Leggeri e pungenti. Storie, luoghi e volti di periferia
di Alexik
Enrico Campofreda, Leggeri e pungenti. Storie, luoghi e volti di periferia, Lorusso Editore, 2017, pp.132.
Siamo abituati a leggere la firma di Enrico Campofreda in calce alle cronache di guerra dal Medio Oriente o dall’Afghanistan, nei suoi brani di denuncia a fianco dei popoli aggrediti.
Più inusuale ritrovarla sulla copertina di un libro di racconti, brevi frammenti di vita nelle periferie romane fra dopoguerra e boom economico.
Leggeri e pungenti raccoglie schegge di memoria di una generazione venuta al mondo sulla linea di confine fra la campagna e la città.
È un mondo osservato con gli occhi dei bambini, separato e distinto da quello degli adulti, troppo impegnati a guadagnarsi il pane per trovare il tempo di esercitare un controllo ferreo sulla prole.
Tanto da lì a poco, ci avrebbe pensato il lavoro minorile a disciplinarla, dietro il bancone di un bar, nella penombra dell’officina di un fabbro o sotto il sole di un cantiere.
C’è poco tempo, nelle periferie degli anni ’60, per l’età dell’innocenza, e bisogna viverlo intensamente prima che finisca.
“Molti non ci andavano neppure. Quando accadeva erano i primi a esserne cacciati o sbattuti all’interno delle classi differenziali. Vere e proprie discariche sociali, tenute in piedi a marcare, anche nel sistema dell’istruzione, la divisione in classi della società”. (p.123)
Bisogna imparare in fretta nella scuola della strada.
Imparare la zoologia negli acquitrini, imparare il tango seguendo i genitori alla balera, imparare l’anatomia femminile dalle ragazze di vita, imparare come farsi rispettare a cazzotti, imparare la libertà su una lambretta lanciata verso il mare.
Assaporare il gusto della trasgressione affondando le mani nel rosso di un’anguria rubata, attenti a non farsi beccare perché la ‘funzione rieducativa’ ha le mani pesanti.
Oltrepassare qualsiasi barriera, fosse anche un cancello dalle punte acuminate, pagandone il prezzo.
Intorno, a fare da sfondo, nessuna Grande Bellezza, ma prati incolti fra i palazzi, marrane, strade ancora sterrate.
Il centro di Roma è lontano, non fa parte della realtà, ma nemmeno dell’immaginario, di Oreste, Spartaco, Franchino e degli altri ragazzini di periferia.
E non è un’assenza casuale.
Come ci spiegano nella postfazione gli architetti Rossella Marchini e Antonello Sotgia, “per assecondare la febbre edilizia, non debellare il cancro della rendita dell’immobiliarismo fondiario, è stato proprio in quel preciso periodo, agli inizi degli anni Sessanta, che si è scelto di costruire la periferia romana come forma autonoma, staccandola, frutto di una scelta prima politica che urbanistica, dal centro.” (p. 126)
Il Centro è monopolio di ricchi, nobili e preti, come del resto la proprietà dei suoli di gran parte della capitale.
Nel 1955 Manlio Cancogni, nella sua inchiesta “Capitale corrotta, nazione infetta”, così delineava la mappa della spartizione:
“I terreni dell’Immobiliare [Società Generale Immobiliare, controllata dallo IOR, partecipata da Fiat e da Italcementi] sono disposti intorno a Roma in maniera strategica. Ne ha per 470.000 metri sulla via Tuscolana, per 530.000 a Tor Carbone, per 90.000 sulla Prenestina, per 215.000 sulla Trionfale, per 50.000 sulla Salaria, per 1.336.000 sulla Nomentana, per 1800.000 sulla Casilina, ecc. ecc.
In questo modo essa può decidere volta a volta in che direzione le conviene che la città avanzi….
Gli altri grossi proprietari non hanno altrettanto potere, ma sanno anche essi agire con sufficiente abilità.
I più ragguardevoli sono: il marchese Alessandro Gerini con sei milioni di metri quadrati, la sorella del marchese, Isabella, con due milioni e mezzo, i principi Lancellotti con sette milioni…”
Non potevano mancare ovviamente i costruttori “come , ecc. ecc., sono nello stesso tempo proprietari di aree (due milioni e mezzo di metri quadrati Vaselli, nove milioni Scalera lungo la via Cristoforo Colombo)”.1
Sono questi nomi a guidare l’espansione immobiliare della capitale degli anni ’50, cresciuta sotto l’ala protettiva del sindaco democristiano Salvatore Rebecchini secondo il vecchio motto “privatizzare i profitti e socializzare le perdite”.
Sul Comune, infatti, gravano gli oneri di urbanizzazione, la costruzione di infrastrutture che valorizzano i terreni della nobiltà romana, del Vaticano e degli imprenditori del mattone.
Si svuotano le casse pubbliche a favore di chi costruisce residenze al di fuori della portata dei proletari:
“Dai 26.673 vani costruiti nel ’50 si è passati ai 41.881 del ’52 e ai 75.127 del ’54. La media annua in questo periodo è stata di 46.762, la più alta in tutta Italia. Sono alloggi i cui fitti vanno da un minimo di 30-35.000 lire per appartamenti di tre vani dove la fabbricazione ha carattere intensivo, a massimi che toccano le 100.000 nelle palazzine o nei villini delle zone favorite”.2
Da notare che nel 1955 la paga base di un operaio generico è di 43.000 £ al mese.
Rebecchini conclude il mandato nel ’56, non senza lasciare alla rendita fondiaria una ghiotta eredità: l’accettazione da parte del CIO della candidatura di Roma per le Olimpiadi del 1960, il volano per una nuova massiccia espansione immobiliare. Un’operazione che innesca “una incontrollata valorizzazione dei terreni che ospitano gli impianti sportivi e le infrastrutture necessarie per raggiungerli…
Il sindaco capisce che bisogna far presto perché dagli uffici del Piano arrivano segnali che l’espansione urbana a ovest avrebbe dovuto essere limitata, mentre la zona che lui deve ora rendere edificabile con le Olimpiadi è proprio l’ovest, il territorio di proprietà del Vaticano, terreno della caccia costruttrice della sua potente Società Generale Immobiliare…”
Nel frattempo, cambiando punto cardinale “in assenza di un piano [regolatore] che entrerà in vigore solo nel 1965, lottizzatori abusivi costruiranno case per 400 mila persone soprattutto nella zona est della città”. (pp. 128/130.)
Irrompe nelle periferie una “modernità” di asfalto e di cemento, seppellendo territori e rapporti sociali.
Si demoliscono le baracche, o semplicemente si spostano ancora più a i margini. Vengono interrate le ultime marrane, le uniche insalubri piscine a portata dei poveri.
Ne guadagna l’igiene, ma anche l’alienazione, perché la nuova conformazione urbana non è progettata certo a misura d’uomo, e tanto meno di ragazzino.
Ai bordi della città, Oreste, Spartaco, Franchino e i loro amici osservano la speculazione edilizia che avanza sventrando le borgate, chiudendo uno dopo l’altro i loro spazi.
Le recinzioni di lamiera circondano i campetti di calcio così faticosamente ricavati dagli incolti, dopo giorni e giorni di infantile fatica di vanga e carriola.
Poi arriveranno le ruspe.
E in una lotta impari, i ragazzini reagiscono.
I racconti di Campofreda ci lasciano una sensazione di incompiutezza.
Grazie alle bellissime foto di Claudio Bassi possiamo immaginare i volti dei giovani protagonisti, ma non ci è dato sapere quale sia stato il loro destino.
Non sappiamo se siano stati risucchiati dal lavoro e da paternità precoci, se abbiano trovato fortuna su un ring o in un campo di calcio, o se abbiano fatto “carriera”, passando dal minorile di Porta Portese a Regina Coeli.
Oppure siano corsi a riconquistare, con altri centomila, le strade del centro, per sferrare l’assalto al cielo, alla Grande Bellezza.
Conosciamo invece la storia dello smisurato saccheggio che detta ancora le sorti e rende faticosa la vita di questa splendida e disgraziata città. Un saccheggio che dai tempi di Rebecchini – come dimostrano le cronache di oggi – non si è mai fermato.
(*) Tratto da Carmilla on line.
Note:
- Manlio Cancogni, “Capitale corrotta, nazione infetta”, L’Espresso, 11 dicembre 1955.
- Idem.
Devo rimedia’ sto libro a tutti i costi.