Leonardo Da Vinci o la Protofantascienza
Di Mauro Antonio Miglieruolo
Oggi, come terzo contributo, offro due pagine di Leonardo da Vinci (Vinci, 16 aprile 1452 – Amboise, 2 maggio 1519) artista, scienziato e anche anticipatore delle lontane future speculazioni fantascientifiche
(speculazioni che, nel caso di Leonardo, osservatore della natura acuto e instancabile, avevano più dello scientifico che del pur presente elemento fantastico).
A testimonianza di queste sue facoltà alcuni suoi disegni su possibili mezzi auto-mobili, gli elicotteri, il paracadute e i vani tentativi di offrire soluzione all’antico sogno del volo umano. Nonché le minuziose fantasticherie preparatorie di un’opera sul diluvio.
Iniziamo con la composizione più breve, quella sul volo, più abbandono poetico che vero futuribile, composizione nel quale il fervore dell’autore lo porta a esprimersi nella forma dell’endecasillabo (assunta spontaneamente dato il ritmo intrinseco alla visione). Si tratta del breve e fascinoso brano intitolato “Primo Volo”. Eccolo:
Piglierà il primo volo il grande uccello
sopra del dosso del suo magno Cecero,
empiendo l’universo di stupore,
empiendo di sua fama tutte le scritture,
e groria eterna al nido dove nacque.
“Avvenimento clamoroso,” recita il curatore degli Scritti Letterari (Augusto Marinoni) dai quali il brano è tratto (BUR Rizzoli L11, 1974 – nota a pagina 175); la nota poi così prosegue: “compimento di uno dei più ardui e antichi desideri dell’uomo, tale da essere celebrato in tutte le scritture e da procurare fama e gloria. Umilmente però egli non parla di sé; la fama sarà dell’apparecchio prodigioso, la gloria di Firenze, il nido dove nacque il grande uccello.”
La seconda pagina invece testimonia il rapimento allucinato di Leonardo impegnato a stendere alcuni appunti letterari in preparazione di un grande affresco sul diluvio, del quale presentiamo anche i disegni (quelli di Leonardo e gli altri ispirati allo stesso tema).
La prosa, per quanto attiene al contenuto e alla dovizia di particolari “cruenti”, è degna dei più dotati scrittori “catastrofisti” dei nostri tempi. Un testo, quello sul diluvio (del quale presentiamo ampi brani della seconda parte) che se interpretato con l’intonazione oracolare che mi piace attribuire all’autore e con l’ispirazione giusta, produrrà nel lettore suggestioni che solo la prosa dei più grandi della fantascienza ha saputo produrre. Ecco il testo:
2. DILUVIO E SUA DIMOSTRAZIONE IN PITTURA.
a) Vedeasi la oscura e nubolosa aria essere combattuta dal corso di diversi e avviluppati venti, misti colla gravezza della continua pioggia, li quali or qua ora là portavano infinita ramificazione delle stracciate piante, miste con infinite foglie dell’altonno. Vedeasi le antiche piante diradicate e stracinate dal furor de’ venti. Vedevasi le ruine de’ monti, già scalzati dal corso de’ lor fiumi, ruinare sopra e medesimi fiumi e chiudere le loro valli; li quali fiumi ringorgati allagavano e sommergevano le moltissime terre colli lor popoli. Ancora aresti potuto vedere, nelle sommità di molti monti, essere insieme ridotte molte varie spezie d’animali, spaventati e ridotti al fin dimesticamente in compagnia de’ fuggiti omini e donne colli lor figlioli. E le campagne coperte d’acqua mostravan le sue onde in gran parte coperte di tavole, lettiere, barche e altri vari strumenti fatti dalla necessità e paura della morte, sopra li quali era donne, omini colli lor figlioli misti, con diverse lamentazioni e pianti, spaventati dal furor de’ venti, li quali con grandissima fortuna rivolgevan l’acque sottosopra e insieme colli morti da quella annegati. E nessuna cosa più lieve che l’acqua era, che non fussi coperta di diversi animali, e quali, fatta tregua, stavano insieme con paurosa collegazione, infra’ quali era lupi, volpe, serpe d’ogni sorte, fuggitori della morte. E tutte l’onde percuotitrice de’ lor liti combattevon quelli, colle varie percussioni di diversi corpi annegati, la percussion de’ quali uccidevano quelli alli quali era restato vita.
Alcune congregazione d’uomini aresti potuto vedere, li quali con armata mano difendevano li piccoli siti, che loro eran rimasi, da lioni e lupi e animali rapaci, che quivi cercavan lor salute. O quanti romori spaventevoli si sentiva per la scura aria, percossa dal furore de’ tuoni e delle fùlgore da quelli scacciate, che per quella ruinosamente scorrevano, percotendo ciò che s’opponeva al su’ corso! O quanti aresti veduti colle proprie mani chiudersi li orecchi per ischifare l’immensi romori, fatti per Ia tenebrosa aria dal furore de’ venti misti con piogggia, tuoni celesti e furore di saette!
[…]
O quanti lamenti, o quanti spaventati si gittavon dalli scogli! Vedeasi le grandi ramificazioni delle gran querce, cariche d’uomini, esser portate per l’aria dal furore delli impetuosi venti.
Quante eran le barche volte sottosopra, e quale intera e quale in pezze esservi sopra gente, travagliandosi per loro scampo, con atti e movimenti dolorosi, pronosticanti di spaventevole morte. Altri con movimenti disperati si toglievon la vita, disperandosi di non potere sopportare tal dolore; de’ quali alcuni si gittavano delli alti scogli, altri si stringeva la gola colle propie mani, alcuni pigliavan li propi figlioli e con grande impeto li sbatteva in terra, alcuno colle propie sue armi si feria, e uccidea se medesimi, altri gittandosi ginocchioni si raccomandava a Dio.
[…]
E già li uccelli si posavan sopra li omini e altri animali, non trovando più terra scoperta che non fussi occupata da’ viventi. Già la fame, ministra della morte, avea tolto la vita a gran parte delli animali, quando li corpi morti già levificati si levavano dal fondo delle profonde acque e surgevano in alto e infra le combattente onde, sopra Ie quali si sbattevan l’un nell’altro, e, come palle piene di vento, risaltavan indirieto dal sito della lor percussione. Questi si facevan basa de’ predetti morti. E sopra queste maladizioni si vedea l’aria coperta di oscuri nuvoli, divisi dalli serpeggianti moti delle infuriate saette del cielo, alluminando or qua or là infra la oscurità delle tenebre.
Una specie di Apocalisse, dunque, visione prodigio da fine del mondo con la quale gli uomini si sono sempre baloccati: per lanciare grida d’allarmi o spaventarsi l’un l’altro, facendo emergere dal profondo paure che sono mera constatazione della propria impotenza rispetto alla Natura, che sono disposti a dorare ma non a rispettare. Paura della Natura, ma anche paura della realtà, del secondo creato che l’uomo, infaticabile e prodigioso anche lui, ha costruito in vari millenni di brutture e splendori. Paura di se stesso, insomma, delle forze sociali che ha edificato e delle quali è in balia.