Le proteste in India dopo il femminicidio di Moumita Debnath

di Anna Ghedina (*)

Una piazza straripante di donne, ripresa dall’alto, probabilmente attraverso un drone, con al centro uno spiazzo libero, delimitato e accerchiato da persone.
Nella porzione di terreno visibile, adornata da decine di candele, si legge la frase curda “Jin, jiyan, azadî” affiancata dalla sua traduzione in bengalese.
Donna, Vita, Libertà.
Lo slogan nato sulle montagne del Kurdistan, e diventato il grido di libertà delle donne rivoluzionarie in tutto il mondo, atterra qui, nell’agosto del 2024.

Trovo il video che riprende questa scena tra uno dei centinaia di reels e immagini che da ore sto scrollando sotto l’hastagh #justiceformoumitadebnath.
Non so quale sia la città, la manifestazione potrebbe essere a Kolkata (Calcutta) come a Nuova Delhi.
Il luogo non viene menzionato.
Mi fermo perché tra centinaia di video in bengalese, meme e immagini generate con l’AI che raffigurano Moumita Debnath, quella scritta parla un linguaggio globale, una lingua che capisco anche io, che rappresenta il filo che ci unisce nonostante gli oceani e i dizionari che ci separano. Donna, Vita, Libertà. নারী জীবনের স্বাধীনতা.
Ma facciamo un passo indietro, perché questa scritta?
Chi è Moumita Debnath?
Dove ci troviamo e cosa è successo?

Ci troviamo a Kolkata, India.
Il 9 agosto 2024 alle 11:30 viene ritrovato, nell’ospedale e college di RG Kar, il corpo della studentessa tirocinante Moumita Debnath.
Alla famiglia di Moumita la polizia dice che si è trattato di un suicidio, non gli permettono di vederla per ore, dicono solo che si trovava in stato psicotico. Segue la ormai nota dose di victim blaming da parte del primario dell’ospedale che afferma che è stato “irresponsabile” da parte della vittima trovarsi da sola a quell’ora della notte.
Da sola, di notte, pazza: è logico che si sia trattato di un suicidio.
Caso chiuso. Non necessita di nessuna autopsia, nessuna investigazione.

Eppure, secondo i dottori e le dottoresse, secondo gli affetti di Moumita, c’è qualcosa che non torna. Decidono che il corpo della loro collega non può lasciare l’ospedale scortato dalla polizia. Le prove non possono essere cancellate, bisogna fare luce su questa faccenda. Serve fare giustizia.
I video che circolano su X li riprendono mentre lottano con le unghie e con i denti per impedire alla camionette di lasciare il complesso (1).
E ce la fanno. La verità inizia a venire a galla. L’autopsia viene fatta e le investigazioni hanno inizio.
Si tratta di femminicidio e stupro di gruppo.Moumita Debnath è stata uccisa.
L’autopsia rivela dei particolari agghiaccianti che non trascriverò.

Informazioni che iniziano a circolare celermente: la foto del foglio con la descrizione dell’autopsia viene pubblicata, ovunque, con allegate anche le immagini del suo corpo nella stanza dell’ospedale. Informazioni terrificanti che però hanno la potenza di essere come benzina sul fuoco già acceso delle proteste. Quello che hanno fatto a Moumita, al suo corpo, alla sua dignità è orrendo, ma per le donne indiane deve essere scritto, gridato, ricordato nelle piazze. Deve essere nominato, non può rimanere taciuto.

La sera del ritrovamento del corpo di Moumita accade un episodio sconcertante: l’ospedale viene preso d’assalto da centinaia di uomini, nominati “goons”, scagnozzi.
Distruggono tutto, appiccano fuochi  e spaccano i vetri della struttura. I medici che si trovano all’interno fuggono, impauriti.
Si tratta di un attacco premeditato, un attacco che potremmo definire “squadrista” mosso da una becera “fratellanza machista”.
L’attacco è mirato e ha degli obbiettivi chiari. Cancellare le prove, rendere impossibili le investigazioni. Ci riescono, distruggono il campus e dopo ore vengono cacciati con un fitto lancio di lacrimogeni da parte della polizia di Kolkata.
Chi stanno cercando di coprire? Chi li ha mandati? Perché’

Circolano diversi articoli e testimonianze che sostengono che ci sia qualcosa di più profondo sotto questa faccenda, qualcosa che le istituzioni, lo stato e il primario stanno cercando di coprire. Si parla di traffico di organi e di medicine. Moumita lo sapeva e non voleva stare zitta. Riceve molteplici minacce, non si spaventa. Decidono di eliminarla, ma non prima di averla umiliata e violentata.
Questa è l’ennesima storia di potere, machismo, complicità. Uomini che stuprano e uccidono insieme, per poi proteggersi a vicenda.
Ma è anche la storia che le donne e i popoli in rivolta decidono di riscrivere, lottando affinché la verità emerga e sia fatta luce sulla vicenda (2).

Si tratta dell’ennesimo episodio per l’India, un paese che già in passato si è mobilitato contro la violenza di genere.
Moumita viene infatti chiamata Nirbhaya2, nome che ci porta al 2012, quando a Delhi una giovane donna di 22 anni subì uno stupro di gruppo a cui non sopravvisse. La donna fu rinominata dalle proteste Nirbhaya, fearless, senza paura: questo perché in India una legge non permette alla stampa di pubblicare il nome delle donne che vivono stupri e violenze.
Moumita, la “seconda” senza paura.

A seguito di quel femminicidio, si sollevò un movimento moltitudinario che chiedeva soluzioni e risposte alla violenza dilagante in tutto il Paese.
La risposta da parte dello Stato fu quella di inasprire le pene per chi commetteva reati sessuali, creare nuove leggi ma soprattutto l’inclusione della condanna a morte nel caso in cui la donna venga uccisa o mandata in coma irreversibile.
Questo è ciò che chiedono anche le numerose manifestazioni di questi giorni: la notte del 15 agosto migliaia di donne hanno manifestato in tutta l’India chiedendo giustizia e verità per Moumita Debnath; da giorni centinaia di medici stanno scioperando al grido di “Niente sicurezza, nessuna cura” e il 17 agosto L’IMA (Indian Medical Association) ha dichiarato sciopero generale, ​​durante il quale gli ambulatori sono rimasti chiusi, garantendo solo le operazioni urgenti.

A chiamare una protesta – o sarebbe meglio dire un comizio da set cinematografico, a vedere le foto che sembrano finte – è stata anche la governatrice del Bengala Occidentale Mamata Banerjee, gesto che ha scatenato non poche critiche.
La governatrice che organizza una manifestazione contro il suo stesso governo?
La stessa che manda la polizia a reprimerci?”. La contraddizione è lampante e sui social circolano hashtag che chiedono le sue dimissioni, meme che la ridicolizzano e molte critiche alle sue numerose dichiarazioni problematiche come “gli stupri accadono perché uomini e donne interagiscono più liberamente ora“.

Invece, X e altri social sono colmi di video delle manifestazioni del movimento, dove si vedono cortei infiniti di persone con candele e fiaccole in mano che marciano. Non camminano silenziose e a testa bassa, no, non si tratta di veglie funebri, ma di passeggiate notturne, rumorose e arrabbiate.
I cartelli, molti anche in inglese, hanno scritto sopra “the night is ours”. Perchè se di notte ammazzano una nostra sorella, in mille ce la riprendiamo. E se la notte è nostra allora usciamo, ci organizziamo, scioperiamo e insieme non conosciamo paura (3).
Molti cartelli incitano anche alla vendetta, alla pena di morte con disegni di cappi e “no mercy for rapist”, ma altrettanti parlano di educazione e consenso.
Le rivendicazioni sono le stesse espresse dal movimento formatosi nel 2012, con in più la richiesta che quelle leggi e quelle pene vengano realmente applicate, poiché, seppur presenti sulla carta, nella pratica migliaia di denunce di violenze non trovano risposte o processi per anni (4).

Questo è uno dei fattori che porta molte donne indiane ad autorganizzare la difesa in gruppi, come quello della Gulabi Gang, cioè la “gang rosa”.
Davanti all’incapacità delle istituzioni di trovare soluzioni alla violenza di genere un gruppo di donne ha deciso di autorganizzare la propria giustizia.
Così, per esempio, quando si trovano a dover fronteggiare una violenza intervengono andando a parlare con il marito o con il violentatore e, nel caso in cui il suo comportamento non cambi, lo puniscono, prendendo con loro la donna che ha subito violenza.
La punizione è fisica e avviene attraverso l’uso del lathi, un bastone di bambù che portano sempre con sé e che usano come arma. Insegnano alle donne ad utilizzarlo per difendersi e come strumento punitivo.

“… la forza che ne scaturisce non si limita a una replica uguale e contraria della violenza subita, che è mortifera e dettata dalla volontà di dominio e coercizione. Nasce da una necessità vitale: è autodifesa della vita” (Giulia Siviero- fare femminismo a proposito della gulabi gang)

L’autodifesa e la punizione sono innegabilmente diverse.
Da dove siamo situate la grammatica del movimento femminista radicale, grazie al femminismo nero e al femminismo comunitario, è anti-carceraria, abolizionista e indaga la giustizia trasformativa dentro le comunità. Noi continueremo a vedere nel carcere un’istituzione violenta, ingiusta e utile a isolare la marginalità, cancellando le determinanti sociali che portano a compiere un reato, deresponsabilizzando lo Stato e le altre istituzioni e fallendo nel limitare la recidiva e trasformare radicalmente i comportamenti violenti.

Questo non può né renderci cieche né giudicanti.
Il nostro materialismo deve darci uno sguardo lucido sulla realtà, riconoscendo le diverse storie, stando in ascolto delle diverse rivendicazioni senza arroganti e irrealizzabili pretese di universalità e esportazione di ideali. Il nostro sguardo abolizionista non può essere aprioristico né ideologico e quell’istinto che bussa e mi chiede di prendere posizione, non è altro che l’uomo occidentale bianco che risiede in ognun* di noi e che spinge per manifestarsi ad ogni costo.

E in questo momento il nostro internazionalismo ci investe invece della responsabilità di far circolare questa storia e la reazione moltitudinaria che sta scuotendo l’intero Paese, in un occidente in cui dopo dieci giorni si fa ancora fatica a trovare delle informazioni attendibili (5).

Concludo con un estratto dell’intervento di chiusura delle donne zapatiste del primo incontro internazionale, politico, artistico, sportivo e culturale delle donne che lottano nel caracol zapatista della zona tzotz choi, (da “El acuerdo es vivir, Interventi e comunicati delle donne ribelli dell’EZLN).

Teniamo accesa quella piccola luce.

Sorelle e compagne:

Questo giorno, 8 di marzo, alla fine del nostro intervento, ognuna di noi ha acceso una piccola luce.

L’abbiamo accesa con una candela, perché durasse, perché con un fiammifero si sarebbe spenta rapidamente e un accendino avrebbe potuto rompersi.
Questa piccola luce è per te.

Portala con te, sorella e compagna.

Quando ti senti sola.

Quando hai paura.

Quando la lotta è dura, così come la vita, accendila di nuovo nel tuo cuore, nel tuo pensiero, nelle tue viscere.
E non tenertela, compagna e sorella.

Portala alle desaparecidas.

Portala alla assassinate.

Portala alle carcerate.

Portala alle violentate.
Portala alle maltrattate.
Portala alle molestate.

Portala alle violentate in tutte le forme.
Portala alle migranti.

Portala alle sfruttate.

Portala alle defunte.

Portala e dì a tutte e a ognuna di loro che non è sola, che lotterai per lei.

Che lotterai per la verità e la giustizia che merita il suo dolore.
Che lotterai perchè il dolore che porta non si ripeta in un’altra donna in qualsiasi parte del mondo.

Portala e trasformarla in rabbia, in coraggio, e fermezza.

Portala e uniscila ad altre luci.

Portala e, forse, arriverai a pensare che non ci sarà né verità, né giustizia, né libertà nel sistema capitalista patriarcale.

Allora forse ci torneremo a vedere per dare fuoco al sistema.
E forse sarai con noi a preoccuparti che nessuno spenga quel fuoco fino a che non sarà rimasto altro che cenere.

Allora, sorella e compagna, quel giorno che sarà notte, forse potremmo dire con te: “bene ora sì cominciamo a costruire il mondo che meritiamo e che necessitiamo”.

Allora forse capiremo che comincia il bello, perché adesso ci stiamo solo allenando per essere coscienti della cosa più importante di cui abbiamo bisogno.
E quello di cui c’è bisogno è che mai, più nessuna donna nel mondo, di qualsiasi colore sia, peso, età, lingua, cultura, abbia paura.
Perché qua sappiamo bene che quando si dice “basta!” è solo l’inizio del cammino e che manca sempre quello che manca. (6)

(*) Tratto da Global Project.

Note:

[1] https://www.bbc.com/news/articles/c89wgzkdw1vo.amp

[2] https://www.google.it/search?q=indian.protest&ie=UTF-8&oe=UTF-8&hl=it-it&client=safari

[3] https://www.washingtonpost.com/world/2024/08/17/india-rape-kolkata-doctor-protest/

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alexik

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