Leggere e tradurre l’Italia a Teheran

di Marina Forti (*)

Un grande rito collettivo dedicato ai libri: un giovane scrittore iraniano definisce così la fiera del libro appena conclusa nella capitale iraniana. Un rito di massa, bisogna aggiungere: sarà anche vero che il pubblico dei libri cala, come lamentano gli editori, ma non è questa l’impressione avuta visitando Shahr-e Aftab (la città del sole), un nuovissimo complesso per esposizioni a sud di Teheran.

Dal 3 al 13 maggio, pochi giorni prima che gli iraniani riconfermassero Hassan Rohani alla presidenza nelle elezioni del 19 maggio, qui si è riversato un fiume incessante di persone – donne, uomini, anziani e soprattutto giovani, famiglie e bambini, in jeans o con gli abiti della festa, ragazze con foulard e altre in chador. Difficile quantificare: gli organizzatori sostengono che l’anno scorso i visitatori erano stati tre milioni e quest’anno il 10 per cento di più, ma lo dicevano già alla vigilia dell’apertura.

Di sicuro c’è che una folla immensa ha riempito gli stand di quasi tremila case editrici, ha guardato, sfogliato, acquistato libri e chiesto autografi. Arrivata alla sua trentesima edizione, la fiera del libro in Iran è una tradizione sempre più apprezzata. La novità quest’anno è che l’Italia era ospite d’onore. E visto dal Padiglione Italia, il festival ha riservato alcune sorprese. La prima è proprio la folla. Per lo scrittore Mohammad Tolouei “la fiera è una rara occasione per incontrare i miei lettori”.

La seconda sorpresa è scoprire che in Iran si traduce moltissimo e ogni casa editrice che si rispetti ha in catalogo almeno qualche autore italiano del novecento. Basta un giro tra gli stand: sui banchi di Qoqnoos e Cheshmeh, due tra i cinque o sei principali editori in Iran, vedo Italo Calvino e Antonio Tabucchi. C’è perfino una casa editrice che vive di traduzioni dall’italiano e poco altro.

 

Dall’italiano al persiano
“Era un azzardo, lo sapevamo, perché la letteratura italiana non ha ancora il rilievo di quella americana o quella francese. Ma i lettori cominciano a darci ragione”, mi dice Shahram Shah Shahid, direttore delle vendite di Ketab-e Khorshid, che trovo a presidiare il suo stand. Mostra i libri esposti: di Alberto Moravia e Leonardo Sciascia è stato tradotto quasi tutto. Poi vedo Dino Buzzati (
Il deserto dei tartari), Natalia Ginzburg, Anna Maria Ortese, Alessandro Baricco, fino a Stefano Benni (Margherita dolcevita). Quali libri sono stati più richiesti durante la fiera? “A parte i classici, vanno forte Benni e L’elogio dell’indignazione di Daniele Mariani”.

Da cosa nasce la spinta a tradurre? “Da un innamoramento”, risponde il professor Reza Gheissarieh, decano degli italianisti in Iran, già docente all’università Azad di Teheran, scrittore (il suo Conversazioni a Teheran è stato tradotto da Fuorilinea nel 2016), e capostipite dei traduttori dall’italiano al persiano. Dice che uno si innamora di un autore, o di un testo, e allora cerca un editore disposto a pubblicarlo. Gheissarieh ha studiato in Italia alla fine degli anni sessanta e quando è tornato in Iran si è reso conto che la letteratura italiana era misconosciuta.

Il cinema italiano era conosciuto e amato, ma la scrittura era ignorata: volevo farla conoscere”, mi ha detto un pomeriggio nel suo salotto, nel nord di Teheran. Così ha cominciato a tradurre. Prima Sciascia, “e mi sono infuriato con l’editore che ha messo in copertina una pistola: il solito stereotipo sulla mafia”. Poi Moravia, che ha conosciuto e frequentato: “Ho apprezzato come ha innovato la prosa italiana”. E Calvino, “molto amato dai lettori iraniani: forse perché nei suoi racconti c’è qualcosa di metafisico”.

Gli iraniani leggono gli scrittori italiani, molto più di quanto il nostro paese legga i loro autori. Il Padiglione Italia è stato spesso affollato. Un discreto gruppo di autori italiani – Melania Mazzucco, Michela Murgia, Beatrice Masini, Michele Serra, Marco Belpoliti, Michele Magrelli e altri – ha dialogato sui temi più vari con scrittori e artisti iraniani invitati dall’Associazione editori italiani, sempre con la formula uno a uno. Per l’ambasciata italiana, con l’addetto culturale Carlo Cereti, è un successo della “diplomazia culturale”: l’Italia è il primo paese occidentale ospite d’onore alla fiera di Teheran. Peccato che pochi editori italiani abbiano colto l’occasione: una ventina hanno aderito, solo quattro erano presenti (di cui uno di edizioni tecniche, l’altro di manuali di lingua).

 

Dal persiano all’italiano
C’è l’Italia a Teheran e c’è anche l’inverso, gli autori iraniani tradotti e pubblicati in Italia. Un numero piccolo ma crescente, e questo si deve ad alcuni progetti editoriali nati negli ultimi anni. Uno è
Ponte 33, casa editrice fondata nel 2010 da Felicetta Ferraro e Bianca Maria Filippini. Entrambe iraniste, Filippini insegna lingua e letteratura persiana all’università della Tuscia, Ferraro è stata docente all’Orientale di Napoli e per otto anni addetta culturale italiana a Teheran. “Quando sono tornata in Italia mi sono resa conto che dell’Iran si conosceva poco, al di là di stereotipi e pregiudizi, e anche quel poco riguardava più che altro autori della diaspora”, spiega Ferraro. Eppure negli ultimi decenni, a cavallo e dopo la rivoluzione del 1979, in Iran sono emerse nuove leve di scrittori e scrittrici che hanno decisamente cambiato la scena letteraria. “Così abbiamo cercato autori per lo più giovani, che rappresentino la scrittura dell’Iran di oggi”.

Un’altra iniziativa editoriale di cui tenere nota è quella di Brioschi, che ha affidato una nuova collana di narrativa persiana ad Anna Vanzan, iranista e islamologa all’università di Milano, autrice di Le donne di Allah. Viaggio nei femminismi islamici, esperta di scrittura persiana moderna, e traduttrice (quest’anno ha ricevuto dal ministero dei beni culturali un premio speciale per la traduzione dalla lingua persiana in Italia). Tra l’altro ha tradotto “La scelta di Sudabeh”, che definisce un “romanzone storico”. Poi iniziative sparse, come la scelta di racconti tradotti da Leila Karami, islamologa iraniana che insegna a Roma (Anche questa è Teheran, credetemi!, Schena 2016).

Insomma, una finestra spalancata sulla produzione letteraria contemporanea in lingua persiana. Nel Padiglione Italia incontro Mahsa Mohebali: il suo Non ti preoccupare, pubblicato nel 2008 quando aveva poco più di trent’anni e tradotto in italiano nel 2015, ha avuto un successo travolgente in Iran. Descrive una Teheran scossa dal terremoto, una ragazza che cerca una dose di oppio, e masse di giovani che si prendono la città da cui tutti fuggono. La traduzione è di Giacomo Longhi, studioso che vive tra l’Italia e l’Iran e ha fatto un lavoro notevole, visto che la lingua di Mohebali è piena di espressioni gergali: “Nulla di fiorito e letterario, una lingua viva”, spiega. Longhi ha anche tradotto i racconti di Mohammad Tolouei pubblicati da Internazionale, l’ultimo il 21 aprile 2017.

 

Nel Padiglione Italia incontro anche Nasim Marashi, 33 anni, sceneggiatrice, giornalista e autrice di un romanzo pubblicato in Iran nel 2015 che ha vinto un premio prestigioso. L’autunno è l’ultima stagione dell’anno intreccia le vicende di tre giovani donne, compagne di università, alle prese con scelte complicate. Marashi spiega che in quelle donne ha messo molto di sé e dei suoi amici: “Volevo rappresentare la mia generazione. Siamo nel mezzo di una transizione, vogliamo fare scelte diverse dalle nostre madri e nonne, costruirci una vita indipendente”, mi dice.

Marashi viene da una piccola città di provincia e racconta un cammino contrastato: “Io avrei voluto studiare musica, ma la mia famiglia voleva che facessi ingegneria ed è ciò che ho fatto. Ma c’è un momento in cui ti chiedi cosa stai facendo. Avevo 28 anni e ho deciso che non potevo rassegnarmi a ciò che il destino aveva scelto per me”. Si è trasferita a Teheran, finalmente ha potuto studiare musica, ha lavorato come giornalista. “Il romanzo? L’ho concepito in un momento difficile, il 2009: la società iraniana era in crisi”, a causa delle proteste nate dopo la contestata rielezione del presidente Mahmoud Ahmadinejad, “e i giornali per cui scrivevo chiudevano uno dopo l’altro. Ho cominciato il romanzo per cercare uno spazio, uscire dalla disperazione”.

C’è un ottimismo trascinante nelle parole di questa autrice: “La cultura sta diventando meno sessista. Le donne hanno imparato a rivendicare il proprio spazio e i propri diritti”, dice. “Se un candidato si presenta dicendo che lui ha permesso a sua moglie di studiare, come fosse una grande concessione, oggi ci mettiamo a ridere”. Si riferisce a Ebrahim Raisi, candidato conservatore sconfitto nella corsa per la presidenza della repubblica, che in effetti si è espresso così durante un comizio elettorale: decisamente non ha fatto colpo sulle giovani elettrici.

(*) ripreso da «Internazionale»

 

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