Legalità non significa sempre giustizia
Gianluca Cicinelli sul processo contro l’occupazione dell’ex cinema Palazzo a Roma
Vedere il mite Marco Miccoli (all’epoca segretario del Pd romano) processato insieme al “rivoluzionario” Nunzio D’Erme – oltre a Sabina Guzzanti e altre nove persone – svela qualcosa sull’amministrare «giustizia». Venerdì 15 gennaio un imbarazzato pubblico ministero ha ammesso che il procedimento contro gli occupanti dell’ex cinema Palazzo è un processo politico, ovvero non c’è stata alcuna violenza o tentativo di profitto da parte degli occupanti; anzi il contrario: con iniziative culturali e sociali importanti.
«Invasione di terreni e proprietà altrui» è il reato contestato.
Camene spa voleva rendere l’ex cinema del quartiere San Lorenzo una casa chiusa per ludopatici, senza permessi tra l’altro. Dopo aver chiesto e ottenuto lo sgombero esige adesso un milione e seicentomila euro per i «danni» subiti, ovvero non aver potuto contribuire più di quanto abbia già fatto al degrado di San Lorenzo con la sua bisca legalizzata. Ammettiamo per un momento che di reato si tratti – se c’è un vero giudice, anche a Roma oltre a quello proverbiale di Berlino, gli imputati verranno assolti – è importante capire in base a quale criterio sono stati individuati i “rei”. Con attente indagini? No. Con rapporti della Digos su chi frequentava l’ultimo “covo rosso”? No.
Si tratta di persone che manifestavano nei locali e all’esterno solidarizzando con l’occupazione. Cioè se quel giorno ci passavi tu che stai leggendo queste righe ti denunciavano, per ridare i soldi ai poveri biscazzieri affranti. Che gli imputati siano personaggi noti della politica (e cultura) rende ancora più irresponsabile l’azione giuridica portata avanti dalla Procura di Roma. «La responsabilità penale è personale» recita l’articolo 27 della Costituzione ma evidentemente la Procura di Roma si è ispirata al codice di Hammurabi o peggio; cioè dei tempi che non prevedevano una responsabilità individuale e affermavano la possibilità di punire anche estranei ai fatti, solo perché componenti lo stesso gruppo sociale o la famiglia di appartenenza del reo: insomma se crollava la casa costruita da un architetto e moriva il figlio del padrone, era il figlio dell’architetto a dover essere ucciso. Gli imputati non sono infatti “gli occupanti” del Cinema Palazzo ma le persone identificate il 12 dicembre 2011 per essersi rifiutate, in solidarietà con gli occupanti, di uscire dal cinema dove la polizia stava apponendo i sigilli. Un abuso sfrontato delle regole che costringe per l’ennesima volta chiunque abbia una coscienza civile a stare dalla parte della giustizia e non della legge.