Le vene aperte del Nicaragua
Le maquiladoras territori autonomi all’interno dello Stato. Nella pratica non devono fare altro che pagare l’elettricità e l’acqua che consumano e mantenere i rapporti con i ministeri del Lavoro e della Salute, oltre che con l’INSS.
di Bái Qiú’ēn
Le terre restavano esauste, come i lavoratori: alle terre rubavano l’humus e ai lavoratori rubavano i polmoni; ma c’erano sempre nuove terre da sfruttare e sempre più lavoratori da sterminare (Eduardo Galeano, 1971).
…questo è il nostro impegno, care famiglie nicaraguensi, ecco perché parliamo di Pueblo Presidente ed è per questo che oggi giuriamo e diciamo che tutti si alzino in piedi perché qui il presidente è il popolo (Daniel Ortega, 10 gennaio 2022).
Alcuni anni fa, non molti per la verità, una carissima amica occupata in una delle tante zone franche di esportazione sparse per il Nicaragua, con lo sguardo triste ci raccontò che era costretta a mangiare mentre lavorava, a spizzichi e bocconi. Se faceva una pausa per il pranzo o per la cena, in base ai turni, il tempo che perdeva le veniva scalato dal salario. Non poteva permetterselo, avendo una madre anziana e due figli ancora piccoli, con i padri chissà dove.
E aggiunse che tutte le ragazze che lavoravano con lei, facevano lo stesso. In tutta evidenza, nutrirsi è un terribile vizio che i lavoratori e le lavoratrici nicaraguensi dovrebbero perdere. Non si può costruire il socialismo del XXI secolo senza un po’ di sacrifici, che diamine! Deus vult! ¡DOS lo quiere! Il socialismo del XXI secolo non è mica un pranzo di gala.
Ricordiamo come se fosse ieri la nostra visita a una fabbrica di prefabbricati poco fuori Mosca. Aleksej Stachanov era ancora attivo, ma si limitava a dirigere alcuni impianti minerari e non aveva il dono dell’ubiquità. Erano gli anni della piena stagnazione brezneviana, e il direttore ci disse che, avendo la necessità di abitazioni, si lavorava su tre turni di otto ore. In ognuno era compresa mezzora di sosta per mangiare e dieci minuti ogni ora per fumare una sigaretta o per andare in bagno. Senza dubbio per colpa di questo notevole lassismo è crollato il socialismo reale nell’Est europeo e in Nicaragua mica si vuole fare la stessa fine, per ritrovarsi con un ubriacone alla guida del Paese. Per il socialismo del XXI secolo, molto meglio un huevón (in Nicaragua, questo termine significa: agguerrito, audace, coraggioso, gagliardo, valoroso).
Le elezioni del 25 febbraio 1990, senza dubbio le più osservate nella storia del Nicaragua, con la sconfitta inaspettata del gallo ennavajado chiusero il periodo rivoluzionario, ponendo fine all’economia centralizzata e mista, nella quale coesistevano tre tipologie di proprietà: quella dello Stato, quella collettiva con cooperative denominate Area Proprietà del Popolo (APP) e quella privata. La liberalizzazione del mercato sancito dalle nuove leggi segnò sia la fine delle fabbriche e delle cooperative con la partecipazione diretta dei lavoratori sia il ritorno di varie forme di investimenti stranieri, comprese le zone franche avviate da Anastasio Somoza Debayle nel 1965 (nel 1979 erano appena dodici con ottomila dipendenti). Dal 1979 al 1990, nel decennio della Rivoluzione Popolare Sandinista, funzionavano cinque zone franche con tremila lavoratori, completamente statalizzate e sotto il controllo della Corporazione Industriale del Popolo (COIP). Grazie alla Ley de Zonas Francas Industriales de Exportación del 22 novembre 1991 le maquilas (o maquiladoras), come le chiamano in America latina, sono diventate una valvola di salvezza nella disperata ricerca di un lavoro per quelle fasce di popolazione che occupano lo scalino più basso nella scala della disuguaglianza. Coloro que andan con las palmas al suelo, come si dice in loco.
Al termine del governo di Violeta Barrios le imprese straniere operanti nelle zone franche erano 17 (con 9mila dipendenti), con quello di Arnoldo Alemán salirono a 33 (con 35mila dipendenti) ed Enrique Bolaños le aumentò ancora un po’ (34 maquilas con 45mila dipendenti).
Se la memoria non ci inganna sull’anno, nel 1998 le strade di Managua erano tappezzate da cartelloni giganteschi nei quali si leggeva: «Il governo vi invita a ricostruire e a trasformare insieme il Nicaragua. Il lavoro è la soluzione! Le zone di libero scambio offrono un’occupazione immediata».
Nonostante la perversa romanticizzazione dei vari governi neoliberisti in favore delle maquilas in quanto strumenti di una politica teoricamente desarrollista, questi centri produttivi a bassa tecnologia che richiedono una manodopera abbondante e poco formata, non comportano alcun investimento diretto nel Paese: sono esenti da qualsiasi carico fiscale comprese le imposte doganali sia in entrata sia in uscita, ovvero non contribuiscono in alcun modo a rimpinguare le casse dello Stato. Neppure un centesimo: ancora meno delle concessioni minerarie di cui abbiamo parlato di recente. Il 100% dei profitti resta nelle tasche degli imprenditori, poiché queste imprese, in base alla legislazione vigente, «deben considerarse como situadas fuera del territorio nacional para efectos fiscales» (Legge n. 917 dell’8 ottobre 2015, art. 4).
A tutti gli effetti, sono territori autonomi all’interno dello Stato. Nella pratica non devono fare altro che pagare l’elettricità e l’acqua che consumano e mantenere i rapporti con i ministeri del Lavoro e della Salute, oltre che con l’INSS.
Non vi sono dubbi che il neoliberismo porti con sé il disprezzo per l’esistenza dei soggetti più vulnerabili della società e si sono scritte migliaia di pagine sulle condizioni di lavoro in questi veri e propri inferni in terra, principalmente fabbriche di subfornitura internazionale di prodotti tessili e dell’abbigliamento in generale, anche se non mancano i tabacchi, i mobili e l’assemblaggio elettronico. Senza trascurare la costante violazione dei diritti umani dei lavoratori e soprattutto delle lavoratrici (non occorre molta fantasia per comprenderne il motivo). Tutto ciò era denunciato a livello internazionale da una solidarietà attenta alle reali condizioni di vita della popolazione nicaraguense negli anni del neoliberismo, ma oggi… tace, perché i muri hanno orecchie. O, più probabilmente, perché su alcune orecchie si sono costruiti dei muri.
Tralasciamo pure noi questi argomenti, non perché non esistano più o non siano in taluni casi peggiorati, ma per affrontarne altri che ci stanno maggiormente a cuore, rispetto all’atteggiamento del governo socialista del comandante Daniel. Il quale, dopo avere dichiarato nell’ottobre del 2007 che queste imprese super-sfruttatrici non sono indispensabili e che sarebbe stato meglio che lasciassero il Paese, immediatamente dopo non solo le legittimò ma le incrementò in quanto creavano opportunità di lavoro e facevano calare sensibilmente il tasso di disoccupazione, propagandando una sorta di realismo economico che non può essere messo in discussione: alla metà del 2010 le maquilas erano già 150, con oltre 76mila dipendenti; nel 2012 erano 166 con 103mila dipendenti. E via aumentando, anno dopo anno. La logica economica capitalistica aveva ormai acquisito lo status di verità assoluta e le buone intenzioni servivano solo per lastricare la via nicaraguense al socialismo del XXI secolo.
A suo tempo, ci era parso di capire che l’obiettivo principale perseguito dal socialismo del XXI secolo fosse il pieno e completo progresso umano, non lo sviluppo per lo sviluppo, non l’economia per l’economia né la politica per la politica o il potere per il potere. In poche parole, l’obiettivo era la costruzione di una società in grado di superare il capitalismo.
Da qualunque parte osserviamo la questione delle maquilas in Nicaragua, ci pare che la direzione imboccata dal Buon governo sia esattamente opposta alle quelle aspirazioni. Ben lontana da una società alternativa al sistema capitalista e alla sua logica del profitto a ogni costo. Come in tante altre occasioni, probabilmente avevamo capito male.
Il primo dato da non trascurare è quello del saccheggio dei beni della Stato proseguito senza interruzioni dal 1991 a oggi. Non sappiamo quanto poteva entrare nelle casse erariali dal 2007 imponendo una minima tassazione sui profitti di queste imprese straniere. Sappiamo però che è un danno irreparabile, poiché mai potranno essere recuperate. Forse, però, è un problema secondario rispetto ad altri.
Un dato non marginale è rappresentato dalle caratteristiche della popolazione. Secondo l’ultimo censimento effettuato, risalente al 2005, il 29% era nella fascia d’età compresa tra il 15 e i 29 anni. La maggiore richiesta di manodopera nelle maquilas oscilla nella fascia compresa tra i 16 e i 25 anni. Se poi pensiamo al futuro, sempre nel 2005 il 37% della popolazione aveva tra gli 0 e i 14 anni: una manodopera in abbondanza, disponibile negli anni successivi. Un serbatoio quasi inesauribile di esseri umani da usare e gettare, poiché il ricambio non manca.
Le maquilas testimoniano con la loro sola presenza che, facendo leva sui livelli endemici di povertà con sacche rilevanti di miseria, si è volutamente evitato di creare posti di lavoro con condizioni dignitose, sostenendo invece un sistema economico totalmente in mani private e consentendo al tempo stesso l’arricchimento degli imprenditori stranieri (e anche nazionali) con la scusa della «riattivazione» economica. Al 31 dicembre 2021 gli occupati nelle zone franche erano 132.832, secondo i dati forniti dalla statale Commissione Nazionale delle Zone Franche (CNZF), la quale dipende direttamente dal presidente della Repubblica. Per questo 2022 si prevede che salgano di ulteriori 13.800 unità. Per quanto siano l’unica fonte disponibile per un’occupazione di massa, i dipendenti delle maquilas corrispondono a meno del 5% della popolazione economicamente attiva (stimata in circa tre milioni di persone).
Le ispezioni del ministero del Lavoro sono programmate di comune accordo con gli industriali. Sistema che piace parecchio al nostro beneamato Renato Brunetta, non a caso di origini socialiste: «Basta ai blitz con le mitragliette: nel prossimo futuro, prima di ogni controllo ci sarà una telefonata…». Nei rari casi in cui scoprano un’irregolarità, piccola o grande che sia, si limitano a inviare una notifica all’azienda e la cosa finisce lì. Una semplice pratica burocratica evasa.
A quanto pare, non è una priorità del Buon governo il miglioramento delle condizioni di lavoro in questo settore del Pueblo Presidente.
Da qualunque lato lo si osservi, si tratta di un sistema assai lontano persino da un modello di capitalismo con inclusione sociale e più simile a una moderna schiavitù. Del resto, secondo alcuni, il termine maquila deriva dal basco makila, il bastone simbolo del potere e della forza impugnato dal lendakari, ossia il capo del governo.
Altro problema non certo secondario è che la maggior parte delle lavoratrici e dei lavoratori concludono il loro ciclo utile verso i 35-40 anni, con il fisico completamente rovinato, spesso disabile, a causa della costante ripetizione per milioni di volte del medesimo e monotono movimento (fino a 20mila al giorno). La maggior parte delle imprese delle Zone Franche sono nel ramo tessile e questo tipo di lavoro non richiede una preparazione tecnica, bensì soltanto abilità produttiva intensa ed estenuante. (Con il termine «tessile» intendiamo tutto ciò che ha a che fare con l’abbigliamento, comprese le Nike, le Adidas ecc.).
Per la cronaca, l’attività lavorativa media oscilla tra le 49 e le 51 ore settimanali, con la realizzazione di centinaia di prodotti al giorno per ogni singolo lavoratore/lavoratrice. All’orario normale si sommano spesso gli straordinari, per avere un po’ di soldi in più. Dal 1° gennaio 2022 il salario minimo è di 7.498,46 córdobas, poco più di US$ 200 al mese, circa US$ 7 al giorno (il più basso dell’America Centrale). Con il cottimo e gli straordinari si possono raggiungere i 250-260 dollari. In compenso, alla stessa data la canasta básica, ossia ciò che serve per sopravvivere a una famiglia composta da due adulti e tre minori, è di 16.255,38 córdobas (circa US$ 500).
Con la situazione internazionale che stiamo vivendo, alla fine di aprile la FAO ha lanciato un allarme sull’aumento dei prezzi di numerosi generi alimentari di prima necessità. Per cui la forbice tra il salario minimo e la canasta básica è destinata ad aumentare sensibilmente. Non solo: a partire dal 27 febbraio (fate caso alla data) il tanque di Tropigas da 25 libbre, ossia la bombola di gas butano liquido usato per cucinare è salito a 436 pesos (US$ 12,5). Nel gennaio del 2021 costava 329 pesos (US$ 10). La differenza potrebbe sembrare infima, ma per chi ha un salario minimo di US$ 200 al mese…
Qualcuno potrebbe obiettare: se l’orario di lavoro prevede almeno otto ore al giorno per sei giorni a settimana, alle quali si deve aggiungere il tempo di viaggio per l’andata e il ritorno alla propria abitazione, a che servono altri soldi se non ci sono possibilità di spenderli in svaghi e bagordi? Il tempo libero che resta è necessario dedicarlo al riposo, per poter ricominciare il giorno dopo… ab libitum. Una condizione di vita appena un po’ migliore rispetto alla descrizione dei lavoratori britannici fatta da Friedrich Engels nel 1845.
Nel 1993 i dipendenti delle maquilas erano circa settemila, soggetti pure ai facili licenziamenti. Nel 2006 erano saliti a 45mila, anche grazie all’entrata in vigore del CAFTA-DR, che era fortemente osteggiato dal Frente Sandinista e dalle organizzazioni sindacali. Durante una grande manifestazione, nel settembre del 2005, lo stesso Daniel affermò che «La gente che lavora nelle Zone franche sa perfettamente che questo trattato non li beneficerà, perché guadagneranno solo i commercianti della tela che verrà comprata fuori dal Paese, i proprietari delle maquilas che vendono i prodotti sul mercato internazionale». E aggiunse: «Chi si beneficerà veramente sono i ricchi di questo Paese, ai quali non interessano le conseguenze sociali e non si rendono conto che per la loro voracità […] saranno loro quelli che hanno da perdere quando questo popolo rifarà le barricate».
Belle parole, presto dimenticate.
Attualmente i lavoratori delle maquilas sono circa 120mila, donne nella stragrande maggioranza, e nell’indotto lavorano almeno 350mila persone, compresi anziani e bambini (senza alcun controllo di nessun tipo da parte delle istituzioni socialiste). Il consumatore finale della maggior parte dei prodotti risiede principalmente negli Stati Uniti, dove è esportato oltre l’80% della produzione tessile.
Non occorre essere dei geni della matematica per calcolare che nello stesso periodo di tempo (sedici anni) i governi neoliberisti avevano concesso un super-sfruttamento dei lavoratori assai inferiore a quello accordato dal Buon governo socialista. Non certo per bontà d’animo, ma perché la macchina era agli inizi e doveva ancora essere bene oliata. Questa è la realtà fattuale, al di là di ogni retorica. Le autorità del Buon governo mantengono un costante atteggiamento di tolleranza nei confronti degli industriali, per evitare che gli investimenti stranieri che generano queste migliaia di posti di lavoro in condizioni precarie e di quasi schiavitù non vengano ritirati dal Paese.
Anzi, in occasione di nuovi investimenti gringos nelle zone franche, il 9 luglio 2021 il solito Laureano Ortega ha twittato che «El Gobierno de Nicaragua continúa promoviendo, atrayendo y desarrollando nuevas inversiones en este 2021, creando empleos y bienestar para el país».
Ci pare indiscutibile che, a tutti gli effetti, il Buon governo accetti a scatola chiusa la neoliberista divisione internazionale del lavoro, associata all’idea dell’inesorabilità che non esistono alternative. E incrementando dall’alto la folle e generalizzata “filosofia di vita” iper-conservatrice: «si è sempre fatto così, perché cambiare?».
L’arma più efficace di cui dispongono queste imprese transnazionali è nella fornitura di numerosi posti di lavoro, per cui qualsiasi protesta che metta in discussione la loro presenza e i loro affari le porterebbe ad abbandonare il Paese, lasciando centinaia di persone senza alcun reddito. Come ci disse parecchio tempo fa una lavoratrice di una maquila a Tipitapa: «è l’unica corda alla quale ci possiamo appendere».
Di fronte a questa realtà, a poco serve la retorica antimperialista e anticapitalista del comandante Daniel, la quale è utile solo a illudere sulla continuità di un’identità sandinista ormai svanita da tempo. La realtà delle scelte politico-economiche mostra una direzione esattamente contraria a ciò che dovrebbe essere il socialismo del XXI secolo, il quale dovrebbe operare per modificare totalmente il sistema delle relazioni economiche attraverso la razionalizzazione dei processi produttivi e lavorativi, l’eliminazione del profitto, la crescita sostenuta della ricchezza e la crescente soddisfazione dei bisogni della popolazione. Ma, forse, abbiamo capito male.
Alla fine dello stesso 2021, le esportazioni di prodotti delle maquilas hanno superato il valore di 3,5 miliardi di dollari. Grosso modo equivalenti allo stesso importo delle esportazioni normali, però senza che un solo centesimo sia entrato nelle casse dello Stato. Potrà servire per dire che il PIL è cresciuto, ma null’altro. In compenso la spesa pubblica per incidenti sul lavoro e malattie professionali aumenta costantemente, anno dopo anno (con l’eccezione del 2020-’21 a causa della pandemia).
Per correttezza informativa, occorre dire che in base alla normativa i privilegi fiscali valgono per un quindicennio. Però, quando si avvicina il momento di iniziare a versare qualche spicciolo nelle casse dello Stato, gli imprenditori minacciano di andarsene e le esenzioni sono prorogate sine die.
Quanto poco le cifre delle esportazioni e del PIL incidano sul concreto quotidiano del Paese, è attestato dalla finanziaria per il 2022, la quale prevede un’entrata complessiva di 2.600 milioni di dollari. Ovviamente derivanti in massima parte dalle imposte, che non riescono a coprire neppure le spese correnti (per cui si spera nelle donazioni e, male che vada, alla richiesta di prestiti bancari internazionali).
Considerato che l’IVA sulla maggior parte dei prodotti è al 15%, con una imposta insignificante dello 0,1% sul volume delle merci esportate dalle maquilas, nel 2021 sarebbero entrati 3.500 milioni di dollari nelle casse dello Stato. In alcuni Paesi dell’America latina si applica una tassazione minima, come l’1% in Paraguay (Tributo Único Maquila), e non pensano minimamente di trasferirsi altrove perché comunque realizzano lauti profitti.
Mediamente, un paio di jeans con tanto di etichetta e relativa confezione costa alla produzione US$ 8, con lo 0,1% di tassazione si arriverebbe a US$ 8,08. Sempre mediamente, il consumatore li paga un centinaio di dollari, quando non molto di più in base alla marca e al modello.
Con la Legge n. 917 dell’8 ottobre 2015 l’Asamblea Nacional ha approvato un deciso miglioramento delle condizioni per le imprese che operano nelle zone franche a scapito dei diritti del lavoro (nel testo non si parla mai di lavoratrici/lavoratori) e all’inizio del novembre successivo a Managua si svolse la XIX Conferenza internazionale delle zone franche, con il tema «Las Américas, el continente de nuevas oportunidades». Organizzata da PRONicaragua, parteciparono oltre duecento delegati provenienti dall’America, dall’Europa e dall’Asia. A portare il saluto del Buon governo, naturalmente, l’immancabile mandamás Rosario: «Molte congratulazioni a tutti coloro che sono qui riuniti, siamo lieti di avervi in questa patria libera, bella, sempre benedetta e vi auguriamo un buon risultato nello sviluppo delle vostre riflessioni, delle vostre relazioni e delle vostre discussioni. Sono riflessioni, relazioni e discussioni che rappresentano molto anche per il nostro Paese nel cammino di lavoro e di pace che il nostro presidente, il comandante Daniel, ha tracciato per questa Patria». È Daniel che traccia il solco…
È d’altro canto vero che il Buon governo del comandante consente la costituzione di sindacati di fabbrica, mentre i precedenti neoliberisti lo impedivano in tutti i modi. Però, stando ai dati del 2017, su 179 imprese esistevano solamente in 43. Uno splendido risultato dopo dieci anni di Buon governo. E, sebbene qualche piccolo diritto si sia ottenuto, non solo sono costanti le violazioni dei diritti sindacali, ma troppo spesso i sindacati stessi servono come semplice cinghia di trasmissione del partito-Stato: dal 2007 a oggi nessuno sciopero è stato indetto, poiché la pace sociale è uno dei cavalli di battaglia per attrarre gli investimenti stranieri. Non occorre andare chissà dove per comprendere questa realtà del sindacato-anestetico: basta ripensare al periodo in cui Romano Prodi era presidente del Consiglio e alla contestuale retorica sindacale nostrana sul «governo amico».
Nonostante che nessuna misura sanitaria sia stata assunta dal Buon governo per fronteggiare la pandemia, per cui ci si poteva recare tranquillamente al lavoro, a causa della diminuita domanda internazionale, le maquilas lavoravano al 50% della loro potenzialità e avevano licenziato parecchie migliaia di persone (si parla di circa ventimila, ma chi riesce a trovare dati ufficiali è bravo). Un’altra grossa fetta di lavoratrici e lavoratori avevano accettato di continuare la loro attività a metà salario, pur di mettere qualcosa in tavola per loro e per i loro figli.
Il 24 marzo 2020 fu sottoscritto un «Accordo di lavoro tripartito per l’Emergenza nazionale Covid-19» tra il governo, le imprese e i sindacati nel quale si stabiliva una serie di alternative di lavoro per il settore delle zone franche. La durata era trenta giorni, termine che non è mai stato prorogato, come se l’emergenza sanitaria in Nicaragua si fosse conclusa alla fine dell’aprile 2020. Quando tutto il mondo era chiuso all’interno delle proprie abitazioni.
Nel gennaio dello scorso anno, il Movimiento de mujeres trabajadoras y desempleadas María Elena Cuadra (MEC) aveva pubblicato un documento con svariate testimonianze. Una di queste vale per tutte: «Dal 1998 ho lavorato successivamente come operaia negli stabilimenti Chin Hsing, Rocedes, Formosa e Astro Cartón. Sono entrata nel 2011 alla Sincotex e nell’aprile del 2020, quando è arrivata la pandemia, sono stata licenziata. Ho 48 anni e soffro di tendinite, tunnel carpale, artrosi cervicale, emicrania, ho pure problemi alla vista e alle reni. Sono sei malattie che colpiscono tutto il mio corpo e a volte neppure mi permettono di alzarmi, ma l’INSS mi ha appena dato un foglio nel quale si attesta che sono in condizioni di lavorare» (Sobrevivir a la maquila. Impacto del trabajo en el cuerpo de mujeres nicaragüenses, 2021, p. 57).
Chissà perché, leggendo queste parole ci è tornato in mente un vecchio articolo di Gramsci: «Alle 11 e mezzo, nella sala di visita medica dello stabilimento, a gruppi stazionano gli operai che aspettano la visita del veterinario che li ha in cura. Veterinario, sicuro, dicono i pazienti, perché esamina a colpo d’occhio. Gli operai parlano, è vero, sanno dire ciò che sentono, ma diamine, si sa che i sintomi da loro denunciati sono montature, esagerazioni per avere la vacanza, per darsi alla baldoria. E allora, è come non parlassero, come fossero dei bruti recalcitranti al lavoro; ma il medico diventa veterinario; l’illazione è semplice, ma logicissima» (4 agosto 1916).
Anche quella nostra amica di cui abbiamo parlato all’inizio, oggi è piena di acciacchi vari più o meno gravi (colonna vertebrale, fegato, ipertensione, pressione ecc.) e neppure ha i soldi necessari per curarsi come si deve. Se sono gratuite le cure ospedaliere finché si è ricoverati, le farmacie si fanno pagare salatamente i medicinali. Per non parlare delle parcelle dei medici. Nel frattempo, la madre della nostra amica è ulteriormente invecchiata, mentre i figli sono cresciuti e… disoccupati.
Comunque sia, il 15 febbraio di questo 2022 la Asamblea Nacional ha cancellato la personería jurídica alla suddetta ONG, fondata nel 1994 per la difesa e la promozione della partecipazione delle donne lavoratrici e disoccupate in tutti gli àmbiti sociali, economici e politici. «Lavoro con dignità» era il suo slogan, dal sapore chiaramente sovversivo-terroristico, in quanto si contrapponeva a quello di El Carmen: «Non disturbare il conducente».
Ci pare che le scelte sempre più repressive e auto-isolazioniste compiute dal 2018 a oggi dal Buon governo del Nicaragua siano in perfetta contraddizione con quel socialismo del XXI secolo che si propone di garantire integralmente le libertà individuali, la creazione di istituzioni intermedie basate sulla fattiva partecipazione, con pesi e contrappesi a tutti i livelli, il controllo dal basso da parte dei cittadini, per realizzare una progressiva estinzione dei poteri stessi.
Il 26 febbraio 1930, dalla messicana Veracruz, Sandino lanciò un manifesto Agli operai della città e della campagna del Nicaragua e di tutta l’America latina: «La classe operaia di tutta l’America latina subisce oggi un doppio sfruttamento: quello dell’imperialismo, principalmente yankee, e quello della borghesia autoctona, cioè dei capitalisti nazionali sfruttatori, che nella loro ansia di conquistare i favori dell’insaziabile invasore intensificano ogni giorno di più la distruzione del movimento rivoluzionario, la persecuzione dei suoi dirigenti, la prigionia e l’esilio. […] Oltre a questi nemici della classe operaia, ci sono i ciarlatani nazionalisti della sinistra, che con gesti e fraseologia demagogica ritardano la formazione di un vero movimento antimperialista basato sugli operai e sui contadini sfruttati d’America».
Sono trascorsi quasi cento anni da queste parole, ma il Buon governo in carica dal 2007, che dovrebbe ispirarsi concretamente a quelle idee senza fare troppa demagogia ed evitando l’inutile retorica, a tutti gli effetti con il suo modo di agire quotidiano testimonia una cosa soltanto: la perennità dello Stato neoliberista sotto mentite spoglie.