Le rivoluzioni violate: 5 anni dopo le “primavere arabe”
di Valentina Bazzarin
Più che una brevissima recensione questo è un consiglio di lettura per “Rivoluzioni violate. Cinque anni dopo: attivismo e diritti umani in Medio Oriente e Nord Africa”, curato da Osservatorio Iraq e Un Ponte Per… pubblicato dalle edizioni dell’asino.
Vorrei che questo consiglio arrivasse nei giorni in cui si ricorda e (forse) si celebra la Resistenza, nell’anno del 70simo compleanno della Carta Costituzionale di cui i giovani e l’ANPI hanno recentemente difeso l’impianto e i valori con il loro NO! al Referendum e dopo un primo turno di votazioni in Francia, in cui è emerso come l’elettorato esasperato dall’assenza di politica guardi con fiducia alla promessa di cambiamento delle destre becere e vigliacche, manovrate dalle banche o ambiziose di poter reprimere.
Questo libro rappresenta il primo volume della collana intitolata “Libri necessari” ed è stato pubblicato negli ultimi mesi del 2016. Considero indispensabile questo supporto alla riflessione – è disponibile sia che nella versione cartacea che in quella digitale – per almeno due motivi legati al nostro presente: per capire perchè decreti come quello Minniti e Orlando siano pericolosamente simili ad azioni simili messe in atto in altri Paesi e per un aggiornamento dell’analisi su quanto sta accadendo oggi nei Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, cinque anni dopo le cosiddette “Primavere arabe”. I Paesi raccontati dagli attivisti direttamente coinvolti nelle lotte di ieri e di oggi sono Tunisia, Egitto, Siria, Iraq, Palestina, Marocco e Libia. Attraverso lo sguardo e le parole di chi gode ancora oggi della libertà di raccontare le pratiche con cui si difendono i diritti umani nella regione Mediterranea e si reclamano giustizia, diritti e libertà.
Vi consiglio una lettura guidata da almeno 3 curiosità:
- conoscere i movimenti meno raccontati del 2011 (come quello Palestinese o quello Iracheno) e le motivazioni profonde che hanno spinto tanti giovani a scendere nelle piazze sperando di poter costruire l’alternativa dal basso;
- ritrovare voci che nel brusio della sfera pubblica siano capaci di distinguersi e di destare di nuovo la nostra attenzione e l’interesse storiografico alle testimonianze dirette di ieri e di oggi su quel che accade nelle strade e nelle piazze delle città del Medio Oriente e dal Nord Africa. Questo libro permette di scoprire come non esista solo il paradigma rivoluzionario occidentale e che nel 2011 il fermento di milioni di giovani cresciuti nel “mondo arabo” ha saputo cristallizzare le sue istanze e ha iniziato un percorso originale tra le “pratiche di lotta”, sfruttando anche le opportunità di generare e condividere informazione attraverso il web;
- ricominciare a riflettere e a raccontare di come lo “stato di eccezione” – la definizione è di Agamben – “stia anche oggi giustificando e cristallizzando la totale sospensione del diritto internazionale, del diritto umanitario e perfino dei più basilari diritti umani, politici e civili, innescando un cortocircuito paradossale tra apparato normativo e prassi del potere, al livello domestico come a livello internazionale. La plateali violazioni del diritto da parte degli Stati sono costantemente legittimate dal carattere “eccezionale” del contesto in cui avvengono, senza che ci si interroghi sulla reale natura “terroristica” della minaccia o su quanto la minaccia stessa possa essere costruita o alimentata dal potere stesso allo scopo di legittimare la sua prassi, per l’appunto “eccezionale”.
Nell’ultimo capitolo del libro, le motivazioni che hanno spinto Mohanad a rendersi protagonista della vita politica in Egitto e, in particolare dei giorni di speranza in piazza Tahrir, riescono a rendere chiara la necessità per ogni “occidentale” di riflettere su quanto avvenuto 5 anni fa nel Mediterraneo e seguire il filo di una efficace contronarrazione sull’eredità delle primavere arabe:
“eravamo stati abituati a vedere i cambiamenti del nostro Paese come una chimera, ma quando la rivoluzione è iniziata abbiamo capito non solo che il cambiamento era possibile, ma che era lì, alla nostra portata”
per poi confidare all’intervistatore, qualche pagina dopo,
“oggi combattiamo un regime che è peggiore di quello precedente e che sta spingendo tanti giovani a lasciare il Paese. Spero ancora in un Egitto migliore, ma mi rendo conto che accusare i rivoluzionari del 25 gennaio per i problemi attraversati dal Paese negli ultimi 5 anni non sia un bel segnale.”