato in due diverse edizioni: L’ancora del Mediterraneo e Orecchio Acerbo). Szilard è uno scienziato atomico “pentito” che ha efficacemente indossato le vesti di scrittore.
che è successo alla nota 8? iniziava in modo così bello “il inguaggio è una pelle…” vorrei conoscere il seguito.
tutto molto interessante e da riflettere, ci vorrebbe un angolino del giorno solo per questo!
ripensando alla questione del Medio Oriente, mi sovviene che in inglese c’è uno strano divario: ad oggi si dice Middle East, ma per l’antichità si usa il Near East. Si è allontanato nel tempo? oppure c’è un altro East che si è posto di fronte?
per ultimo: ma gli altri commenti non si leggono in questo stramblog?