L’eroico e morale esercito d’Israele espugna l’ospedale di Al Shifa

articoli, video e disegni di Chris Hedges, Francesco Masala, Antonio Mazzeo, Enrico Euli, Raz Segal, Clare Daly, Mick Wallace, Eric Clapton, Nicola Casale, Gideon Levy, Pepe Escobar, Gian Giacomo Migone, Alessandro Di Battista, Francesca Albanese, Patrick Lawrence, Yanis Varoufakis, Michele Santoro, Elena Basile, Davide Malacaria, Yara Hawari, Ramzy Baroud, Alberto Capece, Manlio Dinucci, Vauro, Karem Rohana, Aida Touma-Suleiman, Amira Hass, Barbara Spinelli, Francesco Guadagni, Diego Ruzzarin, Ennio Remondino, Matteo Saudino, Stefano Orsi, Ben Norton, Michael Hudson, Maurizio Brignoli, SI Cobas, Lorenzo Kamel, Alberto Negri, Enrico Tomaselli, Domenico Gallo, Raffaele Tuzio, Forum Palestina, Sascha Picciotto, Piergiorgio Odifreddi, Carlos Latuff

L’orrore, l’orrore – Chris Hedges

Gli attacchi genocidi di Israele, che uccidono centinaia di palestinesi al giorno, tra cui circa 160 bambini, si sono estesi al bombardamento dei restanti ospedali di Gaza

DOHA, Qatar: sono nello studio del servizio arabo di Al Jazeera e sto guardando una diretta da Gaza City. Il reporter di Al Jazeera che si trovava nel nord di Gaza, a causa dell’intenso bombardamento israeliano, è stato costretto a evacuare nel sud di Gaza. Ha lasciato indietro la sua telecamera. L’ha puntata sull’ospedale Al-Shifa, il più grande complesso medico di Gaza. È notte. I carri armati israeliani sparano direttamente verso il complesso ospedaliero. Lunghi lampi rossi orizzontali. Un attacco deliberato a un ospedaleUn crimine di guerra deliberato. Un massacro deliberato dei civili più indifesi, compresi i malati e i neonati. Poi il segnale si interrompe.

Siamo seduti davanti ai monitor, in silenzio. Sappiamo cosa significa: niente corrente, niente acqua, niente Internet, niente forniture mediche. Ogni neonato in incubatrice morirà. Ogni paziente in dialisi morirà. Tutti i pazienti in terapia intensiva moriranno. Tutti quelli che hanno bisogno di ossigeno moriranno. Tutti quelli che hanno bisogno di un intervento chirurgico d’emergenza moriranno.

E cosa accadrà alle 50.000 persone che, cacciate dalle loro case a causa degli incessanti bombardamenti, si sono rifugiate nel terreno dell’ospedale? Conosciamo la risposta anche a questo. Anche molti di loro moriranno.

Non ci sono parole per esprimere ciò a cui stiamo assistendo. Nelle cinque settimane di orrore questo è uno dei vertici dell’orrore. L’indifferenza dell’Europa è già abbastanza grave, la complicità attiva degli Stati Uniti non ha fondo. Nulla giustifica tutto questo. Niente. E Joe Biden passerà alla storia come un complice del genocidio. Che i fantasmi delle migliaia di bambini che ha partecipato all’assassinio lo perseguitino per il resto della sua vita.

Israele e gli Stati Uniti stanno inviando un messaggio agghiacciante al resto del mondo. Il diritto internazionale e umanitario, compresa la Convenzione di Ginevra, sono pezzi di carta privi di significato. Non si applicavano in Iraq. Non si applicano a Gaza. Polverizzeremo i vostri quartieri e le vostre città con bombe e missili. Uccideremo selvaggiamente le vostre donne, i bambini, gli anziani e i malati. Istituiremo dei blocchi per creare la fame e malattie infettive. Voi, le “razze minori” della terra, non contate nulla. Per noi siete parassiti da estinguere. Noi abbiamo tutto. Se provate a portarci via qualcosa, vi uccideremo. E non saremo mai ritenuti responsabili.

Non siamo odiati per i nostri valori. Siamo odiati perché non abbiamo valori. Siamo odiati perché le regole valgono solo per gli altri. Non per noi. Siamo odiati perché ci siamo arrogati il diritto di compiere massacri indiscriminati. Siamo odiati perché siamo senza cuore e crudeli. Siamo odiati perché siamo ipocriti, perché parliamo di protezione dei civili, di stato di diritto e di umanitarismo mentre spegniamo la vita di centinaia di persone a Gaza al giorno, tra cui centinaia di bambini.

Israele ha reagito con indignazione e sdegno morale quando è stato accusato di aver bombardato l’ospedale arabo cristiano al-Ahli di Gaza, provocando centinaia di morti. Israele ha affermato che il bombardamento è stato causato da un razzo vagante lanciato dalla Jihad islamica palestinese. Non c’è nulla nell’arsenale di Hamas o della Jihad islamica che avrebbe potuto replicare l’enorme potenza esplosiva del missile che ha colpito l’ospedale. Chi di noi si è occupato di Gaza ha sentito questo ritornello di Israele così tante volte da risultare risibile. Incolpano sempre Hamas e i palestinesi per i loro crimini di guerra, cercando ora di sostenere che gli ospedali sono centri di comando di Hamas e quindi obiettivi legittimi. Non forniscono mai prove. L’esercito e il governo israeliano mentono come se respirassero.

Medici senza frontiere, che ha personale che lavora ad Al-Shifa, ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma che pazienti, medici e infermieri sono “intrappolati negli ospedali sotto il fuoco“. Ha chiesto al “governo israeliano di cessare questo assalto senza tregua al sistema sanitario di Gaza”.

Nelle ultime 24 ore, gli ospedali di Gaza sono stati bombardati senza sosta. Il complesso ospedaliero di Al-Shifa, la più grande struttura sanitaria dove il personale di MSF sta ancora lavorando, è stato colpito più volte, compresi i reparti di maternità e ambulatoriali, causando diversi morti e feriti“, si legge nella dichiarazione. “Le ostilità intorno all’ospedale non sono cessate. Le équipe di MSF e centinaia di pazienti sono ancora all’interno dell’ospedale di Al-Shifa. MSF ribadisce con urgenza i suoi appelli a fermare gli attacchi contro gli ospedali, per un cessate il fuoco immediato e per la protezione delle strutture mediche, del personale medico e dei pazienti“.

Altri tre ospedali nel nord di Gaza e a Gaza City sono circondati dalle forze israeliane e dai carri armati, in quello che un medico ha detto ad Al Jazeera essere un “giorno di guerra contro gli ospedali“. Anche l’ospedale indonesiano avrebbe perso la corrente. L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) riferisce che 20 dei 36 ospedali di Gaza non funzionano più.

Il cinismo di Israele e Washington lascia senza fiato. Non ci sono differenze di intenti. Washington vuole solo che si faccia in fretta. Corridoi umanitari? Pausa nei bombardamenti? Si tratta di mezzi per facilitare lo spopolamento totale del nord di Gaza. La manciata di camion di aiuti autorizzati a passare il confine di Rafah con l’Egitto? Un espediente di pubbliche relazioni. L’obiettivo è uno solo: uccidere, uccidere, uccidere. Più veloce è, meglio è. I funzionari di Biden non fanno altro che parlare di ciò che avverrà dopo che Israele avrà terminato la sua decimazione di Gaza. Sanno che il massacro di Israele non finirà finché i gli abitanti di Gaza non vivranno all’aperto, senza alcun riparo, nella parte meridionale della striscia e moriranno per mancanza di cibo, acqua e cure mediche.

Gaza, prima dell’incursione di Israele, era uno dei luoghi più densamente popolati del pianeta. Immaginate cosa accadrà con 1,1 milioni di abitanti del nord ammassati su oltre 1 milione nel sud. Immaginate cosa accadrà quando malattie infettive come il colera diventeranno un’epidemia. Immaginate le devastazioni della fame. La pressione aumenterà per fare qualcosa. E questo qualcosa, spera Israele, sarà spingere i palestinesi oltre il confine, nel Sinai, in Egitto. Una volta lì, non faranno più ritorno. La pulizia etnica di Gaza da parte di Israele sarà completa. Inizierà la pulizia etnica della Cisgiordania.

Questo è il sogno demenziale di Israele. Per realizzarlo, renderanno Gaza inabitabile.

Chiedetevi: se foste un palestinese a Gaza e aveste accesso a un’arma, cosa fareste? Se Israele uccidesse la vostra famiglia, come reagireste? Perché vi interesserebbe il diritto internazionale o umanitario quando sapete che si applica solo agli oppressi, non agli oppressori? Se il terrore è l’unico linguaggio che Israele usa per comunicare, l’unico che apparentemente capisce, non rispondereste con il terrore?

L’orgia di morte di Israele non schiaccerà Hamas. Hamas è un’idea. Questa idea si nutre del sangue dei martiri. Israele sta fornendo ad Hamas nutrimento in abbondanza.

da qui

 

L’assalto all’ospedale Al-Shifa come quello alla scuola Diaz – Francesco Masala

Se la situazione non fosse tragica ci sarebbe da ridere.

Tre bottiglie molotov a Genova, una copia del Mein Kampf, tradotto in arabo, nell’ospedale AL-Shifa. E anche, dopo numerose ricerche, seguendo la mappa scritta in ebraico, hanno trovato un bunker (costruito dagli israeliani, ma non sottilizziamo).

E poi hanno trovato dei telefonini e dei libri da disegno per bambini, o forse romanzi, chissà.

Intanto il regime (democratico?) di Israele è ufficialmente entrato della Storia universale dell’infamia, dopo aver stracciato il record degli assassinati a Srebrenica ha ormai superato anche il record di 13000 assassinati, detenuto dai nazisti durante la rivolta del ghetto di Varsavia del 1943, allora i morti erano ebrei e gli assassini nazisti, questa volta gli assassini sono israeliani (che di autodefiniscono ebrei) e i morti palestinesi.

 

 

Guerra russo-ucraina e bombardamenti a Gaza. L’Italia è cobelligerante – Antonio Mazzeo

La fratricida guerra russo-ucraina e le stragi di civili palestinesi a Gaza. Una spirale di morte e distruzione che potrebbe condurre allo scoppio di un conflitto mondiale globale. E nucleare. Una sequela di inauditi crimini contro l’umanità a cui crediamo di assistere come spettatori impotenti ma innocenti. L’Italia, il suo territorio e le forze armate sono però direttamente coinvolti, cobelligeranti, in violazione della Costituzione e senza che il governo avverta il dovere di informare il Parlamento e la popolazione.

Agli italiani è stato detto solo che inviamo armi alle forze armate ucraine per “resistere” all’offensiva dei carri armati del Cremlino. Top secret però la quantità, la tipologia e il loro valore mentre non c’è paese della NATO che non abbia fornito in tempo reale dettagli sui sistemi bellici consegnati alle autorità di Kiev. Eppure alle frontiere con Ucraina e Russia abbiamo schierato un migliaio di militari e centinaia di mezzi pesanti dell’Esercito, navi della Marina e i cacciabombardieri di quarta e quinta generazione dell’Aeronautica.

Quattro F-35A Lightning II del 6° Stormo di Ghedi e del 32° di Amendola operano dallo scalo polacco di Malbork, sul Mar Baltico, presidiando lo spazio aereo “caldo” prossimo all’enclave russa di Kaliningrad. In Lituania, nella base di Siauliai, sono rischierati quattro velivoli EF-2000 “Typhoon” degli Stormi 4° (Grosseto), 36° (Gioia del Colle), 37° (Trapani Birgi) e 51° (Istrana) per la “sorveglianza” delle Repubbliche baltiche sotto il comando del Centro per le operazioni aeree della NATO di Uedem (Germania) e la supervisione del Comando alleato di Ramstein.

Contingenti, cannoni, blindati e carri armati italiani sono in forza ai battaglioni di pronto intervento NATO attivati nell’Europa orientale dopo l’invasione russa del 24 febbraio 2022. In Lettonia c’è il Task Group “Baltic” con 250 militari e 139 mezzi terrestri della 132^ Brigata Corazzata “Ariete”; in Ungheria in “attività di vigilanza rafforzata” operano 250 paracadutisti della Brigata “Folgore”; in Bulgaria l’Italia è alla guida del Battle Group NATO con i reparti provenienti da U.S.A., Bulgaria, Albania, Grecia, Montenegro e Macedonia del Nord (attualmente presenti 740 bersaglieri del 6° Reggimento della Brigata “Aosta” di Trapani). In Slovacchia è stata invece trasferita una batteria di missili terra-aria SAMP-T di produzione italo-francese con 150 militari del 17° Reggimento Artiglieria contoaerei “Sforzesca” di Sabaudia. In Kosovo siamo presenti da 24 anni con 852 militari, 137 mezzi terrestri e 1 mezzo aereo inquadrati nell’operazione “Joint Enterprise” a guida NATO ma la Difesa ha già fatto sapere che a seguito dell’escalation del conflitto tra la maggioranza di origine albanese e la minoranza serba, il contingente italiano potrebbe crescere di numero a breve…

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QUI  Heart of a child di Eric Clapton

 

 

silenzio di tomba – Enrico Euli

Quando il capitale morale di Israele sarà del tutto consumato ? Mai.

Quando finirà in Occidente la sua rendita morale sull’Olocausto ? Mai.

Sembra proprio che in Israele ‘Se questo è un uomo’ di Primo Levi non sia mai passato in libreria.

Il traguardo criminale -che avevo prefigurato qualche post fa- di 20.000 morti palestinesi si avvicina. E probabilmente sarà superato, se sarà attaccata anche l’area sud di Gaza.

Gli sarà posto un limite (visto che Israele non è capace di porsene alcuno) ? Non accadrà.

 

Quando si farà una vera mediazione con veri mediatori tra le parti ? Mai.

Neanche Oslo lo era stata (i veri nemici (gli integralisti islamici ed ebraici) erano stati esclusi dalla trattativa, e la loro rivalsa non ha tardato a giungere subito dopo).

Qualcuno potrà mai sostituire gli Stati Uniti in questo ruolo? No, nessuno, mai.

E quindi si potrà mai raggiungere un accordo di pace, che non sia solo un armistizio, in loro presenza ? No, è impossibile.

 

Quando la si smetterà, anche qui da noi, di considerare Hamas alla stregua di partigiani e liberatori, peraltro da parte degli stessi che (giustamente) negavano questa stessa qualifica agli ucraini, nella prima fase di quell’altra guerra famigerata e ancora in corso ? Non si smetterà.

Quando le comunità ebraiche occidentali saranno capaci di dissociarsi dalle azioni criminali perpetuate da decenni da Israele ? Mai.

Quando i paesi islamici e/o arabi affronteranno davvero la situazione anziché proseguire a fare proclami e a minacciare l’esistenza dello Stato israeliano, solo per propaganda? Inutile crederlo.

 

Se queste domande sono decisive e se le risposte sono queste, risulta evidente che il nostro informarci e commentare su quel che sta avvenendo svolge una funzione di pura copertura.

E che la guerra finirà solo quando chi fa la guerra lo deciderà.

In fondo, d’altronde, ci interessa davvero quel che accade laggiù ?

Proviamo ancora qualcosa per l’Altro ?

Nel nostro vivere qui, c’è qualcosa che pensiamo e facciamo che non sia per noi e basta ?

Sinceramente, no.

E le cose purtroppo non si possono risolvere come ci fa credere il sempre caro Ken Loach nel suo ultimo patetico (in vari sensi) The old oak.

Se fosse quella la soluzione, sarebbe stato meglio per tutti restare cattolici, e vivere di fede, speranza e carità (merci rare, peraltro, ormai e non a caso, anche tra gli stessi cattolici).

da qui

 

 

 

Raz Segal: Un caso di genocidio da manuale da Jewish Currents

Israele ha ordinato alla popolazione assediata nella metà settentrionale della Striscia di Gaza di evacuare verso sud, avvertendo che presto avrebbe intensificato il suo attacco nella metà superiore della Striscia. L’ordine ha lasciato più di un milione di persone, metà delle quali sono bambini, che tentano freneticamente di fuggire tra i continui attacchi aerei, in un’enclave murata dove nessuna destinazione è sicura. Come ha scritto oggi da Gaza la giornalista palestinese Ruwaida Kamal Amer , “i rifugiati dal nord stanno già arrivando a Khan Younis, dove i missili non si fermano mai e siamo a corto di cibo, acqua ed elettricità”. L’ONU ha avvertito che la fuga di persone dalla parte settentrionale di Gaza verso sud creerà “conseguenze umanitarie devastanti” e “trasformerà quella che è già una tragedia in una situazione calamitosa”.  Eppure il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha promesso :oggi ciò che abbiamo visto è “solo l’inizio”.

La campagna di Israele per sfollare gli abitanti di Gaza – e potenzialmente espellerli del tutto in Egitto – è ancora un altro capitolo della Nakba, in cui si stima che circa 750.000 palestinesi furono cacciati dalle loro case durante la guerra del 1948 che portò alla creazione dello Stato di Israele. Ma l’assalto a Gaza può essere inteso anche in altri termini: come un caso da manuale di genocidio che si svolge davanti ai nostri occhi. Lo dico come studioso di genocidio, che ha trascorso molti anni a scrivere sulla violenza di massa israeliana contro i palestinesi. Ho scritto del colonialismo dei coloni e della supremazia ebraica in Israele , della distorsione dell’Olocausto per rilanciare l’ industria degli armamenti israeliana , dell’utilizzo come arma delle accuse di antisemitismo per giustificare la violenza israeliana contro i palestinesi e del regime razzista dell’apartheid israeliano . Ora, dopo l’attacco di Hamas di sabato e l’omicidio di massa di oltre 1.000 civili israeliani, si sta verificando il peggio del peggio.

Secondo il diritto internazionale, il crimine di genocidio è definito “dall’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale”, come osservato nella Convenzione delle Nazioni Unite  del dicembre 1948 . Nel suo attacco omicida a Gaza, Israele ha proclamato a gran voce questo intento. Il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant lo ha dichiarato senza mezzi termini il 9 ottobre: ​​“Stiamo imponendo un assedio completo a Gaza. Niente elettricità, niente cibo, niente acqua, niente carburante. Tutto è chiuso. Stiamo combattendo gli animali umani e agiremo di conseguenza”. I leader occidentali hanno rafforzato questa retorica razzista descrivendo l’omicidio di massa di civili israeliani da parte di Hamas – un crimine di guerra ai sensi del diritto internazionale che ha giustamente provocato orrore e shock in Israele e nel mondo – come “un atto di puro male”, secondo le parole degli Stati Uniti . Presidente Joe Biden, o come una mossa che riflette un “ male antico ”, nella terminologia della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Questo linguaggio disumanizzante è chiaramente calcolato per giustificare la distruzione su vasta scala di vite palestinesi; l’affermazione del “male”, nel suo assolutismo, elide le distinzioni tra militanti di Hamas e civili di Gaza e occlude il contesto più ampio di colonizzazione e occupazione.

La Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio elenca cinque atti che rientrano nella sua definizione. Israele ne sta attualmente perpetrando tre a Gaza: “1. Uccidere membri del gruppo. 2. Causare gravi danni fisici o mentali ai membri del gruppo. 3. Infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita intese a provocarne la distruzione fisica totale o parziale”. L’aeronautica israeliana, secondo il suo resoconto , ha sganciato finora più di 6.000 bombe su Gaza, che è una delle aree più densamente popolate del mondo: quasi tante bombe quante ne hanno sganciate gli Stati Uniti su tutto l’Afghanistan durante il periodo della sua guerra lì. Human Rights Watch ha confermato che tra le armi utilizzate figuravano bombe al fosforo , che hanno dato fuoco a corpi ed edifici, creando fiamme che non si spengono a contatto con l’acqua. Ciò dimostra chiaramente cosa intende Gallant con “agire di conseguenza”: non prendere di mira singoli militanti di Hamas, come sostiene Israele, ma scatenare una violenza mortale contro i palestinesi a Gaza “in quanto tali”, nel linguaggio della Convenzione sul genocidio delle Nazioni Unite. Israele ha anche intensificato il suo assedio di Gaza durato 16 anni – il più lungo della storia moderna, in chiara violazione del diritto umanitario internazionale – fino a renderlo un “assedio completo”, secondo le parole di Gallant. Questo giro di parole indica esplicitamente un piano per portare l’assedio alla sua destinazione finale di distruzione sistematica dei palestinesi e della società palestinese a Gaza, uccidendoli, facendoli morire di fame, tagliando le loro forniture d’acqua e bombardando i loro ospedali .

Non sono solo i leader israeliani ad usare questo linguaggio. Un intervistato sul canale pro-Netanyahu Channel 14 ha chiesto a Israele di “trasformare Gaza in Dresda”. Channel 12, il canale di notizie più seguito in Israele, ha pubblicato un servizio sugli israeliani di sinistra che invitano a “ballare su quella che una volta era Gaza”. Nel frattempo i verbi genocidi – gli appelli a “ cancellare ” e “ appiattire ” Gaza – sono diventati onnipresenti sui social media israeliani . A Tel Aviv, appeso a un ponte è stato visto uno striscione con la scritta “ Zero Gazans ”.

In effetti, l’assalto genocida di Israele a Gaza è piuttosto esplicito, aperto e spudorato. Gli autori di genocidi di solito non esprimono le loro intenzioni in modo così chiaro, anche se ci sono delle eccezioni. All’inizio del XX secolo, ad esempio, gli occupanti coloniali tedeschi perpetrarono un genocidio in risposta a una rivolta delle popolazioni indigene Herero e Nama nell’Africa sud-occidentale. Nel 1904, il generale Lothar von Trotha, comandante militare tedesco, emise un “ordine di sterminio”, giustificato dalla logica di una “guerra razziale”. Nel 1908 le autorità tedesche avevano ucciso 10.000 Nama e avevano raggiunto l’obiettivo dichiarato di “distruggere gli Herero”, uccidendo 65.000 Herero, l’80% della popolazione. Gli ordini di Gallant del 9 ottobre non furono meno espliciti. L’obiettivo di Israele è distruggere i palestinesi di Gaza.

da qui

 

 

 

Chris Hedges – Israele chiude il suo laboratorio umano a Gaza

Israele usa i palestinesi imprigionati a Gaza come cavie umane per le sue industrie di armi e tecnologie.

I palestinesi sono topi da laboratorio per l’esercito israeliano, i servizi di intelligence e le industrie di armi e tecnologia. I droni, la tecnologia di sorveglianza israeliana – compresi i software di spionaggio, di riconoscimento facciale e le infrastrutture di raccolta biometrica – insieme alle recinzioni “intelligenti”, alle bombe sperimentali e alle mitragliatrici controllate dall’intelligenza artificiale, vengono sperimentati sulla popolazione prigioniera di Gaza, spesso con risultati letali. Queste armi e tecnologie vengono poi certificate come “testate in battaglia” e vendute in tutto il mondo.

Israele è il 10° rivenditore di armi del pianeta e vende la sua tecnologia e le sue armi a circa 130 nazioni, comprese le dittature militari in Asia e America Latina. Le vendite di armi israeliane hanno totalizzato 12,5 miliardi di dollari lo scorso anno. Lo stretto rapporto con queste agenzie militari, di sicurezza interna, di sorveglianza, di raccolta di informazioni e di applicazione della legge, spiega il pieno sostegno che gli alleati di Israele danno alla sua campagna genocida a Gaza. Quando il presidente colombiano Gustavo Petro si è rifiutato di condannare l’attacco del 7 ottobre da parte dei gruppi di resistenza palestinesi come “attacco terroristico” e ha detto che “il terrorismo sta uccidendo bambini innocenti in Palestina”, Israele ha immediatamente interrotto tutte le vendite di attrezzature di difesa e sicurezza alla Colombia. Questa cabala globale, dedita alla guerra permanente e a mantenere le popolazioni monitorate e controllate, fattura centinaia di miliardi di dollari all’anno.

Queste tecnologie stanno rafforzando un totalitarismo aziendale sovranazionale, un mondo in cui le popolazioni sono schiavizzate in modi che i regimi totalitari del passato potevano solo immaginare.

L’assalto genocida a Gaza è un altro capitolo della secolare pulizia etnica dei palestinesi da parte del progetto coloniale israeliano. È accompagnato, come tutti i progetti coloniali, dal furto di risorse naturali, terra, acqua e gas naturale nei giacimenti marini di Gaza, a 20 miglia nautiche dalla costa di Gaza, che potrebbero contenere fino a 1.000 miliardi di piedi cubi di gas naturale. In un mondo in cui le risorse diminuiscono, soprattutto l’acqua in Medio Oriente, e le dislocazioni causate dalla crisi climatica, Gaza è il preludio di un nuovo spaventoso ordine mondiale. Mentre le democrazie avvizziscono e muoiono, mentre la disuguaglianza economica si espande, mentre la povertà e la disperazione aumentano, la classe dirigente globale farà sempre più spesso a noi – una volta che ci ribelleremo – quello che sta facendo ai palestinesi.

Non è lontano da Gaza il campo e i centri di detenzione allestiti per i migranti che fuggono in Europa dall’Africa e dal Medio Oriente. Non è molto distante dai bombardamenti a tappeto su Gaza alle guerre infinite in Medio Oriente e nel Sud del mondo. Non è lontano dalle leggi antiterrorismo usate per criminalizzare il dissenso in Israele alle leggi antiterrorismo introdotte in Europa e negli Stati Uniti.

Il 7 ottobre, i palestinesi di Gaza sono scappati dalla gabbia del loro laboratorio. Si sono scatenati in una serie di omicidi contro i loro sadici padroni. Dal 7 ottobre, quasi 12.000 palestinesi sono stati uccisi e circa 30.000 feriti, tra cui 4.700 bambini, nell’uragano di granate, proiettili, bombe e missili che stanno trasformando Gaza in una terra desolata. Quasi 3.000 palestinesi sono dispersi o sepolti sotto le macerie. Presto i palestinesi saranno colpiti da malattie infettive e dalla fame. Quelli che sopravviveranno, se Israele riuscirà nella sua pulizia etnica, diventeranno rifugiati, ancora una volta, oltre il confine con l’Egitto. In Cisgiordania ci sono ancora molte cavie palestinesi. Gaza sarà chiusa al mondo.

Israele, che non è firmatario del Trattato sul commercio di armi, ha da tempo fornito armi ad alcuni dei regimi più odiosi del pianeta, tra cui il governo dell’apartheid del Sudafrica e il Myanmar. L’India è il maggior acquirente di droni militari di Israele. Israele ha fornito UAV, missili e mortai all’Azerbaigian per l’invasione e l’occupazione del Nagorno-Karabakh, che ha causato lo sfollamento di 100.000 persone, più dell’80% dell’enclave di etnia armena. Israele ha venduto napalm e armi all’esercito salvadoregno e al regime omicida del generale José Efraín Ríos Montt in Guatemala, quando ho seguito le guerre degli anni ’80 in America Centrale. I mitragliatori Uzi di fabbricazione israeliana erano le armi preferite dagli squadroni della morte centroamericani. Israele ha anche venduto armi ai serbi di Bosnia, nonostante le sanzioni internazionali, quando ho seguito la guerra in Bosnia negli anni ’90, un conflitto che ha causato la morte di 100.000 persone.

“Israele è un attore chiave nella battaglia dell’UE per militarizzare i propri confini e scoraggiare i nuovi arrivi, una politica che ha subito un’enorme accelerazione dopo il massiccio afflusso di migranti nel 2015, dovuto principalmente alle guerre in Siria, Iraq e Afghanistan”, scrive Anthony Loewenstein in “The Palestine Laboratory: How Israel Exports the Technology of Occupation Around the World”, “L’UE ha stretto partnership con le principali aziende di difesa israeliane per l’utilizzo dei suoi droni, e naturalmente gli anni di esperienza in Palestina sono un punto di forza fondamentale”.

“Le somiglianze tra il confine tra Stati Uniti e Messico e il muro di Israele attraverso i territori occupati aumentano di anno in anno”, scrive. L’uno informa e ispira l’altro, con le aziende tecnologiche sempre alla ricerca di nuovi modi per colpire e catturare i nemici percepiti”. L’uso di strumenti di sorveglianza ad alta tecnologia per monitorare il confine è stato sostenuto sia dai repubblicani che dai democratici. Una società durante gli anni di Trump, la Brinc, sostenuta dal miliardario Peter Theil, ha testato la possibilità di dispiegare droni armati che avrebbero stordito i migranti con una pistola elettrica lungo il confine tra Stati Uniti e Messico”.

I droni Heron TP “Eitan”, prodotti dalla Israel Aerospace Industries – la più grande azienda israeliana di aerospazio e difesa e il più grande esportatore di armi del Paese – sono utilizzati da Frontex, l’agenzia per le frontiere esterne e le coste dell’Unione Europea, per monitorare e scoraggiare le imbarcazioni di migranti e rifugiati nel Mediterraneo. I droni, che volano fino a 40 ore ininterrottamente, possono essere modificati per trasportare quattro razzi Spike con manicotti a frammentazione composti da migliaia di cubetti di tungsteno da 3 mm che perforano il metallo e “provocano lo strappo dei tessuti dalla carne”, in sostanza facendo a pezzi la vittima. Vengono usati abitualmente sui palestinesi.

“È quasi impossibile attraversare il Mediterraneo [come migrante]”, ha dichiarato a Loewenstein Felix Weiss, dell’ONG tedesca Sea-Watch. “Frontex è diventato un attore militarizzato, con attrezzature provenienti da zone di guerra”, ha aggiunto.

Elbit Systems, la più grande azienda privata israeliana di armi, fornisce alla Customs and Border Protection (CBP) degli Stati Uniti torri di sorveglianza ad alta tecnologia che utilizza lungo il confine con il Messico. Inoltre, nel 2004 ha fornito al CBP il suo drone Hermes per testare la fattibilità dell’uso di UAV al confine.

Pegasus, uno strumento di phone-hacking prodotto dall’israeliana NSO Group, un’agenzia di cyber intelligence, è stato utilizzato dai cartelli della droga messicani per prendere di mira la giornalista Griselda Triana, dopo che suo marito Javier Valdez Cárdenas, anch’egli reporter investigativo, è stato assassinato nel 2017. Secondo la ricerca e l’analisi del Citizen Lab canadese, il governo messicano è direttamente coinvolto nel colpire giornalisti e membri della società civile con il software spia Pegasus. Dopo l’uccisione e lo smembramento del reporter Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul nell’ottobre 2018, si è scoperto che un cliente della NSO aveva preso di mira il telefono della sua fidanzata, Hanan Elatr. Pegasus trasforma un telefono cellulare in un dispositivo di sorveglianza mobile, con microfoni e telecamere attivati all’insaputa dell’utente.

La Skunk Water, un liquido dall’odore putrido, è stata testata e perfezionata sui palestinesi, spesso con troupe israeliane che registravano gli attacchi per mostrare ai potenziali clienti l’efficacia della sostanza chimica.

“Le forze israeliane inondano abitualmente interi quartieri palestinesi di acqua puzzolente, spruzzandola deliberatamente in case private, aziende, scuole e funerali, in quella che il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem definisce “una misura punitiva collettiva” contro i villaggi palestinesi che si impegnano a protestare contro la violenza coloniale di Israele”, ha riportato The Electronic Intifada nel 2015. Nello stesso anno, il Dipartimento di Polizia Metropolitana di St. Louis ha acquistato 14 bombole di Skunk da utilizzare contro i manifestanti in seguito alle manifestazioni scoppiate dopo l’uccisione da parte della polizia dell’adolescente afroamericano disarmato Michael Brown, a Ferguson, nel Missouri.

Israele ha creato un sofisticato sistema di riconoscimento facciale, Red Wolf, per documentare ogni palestinese nei territori occupati. La tecnologia “viene utilizzata ampiamente” per “consolidare le pratiche esistenti di polizia discriminatoria, segregazione e limitazione della libertà di movimento, violando i diritti fondamentali dei palestinesi”, spiega Amnesty International nel suo recente rapporto intitolato “Apartheid automatizzata”. L’agenzia investigativa francese Disclose ha rivelato che da otto anni la polizia francese utilizza illegalmente un software di riconoscimento facciale fornito dall’azienda tecnologica israeliana BriefCam. La tecnologia di BriefCam consente agli utenti di “rilevare, tracciare, estrarre, classificare [e] catalogare” le persone “che appaiono nei filmati di videosorveglianza in tempo reale”.

Le mitragliatrici AI, prodotte dall’azienda israeliana SMARTSHOOTER, possono sparare granate stordenti e proiettili con punta di gomma, nonché gas lacrimogeni. Sono state perfezionate durante le prove sui palestinesi in Cisgiordania. SMARTSHOOTER si è recentemente aggiudicato un contratto per fornire all’esercito britannico il suo “sistema di puntamento e sparo automatico” SMASH, che può essere collegato ad armi di piccolo calibro come i fucili automatici.

Secondo Jeff Halper, nel suo libro “War Against the People”, Israele ha svolto un lavoro all’avanguardia sui soldati cyborg. Ha sviluppato un sistema radar che vede attraverso i muri, scrive. Come spiega The Electronic Intifada, il complesso militare-industriale israeliano ha costruito “un carro armato chiamato Cruelty, un drone da 20 grammi a forma di farfalla, una ‘barca delle meraviglie’ stealth chiamata Death Shark, una serie di armi che prendono il nome da insetti o fenomeni naturali (calabroni bionici, polvere intelligente, droni libellula e robot rugiada intelligenti), insetti cibernetici, un centro di addestramento per la ‘guerra urbana’ di 600 edifici soprannominato Chicago e una bomba da un megatone con capacità di impulso elettromagnetico”.

Harper osserva che durante l’occupazione dell’Iraq, l’esercito statunitense ha replicato le tattiche usate da Israele contro i palestinesi. Ha costruito una barriera di sicurezza intorno alla Zona Verde di Baghdad, ha imposto la chiusura di città e villaggi, ha compiuto omicidi mirati, ha copiato le tecniche di tortura israeliane e ha usato checkpoint e blocchi stradali per isolare città e villaggi.

Israele addestra ed equipaggia le forze di polizia statunitensi, insegnando tattiche aggressive, supportate da hardware e veicoli militari pesanti, che sono stati utilizzati a Ferguson e ad Atlanta durante gli scontri della polizia con gli attivisti che protestavano contro Cop City.

Halper chiama questo fenomeno la “palestinizzazione” dei conflitti globali.

“Con così tante aziende israeliane coinvolte nel mantenimento delle infrastrutture intorno all’occupazione, queste imprese hanno trovato modi innovativi per vendere i loro servizi allo Stato, testare le ultime tecnologie sui palestinesi e poi promuoverle in tutto il mondo”, spiega Loewenstein. E mentre “le industrie della difesa sono sempre più in mani private”, dopo decenni di privatizzazione neoliberale, “continuano ad agire come un’estensione dell’agenda di politica estera di Israele, sostenendo i suoi obiettivi e l’ideologia a favore dell’occupazione”.

La classe dirigente globale contrasterà le forze destabilizzanti della disuguaglianza, la limitazione delle libertà civili, il crollo delle infrastrutture, il fallimento dei sistemi sanitari e la crescente penuria causata dall’accelerazione della crisi climatica, bollando tutti coloro che resistono come “animali umani”.

Questo nuovo ordine mondiale è iniziato a Gaza. Finirà a casa nostra.

Traduzione de l’AntiDiplomatico

da qui

 

 

Palestina, cuore del mondo – Nicola Casale

La Tempesta di Al Aqsa ha provocato molti turbamenti sia in quel che resta della sinistra anti-capitalista sia in molti militanti che avevano conservato sulla pandemia una lucidità di classe. Una vera e propria Sindrome di Hamas, come la definisce questo articolo https://sinistrainrete.info/articoli-brevi/26619-raffaele-tuzio-la-sindrome-di-hamas.html che ne descrive brillantemente sintomi ed effetti. C’è effettivamente da interrogarsi su come mai soggetti che hanno rifiutato di dare credito a ciascuno dei dettagli politico-mediatici-scientifici agitati per gestione pandemica, vaccini, ecc. abbiano preso per buoni tutti i dettagli informativi tesi a dimostrare che l’azione della resistenza palestinese non fosse altro che un terroristico massacro di civili (ulteriore prova di come il problema non sia dell’informazione in sé, ma di come si crede in ciò in cui si ha bisogno di credere, in ragione della propria condizione materiale, di coscienza, ecc. che non è solo la condizione di classe, ma anche l’ambito generale sociale, economico, politico in cui si vive: tanto per dire, anche i giovani palestinesi che vivono da noi si alimentano della nostra stessa informazione, dei social, ecc., eppure ne traggono conclusioni diametralmente opposte e vanno in pazza a rivendicare con veemenza free Palestine… pur non essendo militanti di Hamas e senza necessità di prenderne le distanze).

Come ben detto nell’articolo, se anche si fosse trattato solo di un atto terroristico non avrebbe, in nulla, cambiato l’ordine dei problemi, ossia quelli di un popolo costretto a reagire, spesso con atti disperati (che solo tali solo per l’enorme asimmetria di armamenti), a una lunga, sistematica, brutale oppressione che non conosce limiti di alcuna natura. Ma non di questo si è trattato, bensì di una vera e propria operazione militare, fatta con i mezzi poverissimi che è possibile reperire nel quadro spaventoso di controllo militare e di intelligence esercitato da Israele, e messa in atto da tutti i gruppi di resistenza tranne Al Fatah.

A questo proposito si può leggere, tra i tanti articoli che chiariscono la questione, questo https://giubberosse.news/2023/10/30/20-giorni-di-tempesta/. Non è un invito a condividerne l’impostazione politica, ma a tenere conto delle informazioni utili a comprendere che cosa sia la Tempesta di Al Aqsa: un’operazione militare, lungamente preparata e scatenata in un preciso momento politico. Hamas ha dichiarato che l’operazione era stata progettata in dimensioni più limitate di quanto poi avvenuto. 1.500 combattenti avrebbero dovuto attaccare istallazioni militari vicine al confine di Gaza e cercare di prendere 20-30 ostaggi militari per proporre uno scambio, mettendo in conto una reazione di Israele proporzionata a questo attacco limitato e che molti dei combattenti sarebbero rimasti sul terreno. Le dimensioni sono diventate più ampie, secondo Hamas, perché la resistenza incontrata è stata inferiore a quella prevista (sotto la pressione dei partiti dei coloni il grosso delle truppe israeliane erano state spostate, infatti, in Cisgiordania per appoggiare l’ulteriore estensione degli insediamenti lì) e perché un numero considerevole di giovani non organizzati dai gruppi della resistenza sono entrati dai valichi aperti e hanno condotto in proprio azioni militari e di presa di ostaggi. Anche i combattenti rientrati a Gaza sono stati 1.400, con perdite inferiori a quelle previste. Ma questo non muta il fatto che si sia trattato di operazione militare lungamente preparata e messa in atto in un dato momento politico.

C’è in questo, da un lato, disperazione di un popolo seviziato quotidianamente da 75 anni, ma, dall’altro, una straordinaria capacità di collocare la propria azione di resistenza nell’ambito di un quadro politico, locale e mondiale, che, potenzialmente, può offrire degli spiragli per tentare di scuotersi definitivamente dall’oppressione. Per lo meno, si cerca con lucidità di volgere a proprio vantaggio quel quadro, senza, naturalmente, poterne avere in anticipo la certezza…

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LA PROSSIMA SORPRESA PER ISRAELE STA ARRIVANDO DALLA CISGIORDANIA – Gideon Levy

La prossima sorpresa non arriverà come sorpresa. Potrebbe essere meno mortale della precedente, il 7 ottobre, ma il suo prezzo sarà alto. Quando ci cadrà addosso, lasciandoci attoniti per la brutalità del nemico, nessuno potrà affermare che non sapeva che stava arrivando.

L’esercito non sarà in grado di asserirlo perché ha costantemente messo in guardia in proposito – ma non ha mosso un dito per prevenirlo. Così la responsabilità delle Forze di Difesa Israeliane sarà grande come nel massacro nel sud, e non meno significativa di quella dei coloni e dei politici che gli starebbero impedendo di agire.

La prossima pentola a pressione che sta per scoppiarci in faccia sta bollendo in Cisgiordania. L’IDF lo sa; i suoi comandanti non smettono dare l’allarme a questo riguardo. Sono allarmi ipocriti, sanzionatori, per coprire le spalle all’esercito. Questi allarmi sono spudorati, perché l’IDF, con le sue proprie mani e i propri soldati sta soffiando sul fuoco non meno dei coloni.

Fingere che potremmo trovarci a combattere su un altro fronte solo a causa dei coloni è ipocrita e disonesto. Se l’IDF avesse voluto, avrebbe agito per calmare subito le tensioni. Se avesse voluto, sarebbe intervenuto contro i coloni come un esercito normale è tenuto a trattare milizie locali e gruppi armati.

I nemici di Israele in Cisgiordania includono i coloni e l’IDF non fa nulla per fermarli. I suoi soldati prendono attivamente parte nei pogrom, maltrattando vergognosamente i residenti – fotografandoli e arrestandoli, distruggendo monumenti come quello di Yasser Arafat a Tulkarem e buttando giù dal letto migliaia di persone. Questo aggiunge benzina al fuoco e inasprisce le tensioni.

Soldati vendicativi, invidiosi dei loro compatrioti a Gaza, stanno infuriando nei territori occupati con il dito leggero e entusiasta sul grilletto. Quasi 200 palestinesi sono stati uccisi da quando è iniziata la guerra e nessuno li ferma. Nessun comandante regionale, comandante di divisione o comandante sul campo sta fermando la furia. Devono volerlo anche loro; è difficile da credere che anche loro siano paralizzati dalla paura dei coloni. Dopo tutto sono considerati coraggiosi.

I coloni sono estasiati. L’odore di sangue e distruzione che sale da Gaza li sta incitando alla rivolta come mai prima. Non servono altre favole su lupi solitari o mele marce. L’impresa degli insediamenti, con le sue schiere di funzionari politici e finanziamenti, non sta combattendo contro i pogrom che ne derivano. La guerra è il loro giorno di paga, la loro grande opportunità. Sotto la copertura della guerra e della brutalità di Hamas, hanno colto l’occasione per cacciare quanti più palestinesi possibile dai loro villaggi – specialmente dai più poveri e piccoli – prima della grande espulsione che seguirà la prossima guerra, o dopo quella successiva.

Questa settimana ho visitato la terra di nessuno nella zona delle colline a sud di Hebron. Mai prima le cose sono state così. Ogni colono ora è membro di un “team di sicurezza.” Ogni “team di sicurezza” è una milizia armata, feroce, con licenza di usare violenza ai pastori e contadini, di espellerli.

Sedici villaggi in Cisgiordania sono già stati abbandonati e l’espulsione continua a tutta velocità. L’IDF fondamentalmente non esiste. Israele, che non è mai stato interessato a quello che succede in Cisgiordania, ora certamente non ne avrà notizia. I media internazionali hanno un vivo interesse; capiscono cosa sta succedendo.

Dietro a tutto questo c’è la stessa arroganza israeliana che ha permesso che si verificasse la sorpresa del 7 ottobre. Le vite dei palestinesi sono considerate immondizia. Occuparsi del loro destino e dell’occupazione è considerato un fastidio ossessivo. L’idea prevalente è che se lo ignoriamo, le cose in qualche modo torneranno al loro posto.

Ciò che sta succedendo in Cisgiordania riflette uno stato delle cose incredibile. Perfino dopo il 7 ottobre Israele non ha imparato nulla. L’attuale disastro nel sud si è abbattuto su di noi dopo anni di assedio, negazione e indifferenza, il prossimo ci cadrà addosso perché dopo il suo predecessore, Israele ha mancato di prendere sul serio gli avvertimenti, le minacce e la situazione grave.

La Cisgiordania geme nel dolore e nessuno in Israele ascolta il grido di aiuto. I coloni stanno infuriando e nessuno in Israele sta cercando di fermarli. Quanto possono ancora sopportare i palestinesi? Israele dovrà pagare il conto di tutto ciò che accade. Sarà freddo o caldo, ma in entrambi i casi molto sanguinoso.

Traduzione a cura di Sveva Haertter

da qui

 

 

Pepe Escobar – Perché gli Stati Uniti hanno bisogno di questa guerra a Gaza

[Traduzione a cura di: Nora Hoppe]

Il Sud Globale si aspettava l’Alba di una Nuova Realtà Araba.

Dopo tutto, “la Piazza araba” – anche se repressa nella loro nazioni d’origine – ha pulsato con proteste che esprimevano una collera feroce contro il massacro di massa dei palestinesi nella Striscia di Gaza da parte di Israele.

I leader arabi sono stati costretti a prendere qualche provvedimento, oltre alla sospensione di alcune ambasciate con Israele, e hanno convocato un vertice speciale dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC) per discutere della Guerra Israeliana in corso Contro i Bambini Palestinesi.

I rappresentanti di 57 Stati musulmani si sono riuniti a Riyadh l’11 novembre per sferrare un colpo serio e concreto contro chi pratica e favorisce il genocidio. Ma alla fine non è stato offerto nulla, nemmeno un po’ di consolazione.

La dichiarazione finale dell’OCI rimarrà custodita per sempre nel Palazzo Dorato della Codardia. I punti salienti del ignominioso spettacolo retorico: ci opponiamo all'”autodifesa” di Israele; condanniamo l’attacco a Gaza; chiediamo (a chi?) di non vendere armi a Israele; chiediamo al canguro CPI di “indagare” sui crimini di guerra; chiediamo una risoluzione ONU di condanna di Israele.

Per la cronaca, questo è il meglio che 57 Paesi a maggioranza musulmana sono riusciti a fare in risposta a questo genocidio del XXI secolo.

La storia, anche se scritta dai vincitori, tende a non perdonare i codardi.

I Primi Quattro Vigliacchi, in questo caso, sono l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e il Marocco – questi ultimi tre avevano normalizzato le relazioni con Israele sotto la pesante mano degli Stati Uniti nel 2020. Sono loro che hanno costantemente bloccato l’adozione di misure serie al vertice dell’OCI, come la bozza di proposta algerina per il divieto di esportazione di petrolio a Israele e il divieto di utilizzare lo spazio aereo arabo per consegnare armi allo Stato di occupazione.

Anche l’Egitto e la Giordania – vassalli arabi di lunga data – non si sono impegnati, così come il Sudan, che si trova nel mezzo di una guerra civile. La Turchia, sotto il sultano Recep Tayyip Erdogan, ha dimostrato ancora una volta di essere tutta chiacchiere e niente azioni; una parodia neo-ottomana del texano “tutto cappello, niente bestiame”.

BRICS o IMEC?

I Quattro Principali Vigliacchi meritano di essere esaminati. Il Bahrein è un umile vassallo che ospita un ramo chiave dell’Impero di Basi statunitense. Il Marocco ha strette relazioni con Tel Aviv – si è venduto rapidamente dopo la promessa israeliana di riconoscere la rivendicazione di Rabat sul Sahara occidentale. Inoltre, il Marocco dipende fortemente dal turismo, soprattutto quello collettivo occidentale.

Poi ci sono i pezzi grossi, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Entrambi sono pieni zeppi di armi americane e, come il Bahrein, ospitano anche basi militari statunitensi. Il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman (MbS) e il suo vecchio mentore, il sovrano emiratino Mohammad bin Zayed (MbZ), tengono in considerazione la minaccia di rivoluzioni colorate che potrebbero dilaniare i loro domini regali se si discostassero troppo dal copione imperiale accettato.

Ma tra poche settimane, a partire dal 1° gennaio 2024, sotto la presidenza russa, sia Riyadh che Abu Dhabi amplieranno i propri orizzonti diventando ufficialmente membri degli BRICS 11.

L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono stati ammessi nei BRICS allargati solo grazie a un attento calcolo geopolitico e geoeconomico del partenariato strategico Russia-Cina.

Insieme all’Iran – che ha una propria partnership strategica sia con la Russia che con la Cina – Riyadh e Abu Dhabi dovrebbero rafforzare il peso energetico della sfera dei BRICS ed essere attori chiave, più avanti nel tempo, nella spinta alla de-dollarizzazione il cui scopo ultimo è quello di bypassare il petrodollaro…

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Un solo modo per far cessare la strage – Gian Giacomo Migone

C’è un solo modo per far cessare la strage, in corso a Gaza e dintorni, che grava sulle coscienze di tutti noi. Occorre una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che imponga il cessate il fuoco, la liberazione degli ostaggi, l’osservanza del diritto internazionale e che, quando e ove necessario, preveda l’intervento di forze dell’ONU, secondo quanto previsto dalla Carta. Perché ciò possa avvenire, le rivolte in atto in tutto il mondo, di ebrei, musulmani, persone di buona volontà avranno lo scopo di esercitare pressioni, nei confronti di qualunque stato – in primo luogo, gli Stati Uniti che lo hanno fatto ripetutamente – che intenda usare il proprio diritto di veto, in violazione della volontà più volte espressa, a grande maggioranza, dall’Assemblea Generale.

Non è vero che Israele, guidato da Benjamin Netanyahu, non abbia un obiettivo preciso, chiaro, mai contraddetto. È, anzi, l’unico stato ad averlo, in questo frangente di confusione delle coscienze, in cui prevalgono tattiche nazionalistiche di breve raggio. Il suo obiettivo è quello di un unico stato confessionale, imposto con la forza a Gaza e a tutta la Cisgiordania, a scapito di ogni diritto umano e di cittadinanza di Palestina e dei Palestinesi, invece ripetutamente incorporato nella legalità internazionale da più risoluzioni delle Nazioni Unite e del suo stesso Consiglio di Sicurezza. Poco importa agli attuali governanti d’Israele che i loro obiettivi generino ed alimentino sopiti quanto ignobili istinti antisemiti; che, anzi, possono essere asserviti ai propri scopi, confondendo critiche alla politica d’Israele con sacrosanti sensi di colpa che scaturiscono da una tuttora incompiuta autocritica, legata alla storia dell’Olocausto, e di cui i Palestinesi sono diventati le vittime sacrificali. Agli attuali governanti giova anche soffocare, in virtù della guerra in corso, le proteste di massa di cittadini israeliani, in difesa di regole e diritti democratici di un proprio stato, laico e democratico, universalmente riconosciuto.

È diffusa, anche nel nostro paese, la consapevolezza di quanto sta avvenendo, anche se, come troppo spesso avviene di questi tempi, nessuna forza politica è stata capace di rappresentarla. In particolare, il governo italiano – gravato dalla storia antisemita della presidente del consiglio e del partito di maggioranza relativa – è complice della strage in corso, al fianco di altri governi occidentali. Le manifestazioni di massa in continua crescita in Francia, nel Regno Unito, in alcuni paesi arabi, possono essere emulate da persone di buona volontà, fino a trovare riscontro nelle istituzioni che ancora ci appartengono. È sufficiente prestare ascolto ai ripetuti appelli di Papa Francesco, ignorando la propaganda bellica, mediatica ed individuale che, oggi più che mai, tende a soffocare le voci libere e pacifiche.

 

 

Patrick Lawrence – La banalità della propaganda israeliana

Domenica ho visto un video clip di Isaac Herzog, dove il presidente israeliano tiene in mano una copia del Mein Kampf, tradotto in arabo.

Il video è stato realizzato un giorno dopo un’immensa manifestazione a Londra in favore di un cessate il fuoco a Gaza e della liberazione dei palestinesi dalla lunga e violenta repressione di Israele. Ecco una parte delle parole di Herzog:

“Voglio mostrarvi qualcosa di esclusivo. Questo è il libro di Adolf Hitler, Mein Kampf. È il libro che ha portato all’Olocausto e alla Seconda Guerra Mondiale. Questo è il libro che ha portato… alla peggiore atrocità dell’umanità, contro la quale gli inglesi hanno combattuto.

Questo libro è stato trovato pochi giorni fa nel nord di Gaza, nel salotto di un bambino trasformato in una base operativa militare di Hamas, sul corpo di uno dei terroristi e assassini di Hamas, che ha persino preso appunti, ha segnato, e ha imparato ancora e ancora l’ideologia di Hitler di uccidere gli ebrei, di bruciare gli ebrei, di massacrare gli ebrei.

Questa è la vera guerra in cui ci troviamo. Quindi tutti coloro che hanno manifestato ieri – non sto dicendo che tutti loro sostengono Hitler. Ma sto solo dicendo che omettendo di capire in cosa consiste l’ideologia di Hamas, stanno fondamentalmente sostenendo questa ideologia.”

È possibile vedere una versione di un minuto e 22 secondi di questo video clip qui o una versione più lunga della BBC qui. In entrambi i casi, vediamo il capo di Stato israeliano giocare la carta dell’Olocausto, la carta di Hitler, la carta delle vittime ebree e la carta di Hamas come mostri sanguinari che bruciano e massacrano, tutto in una volta.

Non riesco a identificare la rete televisiva che ha mostrato la versione più breve di Herzog, e mi stupisce che la BBC l’abbia presa abbastanza sul serio da trasmetterla, ma questa è la Beeb di questi tempi – sempre attiva per la causa transatlantica.

Dopo aver visto Herzog e aver preso appunti, ho pensato a quanto sia inconsistente la propaganda nella maggior parte dei casi. Questo è vero in molti, moltissimi casi negli annali della terribile arte: quella di Hitler, di Mussolini, del Giappone e dell’America durante la Seconda Guerra Mondiale. A guardarla ora, nessuna di queste opere è molto sofisticata per il semplice motivo che non è necessario che lo sia.

La propaganda si basa su un impatto forte, la sottigliezza è l’ultima cosa a cui pensa il propagandista. Il banale andrà sempre bene. I giapponesi durante la guerra del Pacifico si chiamavano “Japs” o “Nips”, e nella moltitudine di immagini della propaganda americana avevano denti a becco d’oca e baffi a matita e portavano occhiali rotondi sui loro occhi malvagi da asiatici.

Dopo aver visto il video di Herzog, sono andato alla ricerca dei filmati di Londra del giorno precedente. Ci sono state molte manifestazioni contro la selvaggia campagna militare di Israele a Gaza da quando sono scoppiate le ostilità il 7 ottobre, e potrebbero essercene molte altre, ma quella di Londra di sabato scorso sembra la più grande fino ad oggi.

“Free Gaza”, “Ceasefire Now”, “Not in Our Names”: queste erano alcune delle cose gridate e scarabocchiate sui cartelli mentre la protesta si snodava lentamente attraverso il centro di Londra, da Hyde Park all’ambasciata statunitense a diversi chilometri di distanza. La polizia ha stimato in 300.000 il numero dei manifestanti. Dai filmati – tutto quello che ho a disposizione – direi che si avvicina al mezzo milione.

Se si guarda abbastanza propaganda, contemporanea o storica, si scopre che non importa nemmeno se i copioni e le immagini tradiscono la crudezza e l’indegnità di chi produce la propaganda. L’intento è solo quello di catturare i pensieri e i sentimenti della maggioranza non pensante, per quanto sia necessario farlo.

Il dipartimento di propaganda israeliano in uno stato di disperazione

Ma questo progetto è più difficile oggi, nell’era dei media digitali e di una stampa indipendente sempre più influente. Così mi sembra. La gente può vedere di più e in modo più chiaro e immediato, se sceglie di guardare. E sempre più persone scelgono di farlo.

Se l’idiota filmato di Herzog ci ha detto qualcosa, è che il dipartimento di propaganda israeliano è in uno stato di disperazione, avendo già perso la guerra delle relazioni pubbliche mentre le Forze di Difesa israeliane scavano la fossa ogni giorno di più.

Dopo aver visto il video di Herzog e poi quello di Londra, ho pensato a un passaggio memorabile de Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt:

“In un mondo sempre mutevole e incomprensibile, le masse erano arrivate al punto di credere contemporaneamente a tutto e a niente, di pensare che tutto fosse possibile e che niente fosse vero. La propaganda di massa scoprì che il suo pubblico era pronto in ogni momento a credere al peggio, per quanto assurdo, e non si opponeva particolarmente a essere ingannato perché riteneva che ogni affermazione fosse comunque una menzogna”.

La Arendt guardava al Reich e all’Unione Sovietica di Stalin quando scrisse il suo celebre trattato del 1951. Ma il pensiero sembra non essere mai stato così lontano dalla sua mente.

In una conversazione con un attivista francese per la libertà di parola, non molto tempo prima della sua morte nel 1975, la Arendt ebbe parole ancora più crude su ciò che alla fine deriva da circostanze come la nostra. “Se tutti ti mentono sempre”, disse a Roger Errera, “la conseguenza non è che tu creda alle bugie, ma piuttosto che nessuno creda più a niente”.

Mezzo secolo prima che Herzog girasse il suo video e che i manifestanti riempissero le strade di Londra, la Arendt ha descritto perfettamente lo scorso fine settimana.

È una bella cosa che sempre meno persone si lascino ingannare dai blitz di psyop e propaganda dello Stato di sicurezza nazionale, dei media aziendali e di regimi spietati – anzi, hitleriani, per dirla tutta – come quello di Israele.

Ma vivere in un mondo in cui non si crede a nulla di ciò che viene detto è una vera e propria miseria. È di fatto una resa di tutto il discorso pubblico e dello spazio pubblico al maligno, all’indecente, al disumano, al degradato e al degradante. La verità, e con essa il pensiero logico e la semplice decenza, diventano “alternativi”.

C’è un modo per guardare al di là delle nostre circostanze degradate? O dobbiamo vagare indefinitamente in uno stato di negatività, di non credenza, di alienazione dalla nostra stessa politica?

La mia risposta è sì alla prima domanda, no alla seconda: c’è sempre un modo per costruire un futuro diverso – è una questione di principio. In questo caso il progetto deve iniziare con il recupero del linguaggio. Rifiutare la lingua ufficiale di chi detiene il potere, come fanno oggi molte persone, è un inizio. Dobbiamo poi imparare di nuovo a parlare la lingua che non viene parlata, la lingua in cui risiede la verità.

In gran parte a causa del modo in cui ho trascorso i miei anni di professione, sono particolarmente sensibile al potere del linguaggio quando viene utilizzato per la chiarezza e la comprensione o per l’offuscamento e l’ignoranza.

Il linguaggio delle istituzioni, il linguaggio del potere, è fatto di eufemismi oscuranti – “leadership globale”, “danni collaterali”, “cambio di regime”, “comunità di intelligence”, “ordine basato sulle regole” e così via attraverso il lessico burocratico – e di audaci falsificazioni come quelle che Isaac Herzog ci ha offerto domenica scorsa.

Orwell ha descritto come il linguaggio degli ideologi e dei mandarini burocratici devasti la nostra capacità di pensare con chiarezza – proprio il suo scopo – in “Politics and the English Language”. Da quando pubblicò il suo saggio su Horizon nell’aprile del 1946, il problema, così come lo abbiamo, è peggiorato di sette decenni.

Questo uso del linguaggio ha disarmato il linguaggio stesso, privandolo del suo potere di affermazione, cosicché discorsi o scritti al di fuori dell’ortodossia possono essere scartati come sede di un discorso serio.

Il linguaggio viene reso impotente come mezzo di pensiero creativo o come stimolo per un’azione nuova e fantasiosa.

L’uso assurdo e offensivo dell’espressione “antisemitismo”, che ora ci assale, ne è un esempio. L’intento evidente è quello di imporre un vasto silenzio per oscurare i crimini dell’apartheid israeliana.

Il compito che abbiamo di fronte è quello della restaurazione. È quello di riprendersi il linguaggio, di rinnovare la sua vita, di strapparlo all’influenza mortifera delle istituzioni, delle burocrazie e dei media aziendali, che hanno deformato il linguaggio in uno strumento per l’imposizione del conformismo. Ecco perché ogni grido e ogni cartello che si sente o si vede a Londra o in molte altre città in questi giorni è importante, è un atto di significato e di valore.

Il linguaggio chiaro è uno strumento – disadorno, scritto e parlato in modo semplice, colloquiale nel senso migliore del termine ma perfettamente capace di sottigliezze e complessità. È il linguaggio della storia, non del mito.

Questa lingua non è parlata per la causa dell’impero, ma sempre per la causa umana. “Palestina libera”, “Dal fiume al mare”: Sono esempi di due e sei parole del linguaggio che descrivo.

Questo è il linguaggio necessario per affrontare il potere, anziché assecondarlo. È un linguaggio che presuppone l’utilità dell’intelligenza e del pensiero critico. È destinato a porre molte domande degne di nota. È dedicato senza riserve ad ampliare ciò che è possibile dire in risposta ostile al “grande indicibile”, come lo chiamo io.

Attraverso questo linguaggio ci attende un discorso pubblico più vibrante e soddisfacente. Grazie a questo linguaggio, gli Isaac Herzog, Antony Blinkens e Ursula von der Leyens che inquinano il nostro spazio pubblico possono essere ridotti a ciò che sono: bugiardi e propagandisti. Il potere della lingua che descrivo priverà di ogni potere la lingua che parlano.

Parliamolo, scriviamolo, scarabocchiamolo sui muri e sui fogli di cartone. Riconosciamolo come lo strumento più potente a disposizione di coloro che rifiutano il silenzio che Isaac Herzog ha cercato di imporre a tutti i londinesi lo scorso fine settimana.

Traduzione de l’AntiDiplomatico

da qui

 

 

Ospedale al-Shifa: Il NYT smentisce ancora le bufale di Israele (diffuse dai soliti media italiani) – Davide Malacaria

E così è arrivato il giorno dell’assalto ad al Shifa, il più grande ospedale di Gaza, obiettivo predestinato dell’attacco israeliano a Gaza. Le foto che circolano sul web sono strazianti, inutile aggiungere. A Israele serviva un successo eclatante e da giorni segnalano che sotto l’ospedale si nasconderebbe il quartier generale di Hamas.

Verrà trovato anche se non c’è, altrimenti per Tel Aviv sarebbe una debacle dalla quale sarebbe impossibile rialzarsi. Già girano fotografie di armi che apparterrebbero ad Hamas abbandonate su scaffali. Altre fotografie arriveranno a provare che tanta ferocia era giustificata.

Il quartier generale di Hamas?

Shlomi Eldar, su Haaretz di ieri, vergava un articolo alquanto irridente sul famigerato quartier generale di Hamas di al Shifa: “Per anni, l’establishment della difesa ha affermato che gli alti dirigenti di Hamas si nascondono al sicuro sotto i reparti ospedalieri e le sale operatorie […] La nostra immaginazione, o almeno la mia, sta facendo gli straordinari”.

“Le teorie che circolano sui media israeliani dipingono una visione immaginaria di una sala da guerra blindata, una sala di controllo piena di documenti al suo interno, da cui partono gli ordini per il lancio di razzi contro Israele. Se espandiamo un po’ la nostra immaginazione, forse vedremo anche una grande mappa di Israele piena di spille e segni di spunta per ogni razzo lanciato che il sistema Iron Dome non è riuscito a intercettare”.

“In questa sala di comando sicuramente si possono trovare i leader di Hamas, Yahya Sinwar e Mohammed Deif, e gli alti ufficiali della sua ala militare, circondati da tunnel tortuosi pieni di carburante e cibo sufficienti per durare mesi”.

“Ma non ci sono solo i leader di Hamas. Il Wall Street Journal ha recentemente citato un alto funzionario israeliano che ha affermato che nei nei tunnel sotto l’ospedale si troverebbero alcuni degli ostaggi. La ‘rivelazione’ di quel funzionario israeliano non si basava su alcuna informazione documentata. Se gli ostaggi israeliani fossero stati effettivamente detetenuti nei tunnel sotto Al-Shifa, probabilmente non avrebbe fornito volontariamente queste informazioni al Wall Street Journal, mettendo così in pericolo la vita degli ostaggi o spingendo Hamas a portarli altrove”.

“Ma tutte queste speculazioni vengono costruite per preparare l’opinione pubblica israeliana e mondiale all’incursione dell’esercito all’interno dell’ospedale e, nel frattempo, per preparare una scenografia di vittoria”. Ma è possibile che “la montagna si riveli un granello di sabbia”, commenta il cronista… probabile che il granellino, sempre che esista, venga amplificato. Tanti i modi.

Ospedale al-Shifa: The New York Times smentisce ancora Israele

Eldar prosegue interpellando i lettori: “Immaginate una foto di soldati israeliani con fucili, elmetti e giubbotti antiproiettile che irrompono nei corridoi di un ospedale in cui la maggior parte dei pazienti è in gravi condizioni, compresi i prematuri dell’unità neonatale, che non possono essere evacuati come ordinato dai militari. Cosa si penserebbe all’estero?”.

È esattamente quel che è successo. E cosa si pensa all’estero è alquanto ovvio, nonostante si stia tentando in tutti i modi di attutire la portata dell’accaduto.

Quanto alla credibilità delle fonti israeliane, e come piccolo cenno su quanto sta accadendo, riportiamo un articolo del New York Times che smentisce l’affermazione dell’IDF secondo cui lo scorso venerdì l’ospedale di al Shifa era stato colpito da razzi di Hamas, con conseguenti stragi…

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Riyad: i falsi amici della causa palestinese – Il Pungolo Rosso

Si è concluso a Riyad il vertice congiunto fra Lega Araba e Organizzazione della Cooperazione Islamica: all’ordine del giorno era ovviamente il massacro dei Palestinesi di Gaza a opera delle forze armate israeliane – con l’appoggio determinante di Stati Uniti, Unione europea, Italia. Una riunione “d’emergenza” che si è tenuta dopo ben 35 giorni di massicci bombardamenti sulla Striscia e che l’Arabia Saudita avrebbe voluto posporre di altre settimane, senza tuttavia riuscirvi. I servizi di sicurezza, infatti, avevano messo in guardia il regime sulla marea montante delle proteste e dell’indignazione popolare, circostanza che ha consigliato di non tirare troppo la corda e accelerare i tempi del summit.

A quanto si può comprendere dai resoconti dei media, la montagna ha partorito il topolino. Anzi, neanche quello, ma solo una carrellata di roboanti dichiarazioni contro Israele, seguite da un nulla di fatto concreto. La stampa main stream da un lato sottolinea il sostanziale fallimento del vertice, dall’altro enfatizza la costruzione dell’asse arabo-islamico come nemico mortale di Israele, nel tentativo di trovare una giustificazione in più all’azione criminale dello stato sionista.

Del resto è quella stessa stampa il cui servilismo arriva fino al punto di presentare l’appoggio politico e militare degli USA al genocidio del popolo palestinese come un’iniziativa diplomatica volta ad assicurare “un’adeguata protezione” agli abitanti di Gaza, moderando la reazione di Tel Aviv.

A un’analisi più attenta, tuttavia, è facile constatare che la verità non sta “nel mezzo” delle menzogne giornalistiche, sta proprio da un’altra parte. I governi dei paesi arabi valgono zero quanto ad effettiva volontà e capacità di contrastare realmente Israele e il massacro che sta perpetrando. Tuttavia anche questa sceneggiata nello straripante lusso dei palazzi reali di Riyad crea qualche problema alle potenze imperialiste per la necessità che questi governi avvertono di assicurare la sottomissione delle masse sfruttate, a partire da quelle palestinesi.

L’intento dei partecipanti al vertice di Riyad è evidente: utilizzare la “questione palestinese” per i loro interessi politici, generali e particolari, che tuttavia sono divergenti e impediscono, per adesso, un’azione comune anche solo tattica che non sia di pura facciata. Senza dubbio, l’effetto scenografico del summit è stato notevole: vedere il presidente iraniano Raisi, con tanto di kefiah al collo, sbarcare a Riyad accolto da bin Salman con tutti gli onori, colpisce. Di certo è un successo della diplomazia cinese, che si è spesa non poco per il riavvicinamento dei due poli della politica mediorientale…

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Perché quando i palestinesi raccontano al mondo cosa sta accadendo loro, sono accolti con incredulità? – Yara Hawari

In queste ultime settimane insonni ho visto immagini e video che mi perseguiteranno per il resto della vita. Genitori palestinesi che trasportano i corpi carbonizzati e smembrati dei loro figli in sacchetti di plastica verso obitori improvvisati; intere famiglie, attraverso tre generazioni, schiacciate sotto le case che avevano costruito; medici esausti che lavorano disperatamente alla luce delle torce e operano pazienti senza anestesia; una delle chiese più antiche del mondo, che ospitava gli sfollati, bombardata. Finora risultano uccisi più di 10.000 palestinesi, più, dopo un mese, del numero di civili uccisi in Ucraina dopo due anni di guerra.

La Macchina da Guerra israeliana è sempre terribilmente spietata. Ma questa volta stiamo assistendo a un livello di violenza mai visto dai tempi della Nakba del 1948, durante la quale circa il 70% della popolazione palestinese fu sfollata con la forza e più di 500 comunità furono completamente spazzate via. Infatti, per quasi quattro settimane il Regime Israeliano ha tagliato l’elettricità e limitato l’accesso a Internet, riducendo i contatti con l’esterno e nascondendo al mondo l’intera portata del suo attacco. Alcuni palestinesi a Gaza riescono ancora a mantenere qualche contatto caricando i telefoni nelle auto e utilizzando l’energia rimasta dai pannelli solari. Tra loro ci sono giornalisti palestinesi, almeno 32 operatori dei media sono stati uccisi dall’offensiva di Hamas del 7 ottobre, che stanno rischiando la vita per mostrarci la devastazione che viene loro inferta.

Eppure, nonostante l’immensità di immagini, video e testimonianze apparse nelle ultime settimane, i palestinesi si trovano ancora una volta in una posizione in cui viene loro negata l’attendibilità sulla veridicità delle proprie esperienze e vengono visti come non credibili. Ciò è stato dimostrato per eccellenza dopo l’ordine di espulsione dell’esercito israeliano per 1,1 milioni di persone nel Nord di Gaza, quando dissero al mondo che avrebbero consentito ai palestinesi corridoi sicuri per dirigersi a Sud. Eppure questi “corridoi sicuri” erano quelli che avevano bombardato, colpendo in un caso un convoglio e uccidendo almeno 70 palestinesi, compresi bambini. Indagini indipendenti hanno confermato ciò che i palestinesi avevano sempre detto: che non esistevano “corridoi sicuri” per uscire dal Nord di Gaza.

Mentre i giornalisti palestinesi sono stati straordinariamente coraggiosi e ampi nella loro copertura, troppi media internazionali hanno insistito nel dare credito ai funzionari del Regime Israeliano: per esempio, quando hanno fornito “prove” della registrazione di una conversazione tra palestinesi che rivendicavano la responsabilità dell’attentato all’Ospedale Arabo di al-Ahli. I palestinesi hanno subito sostenuto che era stato falsificato in base agli accenti e ai dialoghi. Un’indagine di Channel 4 News ha citato due giornalisti indipendenti che hanno stabilito che la registrazione non era “credibile”.

Ciò che continua a sorprendere è che un Regime riconosciuto dal diritto internazionale come Potenza Occupante, e che secondo molti gruppi per i diritti umani sta imponendo un Sistema di Apartheid, abbia la fiducia nel fornire informazioni sulle proprie atrocità. Nel frattempo, i palestinesi di Gaza vengono interrogati e messi in discussione ad ogni loro respiro. Anche i numeri delle loro vittime vengono messi in discussione, come quando Joe Biden disse di non avere “fiducia” nel numero dei palestinesi uccisi. Il Ministero della Sanità di Gaza ha pubblicato un elenco con tutti i nomi delle persone uccise insieme ai loro numeri di identificazione, che sono registrati presso le autorità israeliane.

Il Regime Israeliano continua a disumanizzare i palestinesi come parte della sua tattica volta a seminare il dubbio sulle loro testimonianze e a giustificare le atrocità che sta commettendo. Il Ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha affermato che stavano combattendo degli “animali” e il Primo Ministro, Benjamin Netanyahu, ha definito i palestinesi “figli dell’oscurità” in un tweet ora cancellato. Il Ministro israeliano per il Patrimonio ha addirittura ventilato la possibilità di sganciare una bomba nucleare su Gaza. Così tanta copertura mediatica è complice di questa disumanizzazione dei palestinesi, come ha esposto Mohammed El-Kurd apparendo sui media britannici. “La nostra morte è così normale”, scrive, “che i giornalisti la riportano come le previsioni del tempo”. Infatti, assistiamo spesso all’antica ginnastica linguistica per cui gli israeliani vengono uccisi mentre i palestinesi semplicemente “muoiono”.

La realtà è che i palestinesi sono stati disumanizzati a tal punto che anche quando mostrano i loro figli assassinati al mondo intero davanti alle telecamere, c’è chi continua a dire che sono responsabili della morte dei propri figli. Ma statene certi, quello a cui stiamo assistendo a Gaza è un vero Genocidio e i palestinesi lo stanno mostrando al mondo in tempo reale.

 

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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La storia ci dice perché Israele non sconfiggerà Gaza – Ramzy Baroud

Le discussioni in corso sugli obiettivi militari israeliani a Gaza si concentrano in gran parte sulla questione se Israele stia pianificando una rioccupazione militare della Striscia a lungo o a breve termine. Gli stessi israeliani stanno alimentando questo dibattito, con il 41% di loro che vorrebbe lasciare Gaza dopo la guerra e un altro 44% che vorrebbe che il territorio rimanesse sotto il controllo israeliano.

Queste cifre, rivelate in un sondaggio d’opinione condotto dall’Istituto Lazar e pubblicato dal quotidiano Maariv venerdì scorso, riflettono una reale confusione riguardo allo status giuridico di Gaza, anche nelle menti degli stessi israeliani. In verità, Israele rimane la Potenza Occupante a Gaza, insieme al resto della Palestina, nonostante il piano di “ridispiegamento” dalla piccola e impoverita regione nel settembre 2005.

Allora gli israeliani si erano convinti di non essere più gli occupanti della Striscia e, quindi, di non esserne più responsabili secondo il diritto internazionale, in particolare la Quarta Convenzione di Ginevra.

Ma si sbagliano, anche se Tel Aviv ha dichiarato il 21 settembre 2005, l’ultimo giorno del suo ritiro, che Gaza era diventata un “territorio straniero”. Quasi esattamente due anni dopo, questo presunto territorio straniero veniva dichiarato “territorio ostile” e quindi soggetto alle ire dell’esercito israeliano nel caso non rispettasse la sovranità israeliana o se rappresentasse una minaccia per il territorio israeliano.

Il diritto internazionale, tuttavia, non è vincolato alle definizioni israeliane. Le Nazioni Unite hanno ripetutamente rilasciato dichiarazioni in cui insistono sul fatto che Gaza rimane un Territorio Occupato. Inoltre, le recinzioni e i muri che separano Gaza da Israele non sono regioni di confine definite a livello internazionale, come designato dall’accordo di armistizio del 1949 tra Israele, Egitto e altri Paesi arabi in seguito alla Pulizia Etnica della Palestina nel 1948.

Pertanto, le accese discussioni israeliane sull’Occupazione o meno di Gaza dopo la guerra sono controverse; Gaza non è mai stata liberata per essere rioccupata…

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Il bunker sotto l’ospedale costruito da Israele – Alberto Capece

C’è davvero un  bunker di Hamas sotto l’ospedale di Al-Shifa a Gaza? Oppure l’incursione  israeliana è stata soltanto terrorismo allo stato puro?  Secondo la Cnn ovvero  la più pura fonte del potere neoconservatore e globalista dunque in qualche modo anche sionista, non vi sarebbe alcuna prova dell’esistenza di questa struttura sotterranea:  “Non c’è ancora alcuna indicazione che le truppe [israeliane] abbiano scoperto una struttura di tunnel a più livelli con camere sotterranee, del tipo illustrato in un’animazione presentata dal portavoce dell’esercito [israeliano] in un briefing quasi tre settimane fa.”

In realtà non è esattamente così, sia perché  Tel Aviv era  realmente convinta  dell’esistenza del bunker sotto Al-Shifa sia perché  nell’obnubilazione di questo infame momento della storia  ha ordinato di ” invadere”  l’ospedale forse accecata dalla rabbia di vedere l’ex esercito migliore dell’area medio orientale  prenderle dai pochi e male armati uomini di Hamas. Gli israeliani  avevano infatti delle buone ragioni per credere nell’esistenza  di questa struttura  fortificata  per la semplice ragione che l’avevano costruita loro: nel 1983, quando Israele governava ancora Gaza, realizzarono una sala operatoria sotterranea sicura e una rete di tunnel sotto l’ospedale di Al -Shifa, per cui  le fonti di sicurezza israeliane erano assolutamente certe che vi fosse il bunker all’interno o attorno al grande seminterrato di cemento sotto l’area dell’Edificio 2 dell’Ospedale, al quale ora  è vietato l’accesso ai giornalisti. Non era un segreto per nessuno a Gaza ed era venuto anche fuori sui giornali, ma proprio per questo  non avrebbe avuto senso che Hamas situasse il suo comando generale nell’unica struttura sotterranea della Striscia di cui gli israeliani conoscevano l’ubicazione precisa e le planimetrie.

Diciamo che è stato un colpo di cretineria che forse rende più chiaro lo stato reale delle cose: ovvero che la maggiore crudeltà si accompagna spesso alla scarsa intelligenza.

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Due popoli, due Stati: è già troppo tardi – Barbara Spinelli

Man mano che procede l’invasione di Gaza, si moltiplicano gli appelli delle destre estreme israeliane a ri-colonizzare la Striscia che Israele aveva formalmente restituito ai palestinesi nel 2005.

La demolizione del complesso coloniale di Gush Kativ (8.600 residenti), a sud della Striscia, per ordine del premier Ariel Sharon è ricordata con ribrezzo dagli attuali governanti, e definita alto tradimento dai ministri di estrema destra. Riconquistare e ripopolare le terre perdute è il loro proposito.

Al tempo stesso, continua l’esodo degli abitanti cacciati dalle bombe da nord a sud della Striscia, in fuga attraverso il valico di Rafah verso l’Egitto. È un’espulsione di massa, che i palestinesi chiamano seconda Nakba (“Catastrofe”) perché ricorda loro la prima Nakba sofferta a seguito della guerra del 1948 (più di 700.000 profughi). Un ministro del partito di Netanyahu, Avi Dichter, ha ammesso l’11 novembre che la guerra in corso è effettivamente la Nakba. Altri, come l’ex ambasciatore israeliano in Italia, Dror Eydar, indica lo scopo delle operazioni: “Distruggere Gaza”. Si paragona la distruzione di Gaza a Dresda rasa al suolo per volontà di Churchill, come se Dresda o Amburgo annientate non fossero un capitolo nero della Seconda guerra mondiale.

Israele risponde così al pogrom del 7 ottobre, che ha ucciso 1.400 israeliani e ne ha presi in ostaggio 200, in una serie di villaggi e kibbutz, e nel Nova Music Festival ai confini con Gaza. La violenza scatenata da Hamas supera perfino i pogrom classici, ha visto mescolarsi non solo collera e vendetta ma una dose impressionante di sadismo. Le mutilazioni, gli stupri di ragazze del rave party prima del loro assassinio: la mattanza si avvicina ai delitti di sette sanguinarie tipo “famiglia Manson”. Difficile mettere sullo stesso piano le intifade del passato e la voragine del 7 ottobre.

Le voragini hanno una storia, come l’ebbero le intifada. All’origine c’è sempre la tragedia di un popolo (quello palestinese) a cui ancora non è stato dato lo Stato reclamato, e che non ha mai avuto una rappresentanza efficace. A cui si propone la pace contro la pace, quando l’unica via resta quella di chiedere pace in cambio di territori. Lo capì Yitzhak Rabin con gli accordi di Oslo, e più ancora il premier Ehud Olmert nel 2008. Il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas respinse l’offerta del 2008 con la scusa che Olmert si era rifiutato di mostrargli la mappa delle colonie da smantellare. Qualche anno dopo, Olmert disse che la mappa era disponibile se Abbas avesse accettato l’offerta. Negli ultimi anni, poi, ha affermato che Abbas non oppose mai un vero no, e comunque si pentì della firma negata (“le voci su un suo rifiuto categorico sono false”, Times of Israel, 25.06.’21).

Da allora è passato poco più di un decennio, ma per le nuove destre israeliane è passato un secolo. Secondo Olmert l’offerta può ripetersi, e anche gli Stati occidentali – Usa in testa – rispolverano la soluzione “due popoli due Stati”. Ma non è detto che la formula funzioni ancora, che in Israele esista una maggioranza politica a favore, e che lo stesso possa dirsi delle rappresentanze palestinesi. Guerra e colonizzazione hanno radicalizzato i due campi, dando loro un colore sempre più religioso.

La Carta di Hamas del 1989 chiama al jihad armato contro Israele, e nell’articolo 7 ordina di uccidere gli ebrei in quanto tali (in assenza dell’uccisione, il Giorno del Giudizio e l’avvento del Messia non verranno). Nel 2017 la Carta è stata emendata: lo Stato palestinese “sarà edificato entro i confini del 1967”, e secondo i leader di Hamas si tratta di combattere “il progetto sionista che occupa la Palestina, non gli ebrei a causa della loro religione”. Ma lo Stato di Israele ancora non è riconosciuto…

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Direttore ospedale Al-Shifa dopo assalto soldati israeliani: “Resteremo con gli ammalati. Vivremo o moriremo insieme a loro” – Francesco Guadagni

Fare una foto con la bandiera del proprio paese, con il segno di “Vittoria” come se si fosse espugnata chissà quale roccaforte fortificata e armata, rende bene l’idea sul livello di barbarie in cui è arrivato non solo l’esercito israeliano, ma il suo governo, i suoi responsabili, perché da qualcuno pur prenderanno gli ordini.

Questa immagine peserà perennemente sulla coscienza dei capi di stato e di governo che hanno appoggiato Israele, perché un accanimento militare contro gli ospedali, così come si è visto a Gaza, è un fatto storico unico.

Non basteranno le bugie, trovare centinaia di copie del Mein Kampf nei tunnel degli ospedali, così anche paradossalmente delle armi, per giustificare una tale ferocia.

Il racconto di ieri pomeriggio del Direttore dell’ospedale Al-Shifa lascia senza fiato: “I soldati israeliani vagano per i reparti, hanno preso i corpi dei palestinesi uccisi e hanno fatto saltare in aria le riserve d’acqua”, mentre all’interno c’erano “650 pazienti, 500 operatori sanitari e oltre 5.000 sfollati”

Non solo, ha riferito che “l’ospedale è completamente circondato; le scorte di cibo e acqua sono esaurite e l’occupazione [israeliana] ha raggiunto la principale linea di approvvigionamento idrico. Le condizioni sono catastrofiche e le persone all’interno dell’ospedale piangono per la sete”.

Le barbarie non finiscono qui, perché il medico ha aggiunto che “i cecchini sono ovunque con l’ordine di sparare a vista, impedendo il movimento tra gli edifici; abbiamo perso i contatti con i nostri colleghi.”

Questo avviene all’interno dell’ospedale, ma “i droni israeliani non smetteranno di sorvolare l’ospedale. Gli occupanti attualmente trattengono diverse famiglie nel magazzino dell’ospedale.”

In tutto questo orrore, è il caso di dire mai visto, sarà pure retorica, ma Israele potrà ridurre in cenere tutta la Striscia, ma non potrà mai minimamente scalfire la dignità del popolo palestinese, della sua lotta di liberazione e resistenza.

Questa dignità sta nella conclusione del direttore dell’ospedale: “Rimarremo con i feriti e i malati, e partiremo solo con loro. Vivremo con loro o moriremo insieme a loro.”

Sicuramente resterà in vita solo la vergogna di Israele e dei suoi sostenitori a eterna memoria.

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Trento: Vietato parlare di occupazione

Il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento vuole impedire la conferenza universitaria “Il diritto di boicottare Israele” di martedì 14 novembre con Stephanie Westbrook, attivista per i diritti umani impegnata da anni nel movimento BDS Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni.

In seguito il comunicato del Centro Sociale Bruno :

Pur avendo agito con largo anticipo e per vie ufficiali, il Dipartimento ha deciso di negare l’aula per l’incontro, strumentalizzando un articolo del regolamento interno che vieta la concessione di spazi per iniziative partitiche e sindacali, allargandolo genericamente “a una qualsiasi iniziativa politica” promossa all’interno dell’università.

Eppure, nove anni fa, Stephanie Westbrook è stata ospite di tutti gli incontri della rassegna “Occupare un territorio” organizzata dall’associazione studentesca MAIA (che all’interno del proprio statuto esplicita l’adesione alla campagna BDS) in collaborazione con docenti universitari e patrocinata dallo stesso ateneo, nonchè dalla Provincia Autonoma di Trento. Una rassegna che aveva affrontato, in maniera ancora più approfondita, gli stessi temi previsti per martedì.

Nonostante la ricerca di spiegazioni e chiarimenti, l’università ha deciso semplicemente di smettere di rispondere. Unitn, in mezzo ai suoi ipocriti poster celebrativi della stagione del 68, dimostra tutta l’arroganza di un ente sempre più asservito agli interessi di pochi e alla logica dell’università-azienda, che mette al bando ogni forma di pensiero critico proprio nel dipartimento che lo dovrebbe coltivare.

Forse è lo stesso Flavio Deflorian ad essersi sentito attaccato dall’incontro. Il Magnifico Rettore, lo ricordiamo, è membro del Comitato scientifico della Med-Or, la fondazione istituita dalla fabbrica di morte Leonardo S.P.A per intrecciare sempre più il sapere scientifico all’industria bellica.

È preoccupante vedere come negli ultimi anni il livello di collaborazione dell’ateneo trentino con la Leonardo sia diventato sempre più stretto, arrivando addirittura all’istituzione di interi dottorati in partnership con l’azienda che in questo momento si sta arricchendo grazie alla fornitura degli armamenti che Israele sta utilizzando per commettere un genocidio a Gaza.

Oggi l’università di Trento ha deciso da che parte stare. La nostra, l’abbiamo ribadita da tempo: sempre dalla parte degli oppressi, con tutte le forze in contrasto agli oppressori. Se l’università vuole silenziare un movimento legittimo, sta a noi amplificarlo e renderlo visibile il più possibile.

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Non solo Gaza. «I coloni in Cisgiordania sono fuori controllo» – Ennio Remondino

In Israele retate di attivisti ed ex parlamentari palestinesi: vietato manifestare contro la guerra. Tel Aviv restringe ancora lo spazio del dissenso e dà alla polizia poteri speciali. Ma la repressione violenta anti palestinese è in Cisgiordania. La denuncia di Amira Hass su Haaretz.

Amira Hass è una giornalista israeliana, figlia di due attivisti comunisti ebrei sopravvissuti all’olocausto di Bosnia. Vive a Ramallah, in Cisgiordania, e scrive per il quotidiano Haaretz, che ha pubblicato questo articolo coraggioso, rilanciato da Internazionale.

«Il sistema di colonizzazione, che si basa sulla distruzione dei diritti dei palestinesi, celebra la sua vittoria mentre noi israeliani siamo in lutto»

L’alibi dell’orrore

Sotto la copertura dell’orrore collettivo per il pogrom di Hamas del 7 ottobre, sotto la copertura del lutto, della sofferenza e dell’ansia per il destino degli ostaggi, le milizie dei coloni israeliani stanno espandendo i loro attacchi contro i pastori palestinesi in Cisgiordania. Stanno anche cacciando i contadini dalle terre, dai frutteti e dagli oliveti, spesso con l’appoggio dell’esercito.

Pulizia etnica a furti

Un processo trentennale ha trovato l’opportunità per avvicinarsi alla sua logica conclusione: l’espulsione alla luce del sole in vista della completa “pulizia” di circa il 60 per cento del territorio cisgiordano, cacciando la popolazione originaria del posto. Sta succedendo in ogni casa, tenda e strada che la burocrazia discriminatoria dell’Amministrazione civile israeliana non abbia ancora distrutto, e dove le ordinanze militari non sono riuscite a impedire alle persone di restare nei loro villaggi, che esistevano prima del 1948, o di coltivare le terre.

Squadristi armati

I coloni arrivano armati e usano la violenza per realizzare l’obiettivo ufficiale: allargare lo spazio vitale degli ebrei a spese dei palestinesi. Il 28 ottobre un colono, un soldato fuori servizio, ha ucciso un quarantenne palestinese, Bilal Saleh, che stava raccogliendo le olive con i figli nel villaggio di Al Sawiya, a sud di Nablus. Circa due ore prima, alcuni coloni avevano cacciato dei raccoglitori da un oliveto tra i villaggi di Jalud e Qusra a est di Al Sawiya.

Delitti impuniti

Il pomeriggio di quello stesso giorno, mentre cominciavo a scrivere questo pezzo, gli abitanti del villaggio di Zanutah, sulle colline a sud di Hebron, hanno lasciato le proprie case e le abitazioni nelle grotte. Nelle ultime settimane, più intensamente che mai, avevano subìto vessazioni. Gli era già stato negato l’accesso ai pascoli, cosa che metteva a rischio la loro sussistenza. Poi le minacce dei coloni sono diventate troppo dirette per poter restare.

Un giorno di angherie

Nella mattinata i coloni hanno invaso con il loro gregge una casa nel villaggio meridionale di Qawawis, mettendo in fuga una donna e i suoi bambini.
A mezzogiorno coloni e soldati sono entrati nel villaggio di Jinba, sono saliti sul tetto della moschea e hanno distrutto gli altoparlanti.
Alcuni coloni hanno attaccato le famiglie che vivono nella frazione tra il checkpoint di Metzudat Yehuda e la Linea verde (che ha segnato il confine tra Israele e Palestina tra il 1949 e il 1967) e hanno preso i loro telefoni.
A una ragazza di sedici anni è stato rotto un braccio, e tre delle persone aggredite sono state arrestate. Non è ancora chiaro se l’arresto sia stato compiuto dai coloni o dall’esercito.
Intorno alle 22 alcuni coloni sono stati avvistati mentre abbattevano alberi di olivo nei villaggi di Qabalan e Talfit, a sud di Nablus. Nelle stesse ore soldati e coloni hanno confiscato una telecamera di sicurezza dai pollai nella vicina Qusra.
Verso le 23 i coloni sono entrati nel villaggio di Susya e hanno intimato a diverse famiglie di lasciare le loro case.
Nel villaggio di Tuba coloni armati hanno fatto irruzione nelle case e le hanno vandalizzate. Tutti questi fatti, tra l’altro, sono solo una lista parziale.

Espulsione etnica organizzata

Contrariamente a quanto vorrebbero farci credere gli estremisti, questi non sono atti di vendetta o di autodifesa contro i ‘pogromisti di Hamas’. Fanno parte di un piano progettato, calcolato e ben finanziato. Per anni la polizia non ha cercato chi aggrediva i villaggi, oppure ha manipolato le indagini. I soldati sono rimasti a guardare o a volte hanno partecipato. La magistratura se ne è disinteressata e di certo non ha fatto rispettare la legge. I ministri sono venuti a fare visite piene di sorrisi. È così che le autorità israeliane gestiscono le cose fin dagli anni settanta, e resta da vedere come evolverà la detenzione della persona sospettata di aver ucciso il palestinese Saleh.

Violenze e complicità

Migliaia di palestinesi sono costretti ad affrontare questa violenza. Le milizie bloccano le strade e sabotano le forniture idriche. Minacciano le persone nelle loro tende, capanne e grotte. L’esercito è stato addestrato a proteggere i coloni in Cisgiordania, trascurando le comunità vicino a Gaza. E anche ora li accompagna nelle incursioni o addirittura porta a termine il lavoro per loro.

Profittatori del lutto

Il sistema di colonizzazione, che si basa sulla distruzione sistematica dei diritti dei palestinesi e sull’idea che siano un popolo inferiore, celebra la sua vittoria mentre noi israeliani siamo in lutto. La colonizzazione, che si è allargata sotto gli auspici degli accordi di Oslo e il processo di espulsione dall’area C, la zona della Cisgiordania sotto il controllo civile e militare degli israeliani, si estenderanno all’area A, quella sotto il controllo palestinese, e all’area B, a controllo misto?

Forse la domanda non è se succederà, ma quando. Quando le milizie armate dei coloni cominceranno a fare irruzione nelle zone rurali e urbane (e non solo a Nablus, ad Awarta o alla periferia di El Bireh) e a minacciare gli abitanti?

A Jenin un cadavere ogni ora

A Jenin i palestinesi si sono scontrati con i soldati israeliani nel raid dell’esercito più sanguinoso che la Cisgiordania occupata abbia visto dal 2005. Cronaca dei giornalisti di France Presse che hanno visto un militante mascherato giacere insanguinato sul marciapiede, mentre un altro prendeva il suo fucile e sparava verso le posizioni israeliane. Altri tre sono stati feriti, mentre l’AFP ha contato cinque corpi nell’obitorio del vicino ospedale. Il ministero della Sanità palestinese (ANP) ha detto che 14 persone sono state uccise nel raid, e la violenza è continuata fino a sera, nella singola incursione più mortale in Cisgiordania dal 2005, secondo i registri delle Nazioni Unite. Sempre giovedì altri quattro palestinesi sono stati uccisi nell’area, portando a oltre 180 il bilancio degli uccisi in Cisgiordania dal fuoco israeliano o negli attacchi dei coloni dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas il 7 ottobre.

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https://www.youtube.com/watch?v=BO-eYiSXHyA&ab_channel=MatteoSaudino-BarbaSophia

 

 

PERCHÉ GLI STATI UNITI SOSTENGONO ISRAELE?

In questa intervista, Ben Norton e Michael Hudson esaminano dettagliatamente il rapporto profondamente intrecciato tra Stati Uniti e Israele, basato sul desiderio degli Stati Uniti di avere una “base” militare nel cuore del Medio Oriente, ricco di petrolio, e ci forniscono un’interessante retrospettiva storica sul ruolo che Israele e Gerusalemme hanno giocato nel tempo.

Ben Norton: Perché gli Stati Uniti sostengono così fortemente Israele?

In questo video di oggi, spiegherò le ragioni geopolitiche ed economiche per cui Israele è una parte così importante della politica estera degli Stati Uniti e del tentativo di Washington di dominare non solo la regione del Medio Oriente, ma il mondo intero.

Per questa analisi oggi ho avuto il privilegio di essere affiancato dall’economista Michael Hudson. Lo farò intervenire più tardi per fornire ulteriori dettagli su questo argomento. Prima, però, vorrei evidenziare un contesto di base molto importante per comprendere questa relazione.

È fondamentale sottolineare che Israele è un’estensione del potere geopolitico degli Stati Uniti in una delle regioni più importanti del mondo.

Infatti, è stato l’attuale Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, nel 1986, quando era senatore, a dire che se Israele non fosse esistito, gli Stati Uniti avrebbero dovuto inventarlo:

Biden/video:

“Se guardiamo al Medio Oriente, penso sia ora che quella maggior parte di noi in questa commissione che sostiene Israele, smetta di scusarsi per questo. Non ci sono scuse. Nessuna. È il miglior investimento da 3 miliardi di dollari che facciamo. Se non ci fosse Israele, gli Stati Uniti d’America dovrebbero inventare un Israele per proteggere i propri interessi nella regione; gli Stati Uniti dovrebbero andare ad inventare un Israele.

Sono con i miei colleghi della Commissione per le relazioni estere e ci preoccupiamo parecchio per la NATO; ci preoccupiamo per il fianco orientale della NATO, la Grecia e la Turchia, e di quanto sia importante. Però impallidiscono al confronto…, impallidiscono in termini di benefici per gli Stati Uniti d’America.”

Ben Norton: Innanzitutto, è ovvio che il cosiddetto Medio Oriente, o meglio l’Asia Occidentale, possiede alcune delle più grandi riserve mondiali di petrolio e gas, e l’intera infrastruttura economica mondiale si basa sui combustibili fossili. Stiamo gradualmente passando a nuove fonti energetiche, ma i combustibili fossili sono ancora assolutamente fondamentali per l’intera economia globale.

E l’obiettivo di Washington è stato quello di assicurarsi di poter mantenere prezzi costanti sui mercati globali del petrolio e del gas.

Ma si tratta di qualcosa di molto più grande del semplice petrolio e del gas. La politica dichiarata delle forze armate statunitensi a partire dagli anni ’90, dalla fine della Guerra Fredda e dalla caduta dell’Unione Sovietica, è che gli Stati Uniti hanno cercato di mantenere il controllo su ogni regione del mondo.

Questo è stato affermato molto chiaramente dal Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti nel 1992. Nella cosiddetta Dottrina Wolfowitz. Il Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti affermava:

“L’obiettivo [degli Stati Uniti] è quello di impedire a qualsiasi potenza ostile di dominare una regione critica per i suoi interessi e di rafforzare le barriere contro il riemergere di una minaccia globale agli interessi degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Queste regioni includono Europa, Asia orientale, Medio Oriente/Golfo Persico e America Latina. Il controllo consolidato e non democratico delle risorse di una regione così critica potrebbe generare una minaccia significativa alla nostra sicurezza.”

Poi, nel 2004, il governo statunitense pubblicò la Strategia Militare Nazionale, in cui Washington sottolineava che il suo obiettivo era la “Full Spectrum Dominance – la capacità di controllare qualsiasi situazione o di sconfiggere qualsiasi avversario in tutta la gamma delle operazioni militari“.

Storicamente, quando si trattava di Medio Oriente, gli Stati Uniti si affidavano alla cosiddetta strategia dei “due pilastri”. Il pilastro occidentale era l’Arabia Saudita e quello orientale l’Iran. Fino alla rivoluzione del 1979, il Paese era governato da un dittatore, uno scià, un monarca, sostenuto dagli Stati Uniti e al servizio degli interessi americani nella regione…

 

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LE CAUSE ECONOMICHE DIETRO IL MASSACRO DI GAZA – Maurizio Brignoli

Gli eventi come le guerre, notoria continuazione della politica di stato con altri mezzi, hanno alle spalle una struttura economica. Proviamo ad allargare quindi la prospettiva e a cercare motivazioni allo sterminio dei palestinesi che vadano al di là della rappresaglia scatenata dopo la sanguinosa operazione Tempesta di al-Aqsa del 7 ottobre.

I piani di pulizia etnica, trasferimento forzato di popolazione e, in ultima istanza, genocidio non corrispondono solo al razzismo intrinseco alla dottrina sionista, che nasce con tutte le peculiarità di un’ideologia colonialistica, e alla necessità di stroncare la lotta di liberazione nazionale palestinese, ma corrispondono anche agli interessi del capitale occidentale (israeliano e non solo). Questi piani si inseriscono a loro volta nel contesto più ampio dello scontro interimperialistico che vede gli Usa (e il subordinato europeo) sempre più in difficoltà sul piano strutturale nei confronti dei concorrenti cinesi. Difficoltà che porta l’imperialismo occidentale a cercare di utilizzare l’unica arma efficace che ha ancora a disposizione e uno dei pochi settori produttivi in cui mantiene una predominanza: la guerra.

 

Guerra per i giacimenti e piani di deportazione

Che peso hanno gas e petrolio nel contesto del massacro in atto? Nel momento in cui l’Ue ha ridotto fortemente gli approvvigionamenti dalla Russia, il Medioriente e il Nord Africa (dove si trovano il 57% delle riserve mondiali di petrolio e il 41% di quelle di gas) hanno visto aumentare le richieste per le loro risorse energetiche.

In una situazione in cui la crisi economica diventa sempre più pesante, e la crisi che colpisce l’economia occidentale colpisce allo stesso modo Israele, controllare le riserve e le vie di transito degli idrocarburi e la moneta con cui si valutano diventa sempre più importante all’interno dello scontro interimperialistico con la Cina che ha messo a segno importanti colpi garantendosi gli approvvigionamenti con accordi siglati con Russia, Iran e petromonarchie, favorendo il processo di pacificazione della regione con un’importante azione diplomatica culminata con gli accordi fra Iran e Arabia Saudita e, quel che è ancor più pericoloso per gli Usa, ponendo le basi per la realizzazione del petroyuan.

Lo United States Geological Survey, agenzia scientifica del governo statunitense, fra il 2009 e il 2010 scopriva nel Bacino del Levante (Mediterraneo orientale) una quantità di gas e petrolio sufficiente a garantire per 50 anni le riserve mondiali di energia fossile. Gli stati interessati a questa posizione geostrategica determinante, che risolverebbe il problema energetico dell’Ue e la sua dipendenza dai rifornimenti russi, sono Siria, Libano, Israele, Gaza, Egitto, Turchia e Cipro. Paventando il pericolo il capitale russo firmava subito una serie di accordi con i paesi rivieraschi per costruire infrastrutture con l’obiettivo di indirizzare il flusso energetico verso i mercati asiatici col fine di procurarsi nuovi clienti mantenendo, al contempo, la posizione egemonica di cui godeva nel rifornire l’Europa. I progetti russi incontravano però la reazione degli imperialismi concorrenti: il governo cipriota subiva un pesante attacco finanziario, dopo l’accordo siglato fra russi e palestinesi per lo sfruttamento delle risorse prospicenti la striscia di Gaza scattava l’aggressione israeliana con l’operazione Piombo fuso e la Siria diventava oggetto prioritario dei processi di cambio di regime per mano jihadista.

Fra i diversi giacimenti di gas e petrolio alla fine del 2010 veniva scoperto Leviathan situato a meno di 200 chilometri dalle coste della Striscia di Gaza e di Israele e che si trova dunque in parte nelle acque territoriali di Gaza, dove si trova anche il giacimento denominato Gaza Marine (si stima contenga 1.000 miliardi di metri cubi di gas) appartenente ai palestinesi e scoperto nel 1999 dalla British Gas (ora assorbita da Shell)[1]. Le vicende del Gaza Marine sono interessanti: nel 1999 l’Autorità nazionale palestinese (Anp), che deteneva il 10% delle quote, siglava un contratto con British Gas (60%) e con Consolidated Contractors (30%), una compagnia privata palestinese, ma Israele, puntando a impossessarsi del gas a prezzi stracciati, impediva l’operazione. Con la mediazione del primo ministro britannico Tony Blair (1997-2007) si raggiungeva un nuovo accordo che permetteva a Israele di impossessarsi dei tre quarti dei futuri introiti del gas, versando la quota palestinese su un conto internazionale controllato da Usa e Regno Unito. Nel 2006, dopo aver vinto le elezioni, Hamas bocciava l’accordo. Nel 2007 Moshe Ya’alon, futuro vice primo ministro (2009-2013) e ministro della difesa israeliano (2013-2016), avvertiva che «il gas non può essere estratto senza una operazione militare che sradichi il controllo di Hamas a Gaza»[2] e nel dicembre 2008 scattava contro la Striscia di Gaza l’operazione “Piombo fuso”, di cui l’operazione Spade di ferro in atto costituisce la prosecuzione su più ampia scala, con l’obiettivo di impossessarsi definitivamente delle riserve marittime palestinesi. Al termine dell’operazione i giacimenti di gas palestinesi venivano confiscati da Israele in violazione del diritto internazionale. Nel 2012 l’Anp, con l’opposizione di Hamas riprendeva i negoziati con Tel Aviv, ma gli israeliani boicottavano la trattativa impedendo ai palestinesi di trarre profitto dai giacimenti. Agli inizi del 2014, previo accordo fra Anp e Russia, veniva affidato a Gazprom lo sfruttamento dei giacimenti marini e di un giacimento petrolifero in Cisgiordania. L’accordo si avvicinava sempre più alla realizzazione effettiva nel momento in cui il 2 giugno 2014 nasceva il nuovo governo di unità nazionale palestinese, ma pochi giorni dopo scattava l’operazione Margine di protezione con un nuovo attacco a Gaza. Il tentativo della Russia di inserirsi nella lotta per il controllo delle riserve energetiche dell’intero Bacino di Levante (Palestina, Libano, Siria) determinava il nuovo attacco israeliano con beneplacito statunitense.

I governi israeliani hanno delineato nel corso degli anni un progetto per trasformare il loro paese in un punto di snodo per il trasporto del gas verso l’Europa. Fra il 2021 e il 2022 Israele ed Egitto, in concomitanza con l’aumento dei prezzi delle risorse energetiche determinato dalla guerra in Ucraina e dalla disperata ricerca di risorse alternative da parte degli europei, hanno tenuto incontri segreti aventi per oggetto lo sfruttamento dei giacimenti al largo delle coste di Gaza, accompagnati dalla firma di un memorandum tra Egitto e Israele con il beneplacito dell’Anp[3].

L’obiettivo di Israele è quello di impossessarsi delle immense ricchezze costituite dai giacimenti di gas che spetterebbero ai palestinesi, sia il Gaza Marine che parte del Leviathan. Come rilevato dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad) le perdite per i palestinesi si stimano in centinaia di miliardi di dollari[4]. D’altronde l’investimento militare nello sterminio dei palestinesi deve essere ripagato dato che comporta perdite economiche valutate in 260 milioni di dollari al giorno[5].

I giacimenti del Mediterraneo orientale e (in subordine) i progetti statunitensi di una via alternativa alla Bri sono due elementi che aiutano a comprendere il massacro in atto volto a un controllo della costa palestinese con conseguente gestione dei canali commerciali. Questo aiuta a capire i progetti di deportazione di oltre due milioni di persone – e perché vengano scientemente bombardati abitazioni civili, ospedali, campi profughi, scuole, rifugi – con l’obiettivo di fare piazza pulita della Striscia. Quando Netanyahu all’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel settembre 2023 ha mostrato una mappa del “nuovo Medioriente” in cui non compariva la Palestina stava già delineando la realizzazione di questi piani.

Un documento del ministero dei servizi segreti israeliano, datato 13 ottobre, raccomanda la deportazione degli abitanti di Gaza (2,3 milioni o quel che ne resterà) nella zona desertica del Sinai egiziano, impedendo ai palestinesi la possibilità di rimettere piede vicino ai confini israeliani (non giuridicamente delimitati visto che i sionisti puntano alla realizzazione del Grande Israele). Il piano si articola in tre fasi: 1) costringere la popolazione stanziata nel nord della Striscia (oltre un milione di persone), sottoposto a bombardamenti massici, a spostarsi verso sud; 2) far entrare l’esercito israeliano a Gaza in modo da occupare l’intera Striscia ed eliminare le postazioni di Hamas; 3) trasferire la popolazione in territorio egiziano da cui non dovrà fare più ritorno[6]. All’Egitto, le cui condizioni economiche sono gravi, è stato proposto l’annullamento dell’intero debito estero (135 miliardi di dollari). Al-Sisi ha però rifiutato, almeno per ora, l’offerta probabilmente perché non vuole trovarsi in casa gli uomini di Hamas originatasi dai Fratelli musulmani che l’Egitto ha messo fuorilegge.

A scanso di equivoci conviene ricordare che questi piani non sono dettati dalla rabbia suscitata per le vittime israeliane dell’attacco del 7 ottobre, ma costituiscono l’attuazione di un progetto preesistente insito nella natura e negli obiettivi finali del sionismo. Netanyahu proponeva questa soluzione già nel 2017[7].

 

Imec e Canale Ben Gurion

Su un piano strutturale più generale questi progetti potrebbero connettersi bene con l’India-Middle East-Europe Economic Corridor (Imec), e col ruolo che questo ha nella competizione cruciale fra Usa e Cina. L’Imec è stato presentato al vertice del G20 a Nuova Delhi (settembre 2023) con un memorandum d’intesa firmato da India, Eau, Arabia Saudita, Francia, Germania, Italia e Ue e prevede un esplicito ruolo per Israele: «L’Imec sarà composto da due corridoi separati, il corridoio orientale che collega l’India al Golfo Persico e il corridoio settentrionale che collega il Golfo Persico all’Europa. Comprenderà una ferrovia che, una volta completata, fornirà una rete di transito transfrontaliero nave-ferrovia affidabile ed economicamente vantaggiosa per integrare le rotte di trasporto marittimo e stradale esistenti, consentendo a merci e servizi di transitare da, verso e tra l’India, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Giordania, Israele ed Europa»[8], con l’obiettivo finale di dar vita a un’alternativa alla Bri cinese e al Corridoio nord-sud indiano-russo.

L’Imec, come molti dei velleitari progetti statunitensi di contrastare la Bri sul piano economico (il contrasto è riuscito meglio sul piano militare andando a destabilizzare il corridoio russo-ucraino, la Siria, ecc.), presenta delle debolezze dato che vuole coinvolgere paesi, Arabia Saudita ed Eau in testa, che hanno enormi interessi energetici e commerciali con Pechino danneggiando al contempo l’International North–South Transport Corridor (Instc) indo-russo, nel tentativo di portare sempre più l’India (che con la Cina ha diversi contenziosi aperti) su posizioni filostatunitensi e favorire gli israeliani che avrebbero nel porto di Haifa un terminale cruciale dell’Imec: «Il gioco è piuttosto rozzo e abbastanza ovvio: un corridoio di trasporto concepito per aggirare i tre principali vettori della reale integrazione dell’Eurasia – e i membri del Brics Cina, Russia e Iran – facendo penzolare un’allettante carota “Divide et impera” che promette cose che non possono essere realizzate»[9]. Israele gioca qui la funzione di “estensione imperiale” del potere statunitense in una delle regioni più importanti del mondo[10].

Inoltre bisognerà capire cosa resterà del processo di ulteriore consolidamento degli Accordi di Abramo fra Israele e gli stati arabi (che venivano a costituire una sorta di equivalente politico del progetto economico Imec con l’obiettivo finale di limitare la penetrazione cinese e isolare sempre più l’Iran diplomaticamente ed economicamente), già indeboliti dall’accordo del marzo 2023 fra Iran e Arabia saudita mediato da Pechino, dopo il nuovo massacro nella Striscia di Gaza. Gaza avrebbe la potenzialità di diventare uno snodo importante per i grandi corridoi di trasporto come Bri e Imec. Al di là delle dimensioni, che in questi casi contano eccome, del progetto Imec che non è certo paragonabile per estensione alla Bri, non è chiaro di quali finanziamenti goda, c’è il rischio che i singoli paesi debbano autofinanziare la propria parte mentre il capitale cinese ha già fatto numerosi e concreti investimenti per miliardi di dollari. Pechino potrebbe trarre comunque vantaggio dalla creazione di un’altra via di transito verso l’Europa e dato che sauditi ed emiratini hanno molti progetti avviati con la Cina è difficile pensare che le infrastrutture da costruire (la rete ferroviaria saudita vede la Cina come importante investitore, mentre la gestione dei porti degli Eau è strettamente collegata con le compagnie cinesi per il collegamento col Medioriente e il Nordafrica) non possano vedere una collaborazione con la Cina. A maggior ragione se si considera che sul percorso dell’Imec vi sono intere tratte in condominio con la Cina e che fanno parte della Bri come i porti di Haifa, Pireo e Gwadar o la ferrovia balcanica tra Grecia ed Europa centrale[11].

Infine il Canale di Suez, che resta la rotta commerciale predominante nella regione (il 12% del commercio mondiale transita lungo questa rotta), continua a offrire maggiori vantaggi. Ma è proprio qui che il piano energetico israeliano si collega con il progetto del Canale Ben Gurion, un progetto che prevede di congiungere Gaza e Ashkelon al golfo di Aqaba nel Mar Rosso (260 km) creando un nuovo corridoio, alternativo al Canale di Suez (193 km), per il commercio mondiale e l’energia.

L’idea del canale israeliano, dal costo stimato fra i 16 e i 55 miliardi, è nata dalle esperienze passate dello stato sionista che si vide chiuso l’accesso al canale di Suez dal 1948 al 1956 e nel 1967-75 con gli stati arabi che bloccavano le rotte terrestri danneggiando le importazioni petrolifere e i commerci israeliani con l’Africa orientale e l’Asia.

Il canale, che andrebbe ad attraversare Israele, Giordania, Egitto e i territori palestinesi permetterebbe di creare un corridoio attraverso la Palestina occupata garantendo a Israele un passaggio marittimo strategico che consentirebbe di modificare i rapporti di potere regionali rafforzando ulteriormente Israele. L’eliminazione dei palestinesi dalla Striscia aprirebbe un percorso diretto verso il Mar Rosso riducendo i tempi di transito e i relativi costi e il risparmio di miliardi di dollari anche nella costruzione del canale stesso: «Chiunque controlli il canale avrà un’enorme influenza sulle rotte di approvvigionamento globali di petrolio, grano e trasporti marittimi. Con Gaza rasa al suolo, ciò consentirebbe ai progettisti del canale di tagliare letteralmente gli angoli e ridurre i costi deviando il canale direttamente al centro del territorio»[12]. L’unico problema è dato dalla presenza dei palestinesi che occupano la Striscia di Gaza.

I danni economici per l’Egitto sarebbero enormi dato che il canale di Suez frutta alle finanze egiziane oltre 9 miliardi di dollari all’anno. Ma sarebbe danneggiata pure la Turchia (esclusa anche dall’Imec) dato che il progetto legato al Canale Ben Gurion andrebbe a colpire la direttrice di trasporto energetico e commerciale Bassora-Europa incentrata sulla Turchia.

 

I debiti degli Usa e gli interessi del complesso militare-industriale

Gli Usa scavano un’altra voragine nel loro debito (debito pubblico che si traduce in interesse privato, visto che è nelle tasche delle aziende private che finiscono i miliardi destinati al complesso militare-industriale con relativa distruzione dello stato sociale e sgravi fiscali per le imprese)[13] con l’annuncio di Biden di finanziamenti per 100 miliardi di dollari, che svolgono la funzione equivalente del cosiddetto quantitative easing (facilitazione creditizia, grandi iniezioni di liquidità che in una fase capitalistica espansiva possono favorire la produzione di merci e valore, mentre in una di crisi l’eccesso di sovrapproduzione di merci determina una contrazione del tasso di profitto e una pletora di capitale monetario)[14] destinati a Ucraina, Israele, Taiwan per la gioia delle grandi imprese di armamenti come Raytheon, Lockheed Martin, Boeing, General Dynamics, Northrop Grumman, ecc. Che almeno una parte dell’amministrazione statunitense, quella legata al complesso militare-industriale e politicamente rappresentata dal connubio fra neoconservatori e “dirittumanisti” liberal, stia pensando a un conflitto su tre fronti (Russia, Iran e Cina) non è un mistero. Per quanto riguarda la Russia la guerra per interposta persona si sta combattendo (principalmente) in Ucraina, un nuovo fronte che rischia di allargarsi a Libano e, in ultima istanza, Iran, si è aperto in Palestina e infine, quello che è il conflitto principale dal punto di vista del grande scontro interimperialistico, è quello con la Cina che potrebbe essere facilitato a partire dalla questione di Taiwan o del Mar cinese meridionale.

Gli Usa da tempo (presidenze di Obama, Trump, Biden) cercano di ridurre il loro immenso debito estero con una politica protezionistica con la grande preoccupazione che i creditori asiatici, cinesi in testa, utilizzino i loro attivi anche per acquisire il controllo di aziende statunitensi, approfondendo così un processo di centralizzazione del capitale in mani cinesi: «la feroce competizione economica moderna, con gli enormi squilibri internazionali che genera, per infiniti rivoli può sempre sfociare in scontri militari. Parafrasando Clausewitz, potremmo arrivare a dire che in fin dei conti la guerra è prosecuzione del capitalismo con altri mezzi»[15]. Il blocco imperialistico occidentale non è autosufficiente per quel che riguarda energia e materie prime, per questo motivo gli Usa hanno cercato di normalizzare i rapporti fra Israele e alcuni paesi musulmani (petromonarchie in primis) in modo da garantire allo stato sionista i rifornimenti necessari e inserire i paesi produttori di petrolio e materie prime nel cosiddetto “friend shoring” statunitense pensato per fronteggiare il capitale russo e cinese. Il problema, come ricorda Emiliano Brancaccio, è di aver lasciato in sospeso la questione palestinese, l’equivalente del “dimenticare” sotto il tavolo delle trattative una bomba: «In sostanza, nelle trattative per la “normalizzazione” dei rapporti tra Israele e produttori arabi di energia, chi ha agito per lasciare irrisolta la questione palestinese di fatto ha inciso più o meno consciamente a una profondità molto maggiore, arrivando a scuotere il progetto americano di divisione dell’economia mondiale in blocchi. Solo tenendo conto di questo punto di fragilità sistemica del “friend shoring” è possibile afferrare il senso e le implicazioni generali dell’aggressione di Hamas in territorio israeliano, dell’avvio della reazione militare da parte di Tel Aviv e delle minacciose conseguenze non solo a Gaza ma in tutto il Medio Oriente. La svolta statunitense verso questa forma di protezionismo unilaterale è attualmente il principale fattore di innesco degli sciagurati comportamenti umani verso la guerra»[16].

Più in generale non va dimenticato che le guerre dal punto di vista capitalistico, in particolare in una fase di crisi mondiale da sovrapproduzione, hanno il vantaggio di trasferire il plusvalore ai vincitori (la guerra non ne crea di nuovo) e attraverso un processo di distruzione dell’eccesso di sovrapproduzione pongono le premesse per un nuovo ciclo di accumulazione. Le armi, come del resto qualsiasi altra merce, richiedono di essere consumate onde evitare una crisi da sovrapproduzione nel settore e gli Usa sono i principali produttori mondiali oltre a essere il paese il cui bilancio prevede spese militari per 877 miliardi di dollari nel 2022, pari al 39% della spesa militare globale totale (cifra tre volte superiore all’importo speso dalla Cina)[17]. Da qui la spiegazione della “terza guerra mondiale a pezzi”. Sempre col pericolo che, nel disperato tentativo di salvaguardare un sistema politico ed economico imperialistico sempre più alla deriva, questa si trasformi in una guerra mondiale tout court. Eventualità per altro abbondantemente paventata negli ambienti militari statunitensi che prevedono un conflitto con la Cina entro il 2025[18].

 

Rischi di allargamento del conflitto e prezzo del petrolio

Interesse degli Usa potrebbe essere un Medioriente destabilizzato che danneggi la Bri e l’Instc – soprattutto nel momento in cui Washington ha inanellato qui una serie di fallimenti come il ritiro dall’Afghanistan, la sostanziale sconfitta in Siria, la ridotta capacità di pressione sulle petromonarchie che si rifiutano di aumentare la produzione per abbassare i prezzi, il cammino verso la realizzazione del petroyuan, una sempre più forte penetrazione diplomatica (e militare) nella regione di Russia e Cina che sono riusciti a disinnescare una delle principali armi del divide et impera dell’imperialismo occidentale favorendo la ripresa delle relazioni fra Arabia Saudita e Iran – ma non al punto da scatenare per ora un conflitto regionale, almeno per una parte dell’amministrazione Usa dato che in questo momento in cui si è in vista delle elezioni una nuova guerra costerebbe la sconfitta a Biden (o chi per esso), resta il fatto che l’occasione di scatenare un conflitto con Hizballah e ancor più con l’Iran è sempre obiettivo dei neocon e dei “dirittumanisti” che esprimono gli interessi del complesso militare-industriale che sta facendo affari d’oro con la guerra in Ucraina e che si sta già fregando le mani di fronte allo stanziamento di altri 100 miliardi di dollari per rifornire di armamenti Israele, Ucraina e Taiwan e che appoggerebbero con entusiasmo il progetto sionista di coinvolgere il Libano e l’Iran nel conflitto che costringerebbe poi gli Usa a un intervento diretto: «Per gli Stati Uniti, quindi, costringere il Medio Oriente a scomparire è un modo per evitare che diventi uno dei principali alleati di Cina e Russia. Un conflitto militare con l’Iran, sia in Siria che in Iraq o sotto forma di un attacco diretto all’Iran, spingerebbe indietro di decenni la politica del nuovo Medio Oriente»[19]. Per ora Iran e Hizballah si sono comportati con prudenza, ma i pericoli vengono dal prosieguo della mattanza e dalla posizione di appoggio (quasi) incondizionato degli Usa.

La strategia messa in atto sembra essere quella di iniziare una nuova guerra dopo ogni sconfitta. Dopo il ritiro dall’Afghanistan si è favorito l’esplodere del conflitto per interposta persona con la Russia in Ucraina e dopo la sconfitta in Ucraina una parte della classe dirigente statunitense sta preparando una nuova guerra in Medioriente, nonostante il rischio concreto sia di incorrere in un’altra débâcle.

Se a parole l’amministrazione statunitense sembra voler esercitare una qualche forma di contenimento della rappresaglia israeliana, nella realtà, oltre a continuare a rifornire di armi Tel Aviv, ha spedito nella regione la sua imponente forza navale ed è intervenuta direttamente bombardando in Siria più volte le milizie filoiraniane: «Washington ha meditato sulle possibili conseguenze di un’eventuale sconfitta israeliana a Gaza immediatamente successiva alla disfatta della Nato in Ucraina. Nessuno più temerebbe l’Occidente. Il rancore accumulato da decenni fa prevedere una ferocia incontrollabile, di cui Hamas ha dato un assaggio. Le grandi potenze occidentali hanno perciò deciso di chiudere gli occhi sul massacro che si sta compiendo. Sono consapevoli di permettere e favorire un genocidio, ma temono soprattutto di dover rendere conto dei crimini commessi in passato e di quelli attuali. A Gaza è quindi in gioco non la questione palestinese, ma la supremazia occidentale, l’imposizione delle sue regole, nonché gl’indebiti vantaggi che ne traggono gli Occidentali. La tensione non è mai stata così alta dalla seconda guerra mondiale»[20].

Gli europei rischiano grosso, le guerre in Medioriente hanno puntualmente delle conseguenze sul mercato dell’energia con una riduzione dell’offerta e un aumento dei prezzi. La Banca mondiale ha stilato un rapporto dopo l’operazione Tempesta di al-Aqsa per valutare le conseguenze sull’evoluzione dei prezzi del petrolio delineando tre differenti scenari di gravità crescente: nel primo, paragonabile alle conseguenze dell’abbattimento della Libia di Gheddafi nel 2011, ci sarebbe una riduzione dell’offerta oscillante fra 0,5 e 2 milioni di barili al giorno con un incremento del prezzo fra il 3 e il 13%; nel secondo, equiparato alle conseguenze dell’attacco all’Iraq nel 2003, ci sarebbe una contrazione fra i 3 e i 5 milioni di barili al giorno con un aumento dei prezzi fra il 21 e il 35%; infine, il terzo scenario, equiparabile all’embargo sul petrolio del 1973 in seguito alla guerra dello Yom Kippur, la riduzione sarebbe fra i 6 e gli 8 milioni di barili al giorno con un aumento del prezzo fra i 56 e il 75%[21]. Che le conseguenze sarebbero devastanti principalmente per l’economia europea è una facile deduzione, soprattutto nel caso il conflitto dovesse allargarsi e a maggior ragione nel caso di un coinvolgimento dell’Iran e/o dello Yemen con un blocco dei principali corridoi per il trasporto di gas e petrolio (stretto di Hormuz e/o di Bab al-Mandab) o nel caso, per ora improbabile, di un’azione dei paesi produttori mediorientali che sul modello della crisi del 1973 potrebbero decidere di alzare il prezzo del petrolio o colpire con un embargo Israele e i suoi alleati. A tale proposito Algeria, Libano e Iran hanno proposto al vertice araboislamico di Riad (11 novembre) di interrompere le forniture a Israele e alleati, ma la misura pare sia stata respinta da Eau, e Bahrein. Gli europei vedrebbero ulteriormente approfondita la loro dipendenza dagli Usa per i rifornimenti (comunque quantitativamente insufficienti) a prezzo elevato che andrebbero a sommarsi alle disgraziate conseguenze ottenute da Washington con la guerra per interposta persona contro Mosca che hanno portato a un taglio dei preziosi rifornimenti energetici russi (per non parlare del sabotaggio del Nord Stream) a basso prezzo che permettevano all’economia europea di mantenersi concorrenziale. Unica alternativa sarebbe tornare a rivolgersi, con la coda fra le gambe, a Mosca.

*Maurizio Brìgnoli (Milano, 1966), si è occupato sulla rivista la Contraddizione delle trasformazioni dell’imperialismo e del ruolo storico delle principali religioni. Ha pubblicato Breve storia dell’imperialismo, La Città del Sole, Napoli 2010 e Jihad e imperialismo, LAD, Roma 2023.

NOTE

[1] Cfr. Felicity Arbuthnot, “Israel Gas-Oil and Trouble in the Levant”, Global Research, 13 dicembre 2013; Felicity Arbuthnot – Michel Chossudovsky, “Video: ‘Wiping Gaza Off The Map’: Big Money Agenda. Confiscating Palestine’s Maritime Natural Gas Reserves, Global Research, 4 novembre 2023.

[2] Manlio Dinucci, “Gaza, il gas nel mirino”, il manifesto, 15 luglio 2014.

[3] Cfr. Rasha Abou Jalal, “Egypt persuades Israel to extract Gaza’s natural gas”, Al-Monitor, 6 ottobre 2022

[4] Cfr. Unctad, The Economic Costs of the Israeli Occupation for the Palestinian People: The Unrealized Oil and Natural Gas Potential, Ginevra 2019.

[5] Cfr. Galit Altstein, “War Budget Leaves Netanyahu Caught Between Markets and Politics”, Bloomberg, 12 novembre 2023.

[6] Cfr. “Una nota del ministero israeliano dell’Intelligence raccomanda l’espulsione degli abitanti di Gaza in Egitto”, Rete Voltaire, 31 ottobre 2023.

[7] Cfr. Sue Surkes, “Netanyahu proposed settling Palestinians in Sinai, Mubarak says”, The Times of Israel, 30 novembre 2017.

[8] “Memorandum of Understanding on the Principles of an India – Middle East – Europe Economic Corridor”, Casa Bianca, 9 settembre 2023

[9] Pepe Escobar, “War of Economic Corridors: the India-Mideast-Europe Ploy”, The Cradle, 25 settembre 2023.

[10] Cfr. Ben Norton, “Why does the US support Israel? A geopolitical analysis with economist Michael Hudson”, Geopolitical Economy Report, 12 novembre 2023.

[11] Cfr. Salman Rafi Sheikh, “The Future of the India-Middle East-Europe Economic Corridor”, New Eastern Outlook, 10 ottobre 2023; Maria Morigi, “Corridoi economici: il cimitero dei progetti occidentali per contrastare Cina e BRI”, Marx XXI, 4 ottobre 2023.

[12] Yvonne Ridley, “An Alternative to the Suez Canal Is Central to Israel’s Genocide of the Palestinians”, Middle East Monitor, 5 novembre 2023. Cfr. anche “Ben Gurion Canal Behind Canada-US Motive for Backing Israel’s Genocide”, Internationalist 360°, 13 novembre 2023.

[13] Per un’analisi della funzione del debito cfr. Carla Filosa – Gianfranco Pala – Francesco Schettino, Crisi globale. Il capitalismo e la strutturale epidemia di sovrapproduzione, l’AntiDiplomatico, Roma 2021, pp. 90-109.

[14] Cfr. Francesco Schettino – Fabio Clementi, Crisi, disuguaglianze e povertà, La Città del Sole, Napoli-Potenza 2020, pp. 79-85.

[15] Umberto De Giovannangeli, intervista a Emiliano Brancaccio, “Dietro la guerra c’è sempre il denaro”, l’Unità, 1 novembre 2023.

[16] Emiliano Brancaccio, “Israele, Gaza e la guerra economica mondiale”, Econopoly, 27 ottobre 2023.

[17] Cfr. Sipri, “Trend in World Military Expenditure”, aprile 2023.

[18] Cfr. Dan Lamothe, “U.S. General Warns War with China Is Possible in Two Years”, The Washington Post, 27 gennaio 2023.

[19] Salman Rafi Sheikh, “Why Is the US Targeting Iran?”, New Eastern Outlook, 8 novembre 2023.

[20] Thierry Meyssan, “La perpetuazione del dominio occidentale prevale sulla vita dei palestinesi”, Rete Voltaire, 31 ottobre 2023

[21] Cfr. “Potential Near-Term Implications of the Conflict in the Middle East for Commodity Markets: A Preliminary Assessment”, Special Focus, ottobre 2023, p. 16.

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Gaza. Ospedali come campi di battaglia!

L’infamia della guerra  “asimmetrica” che pone di fronte lo Stato d’Israele e la popolazione di Gaza segna una barbarie che travalica i confini dell’odio. Siamo al disconoscimento  dell’identità umana.

Certo la capacità di esercitare violenza lucida e organizzata è una facoltà propria delle economie sviluppate, tecnologicamente avanzate e forti di un retroterra economico e industriale. Israele ne è il prototipo.

Certo Gaza reagisce sul piano dell’asimmetria ed impiega ogni soluzione, anche estrema, utile a colmare il divario di fuoco. In questa logica di guerra il lasciarsi andare alla poesia delle passioni, all’empatica solidarietà per l’aggredito, per il più debole ci allontana dalla prosa che è un piano di valutazione a mente fredde sulle vicende sociali di cui la guerra è una delle sue espressioni.

L’infamia di una guerra che fa degli ospedali un terreno di scontro in cui la vita stessa è oltraggiata e vissuta come ostacolo al conseguimento di obbiettivi militari, sia di difesa che di offesa; è una atrocità che non ha confini, e una caduta nella barbarie.

Nella morsa delle passioni è bene riservare spazi di umana lucidità è interrogarsi oltre la contingenza delle efferatezze. La riserva di considerazioni umane nel mentre si combatte non è un ripiego umanitario perché l’idea di fratellanza di classe ingloba e perfeziona lo spirito umanitario.

La guerra è uno strumento per conseguire degli obbiettivi (nessuno fa la guerra per la guerra). La guerra, cosi come ogni  conflitto tende a stabilire un  nuovo equilibrio che la  diplomazia una volta sedati gli scontri procurerà di santificare come nuova pace.

Se si resta sul piano della pura valutazione degli effetti della violenza si cade nell’inutile contabilità dei morti dei feriti e dei dispersi e peggio ancora nel dover riscontrare che il tributo di sangue maggiore viene versato dalla popolazione civile: donne bambini, malati, sino all’orrore dei bambini in incubatrice da ventilare a mano perché manca la corrente. Gaza è oggi il set dell’orrore perché si combatte sui corpi degli innocenti.

Negli ospedali e nei cunicoli sotto gli ospedali c’è la dimora dei dannati, siano essi civili palestinesi che i civili israeliani sequestrati con l’azione del 7 ottobre da parte di Hamas.

Se gli obbiettivi  da conseguire spettano alla politica e non agli  stati maggiore delle forze combattenti, è necessario domandarsi quali siano le finalità della guerra, e quali siano gli obbiettivi realisticamente conseguibili.

La ferocia del capitalismo non ha morale. I lager nazisti, i gulag staliniani, Guernica Coventry e Dresda rase al suolo, le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki hanno un solo mandante; l’imperialismo.

Cinico, impersonale, antiumano.

I rivoluzionari debbono sempre partire da questo quadro perché antisemitismo, islam fobia, nazionalismi vari ecc. sono sempre funzionali  al perpetuarsi dei massacri di popolazioni civili anzi ne sono la copertura ideologica. Questo furore ideologico allontana dalla vera lotta di liberazione che si esercita con la lotta di classe nelle forme e nelle condizioni possibili.

I rivoluzionari debbono  sempre fare scelte funzionali allo sviluppo della lotta di classe. La nostra lotta programmaticamente e storicamente ha come obbiettivo la rimozione delle cause dei conflitti che hanno origine dalla lotta per la conquista-contesa dei mercati che si completa e si intreccia con la rete di presenze militari.

La lotta di classe anche quando non ha come obbiettivo immediato la conquista del potere si pone quegli obbiettivi che rendano più agibile il dispiegarsi della lotta di classe.

Alle fratture verticali tra  Israele e Gaza, il nostro compito è sottolineare e valorizzare  le fratture orizzontali di tutte le opposizioni alla guerra e ai nazionalismi. Valorizzare in primis il ruolo naturale che esprimono le donne e le madri perche la loro condizione sociali le pone in una posizione più vicina alla fonte della vita. Le marce per la liberazione degli ostaggi delle madri di Israele le pone come alleate naturali alle madri palestinesi. Insieme possono rivendicare la fine dei massacri. Non è solo un sogno è un bisogno e una forza  vitale di cui tenere conto.

Lo scenario medio orientale, purtroppo,  non offre nessun sblocco favorevole all’avanzamento del proletariato. Ci sarebbe molto da dissertare  sullo spazio che resta alle lotte di liberazione nazionale in un contesto affermato di prevalenze imperialistiche: imperialismi tradizionali e nuovi contendenti.

La situazione storicamente determinatasi in medio oriente è complessa e si offre al richiamo delle più disparate  citazioni dai testi dei nostri Maestri ma non sfugge che il posizionamento debba discendere dalla posizione strategica  che con l’affermarsi dell’imperialismo (stadio avanzato e supremo del capitalismo) prima di tutto vi sia da alzare la bandiera della fratellanza dei proletari al di la di ogni divisione nazionale.

Se l’assemblaggio delle citazioni porta come conseguenza ad appoggiare  interessi di stati reazionari e teocratici (Iran, Qatar, Turchia ecc), che non sono una alternativa ai predoni occidentali, possiamo affermare senza ombra di dubbio che  di avanzamento della lotta di classe proprio non se ne vede. Evidentemente in certe equazioni, c’è qualcosa  che non torna.

Ma al di la della veste ideologica religiosa o laica che questi Stati indossano siamo comunque di fronte a paesi a capitalismo maturo e con una vocazione imperiale storicamente datata.

Le suggestioni  rivoluzionarie che mandano al massacro i civili nella utopistica prospettiva di una Gaza “rossa e proletaria” sono velleitarie. Gaza una volta liberata sarà asservita ai medesimi  padroni: le borghesie petrolifere che   finanziano tanto il welfare quanto le guerre di Hamas che determinano di fatto le finalità politiche dello scontro.

Questi  non sono affatto campioni di libertà anzi sono in prima linea nello sfruttamento  degli emigrati palestinesi. Ci siamo già dimenticati la strage di lavoratori morti a Doha per allestire lo spettacolo dei mondiali di calcio? Modernità e teocrazia sono in stravagante simbiosi. Sempre il Qatar è tra i maggiori azionisti di Volkswagen, di Deutsche Bank, Credit Suisse, e Barclays Bank. Sponsor ubiquitario da Hamas a Football Club internazionale di Milano. “Visit Qatar” e “Qatar Airways” hanno fatto da cornice luminosa alla partita di calcio. Luci a San Siro e buio a Gaza!

Come non andare con il pensiero alle incubatrici senza corrente. L’asimmetria non è solo un dato militare è la realtà totalizzante di un sistema da abolire.

Una realistica e avveduta valutazione degli sponsor e dei programmi di liberazione sociale, che neanche precisano, dovrebbe suggerire quali siano i veri interessi proletari da sostenere.

Il sangue proletario è un bene prezioso da preservare per le nostre guerre.

Oggi in questo groviglio di contraddizioni è saggio, rivendicare il cessate il fuoco, fermare la guerra a tutti i costi, fermate la strage di civili e la cosa che più si avvicina ad una soluzione che preserva almeno  la vita per la nostra guerra. La guerra che abolisce le classi e con esse il capitalismo.

SI Cobas Sanità e funzione pubblica

 

 

 

PALESTINA: STRATEGIE A CONFRONTO – Enrico Tomaselli

Proviamo ad indagare l’attuale fase del conflitto israelo-palestinese sotto il profilo strettamente militare: le strategie, le tattiche, le scelte fatte – e le condizioni oggettive – di una guerra in cui comunque interagiscono, direttamente o indirettamente, molti attori, ciascuno con i propri interessi e le proprie esigenze. Proprio per ciò, un puzzle complicato da risolvere.

In ogni conflitto non c’è solo lo scontro tra forze militari. Ci sono sempre (questo anche prima) due strategie che si confrontano. E se, come ci ricordava von Clausewitz, la guerra è il proseguimento della politica con altri mezzi, allora queste strategie non sono mai esclusivamente militari.
Il parlare di strategie, però, implica l’idea che ci sia un disegno, un piano, che tenga insieme degli obiettivi da conseguire con le mosse necessarie per conseguirli. Il che, a sua volta, comporta che vi sia un prevalere del calcolo razionale, rispetto al dato emotivo, che pure è ineludibile.
La prima cosa da chiedersi, dunque, è se vi siano effettivamente strategie che si stanno confrontando, nell’ambito del conflitto israelo-palestinese, così come esso si è andato delineando dal 7 ottobre in avanti. E, solo successivamente, se è il caso, indagarle.
Ora, in un conflitto così lungo (quasi secolare) e così aspro, è ovvio che vi siano componenti che affondano le proprie radici nei sentimenti e nelle emozioni; il dolore, la nostalgia, la rabbia, la paura, l’odio. Quindi, non possiamo aspettarci di non trovarne traccia, da ambo le parti. Si tratta piuttosto di capire in quale misura tutto ciò agisca nel determinare le scelte degli uni e degli altri.

Una cosa è sicura ed evidente: poiché sono state le forze della Resistenza palestinese ad aprire questa fase del conflitto, e poiché l’azione del 7 ottobre ha richiesto una lunga ed accurata preparazione, si può con sicurezza affermare che tale azione è parte di un più ampio disegno strategico. Che a sua volta, di là dagli altrettanto chiari obiettivi politici che si poneva (e che in parte ha già colto), deve giocoforza comprendere la previsione di massima del successivo sviluppo militare.
Non può esservi dubbio che la preparazione di tale piano (che, ricordiamolo, non è opera esclusiva di Hamas/al-Qassam, ma di ben cinque diverse organizzazioni politico-militari) abbia considerato la reazione israeliana; e di certo non poteva ignorare che, sotto il profilo numerico e di mezzi, la supremazia dell’IDF era indiscutibile. La strategia palestinese, pertanto, non poteva che mettere nel conto perdite elevate, ed al tempo stesso puntare su qualcos’altro per sconfiggere il nemico. A ben vedere, questi sono esattamente principi base di ogni guerra di guerriglia.
La premessa strategica dell’operazione Tempesta di al-Aqsa è che il punto debole di Israele è il personale umano. La capacità politica e sociale di reggere perdite relativamente elevate, è sicuramente molto minore per Tel Aviv che non per la Resistenza. I militari israeliani sono ragazzi (e ragazze) di leva, che non sono preparati ad affrontare una prolungata guerra d’attrito. La loro capacità di resistenza psicologica (così come quella delle loro famiglie) è contenuta al di sotto di determinati limiti – di tempo e di perdite. Su ciò ovviamente incidono numerosi fattori, più o meno comuni a tutte le società occidentali; ma nel caso di Israele vi è un elemento aggiuntivo, ovvero l’ossessione demografica. La popolazione non araba è infatti estremamente ridotta, rispetto alla massa dei palestinesi e degli arabi dei paesi vicini, ed ha un tasso di fertilità di gran lunga inferiore.

La strategia palestinese, quindi, è semplicemente riassumibile. C’è una prima fase, l’attacco, durante il quale si infrange il mito dell’invincibilità del nemico, si mina il rapporto di fiducia tra la popolazione ed il suo esercito, si riposiziona al centro del mondo la questione palestinese, si manda all’aria il piano statunitense di normalizzare lo status quo, e non da ultimo si infliggono perdite al nemico e si fanno prigionieri che serviranno per le fasi successive.
La seconda fase, prevede – in senso letterale – la resistenza; la reazione rabbiosa e feroce dell’IDF è messa in conto, e si tratta di scomparire sinché non si sarà scaricata. La terza fase (quella attuale) prevede il confronto sul terreno tra le forze combattenti e l’esercito nemico, durante il quale la guerriglia cercherà di infliggere quante più perdite possibili al nemico, e di fiaccare la (sua) resistenza; in questo quadro, lo scambio dei prigionieri civili serve ad attutire l’impatto della risposta israeliana. L’ultima fase, quando il nemico sarà stanco, isolato, sfiduciato e diviso al suo interno, sarà un lungo cessate il fuoco che preluderà allo scambio dei militari prigionieri con migliaia di palestinesi incarcerati.

A quel punto, la vittoria politica – ed anche militare – della resistenza sarebbe evidente.
Questa, ovviamente, è solo presumibilmente la strategia palestinese, ed in ogni caso è ciò che ha immaginato, non necessariamente ciò che accadrà.
Possiamo adesso chiederci, invece, qual’è la strategia israeliana.
Per quanto possa apparire paradossale, la mia risposta a questa domanda è che – semplicemente – una strategia israeliana non esiste. E ciò per due semplici ragioni: la prima, è che l’iniziativa è stata totalmente palestinese, ed ha colto di sorpresa l’intero establishment politico-militare; la seconda è che, all’interno delle forze armate e dei servizi di sicurezza israeliani, nessuno pensava mai che la Resistenza potesse mettere in atto una operazione di tale livello, e quindi non c’erano piani su come fronteggiare questa eventualità. Ciò è peraltro confermato empiricamente dalla reazione militare nelle prime 48 ore, caratterizzata chiaramente dal più totale caos e dal panico…

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Palestina come il Kosovo: l’Onu porti pace e libertà – Domenico Gallo

Secondo l’ultimo aggiornamento del ministero della Sanità di Gaza (controllato da Hamas), l’attacco israeliano alla Striscia ha provocato la morte di 11.470 persone, tra cui 4.707 bambini, 3.155 donne e 668 anziani, mentre 29.000 sono rimasti feriti. Tra i morti ci sono 203 operatori sanitari e 36 della protezione civile, mentre più di 210 operatori sanitari sono rimasti feriti. Nello stesso periodo, in Cisgiordania, 197 palestinesi sono stati uccisi da colpi di arma da fuoco dell’esercito israeliano e 2.750 sono rimasti feriti. I numeri sono impressionanti, ma non danno conto della dimensione reale del dramma, non riescono a descrivere l’inferno dei feriti lasciati morire per l’impossibilità di essere curati, il fetore di morte per i cadaveri rimasti sotto le macerie e per quelli accumulati nei pressi degli ospedali, l’orrore delle fosse comuni dove vengono frettolosamente seppelliti, l’angoscia delle partorienti sotto le bombe, la fame e la sete degli sfollati rimasti senza tetto, acqua e cibo.

A Gaza è calato l’inferno sopra una popolazione di oltre due milioni di individui. Di fronte a una situazione così orribile, scompaiono le ragioni e i torti di una parte o dell’altra. Questa realtà è inaccettabile, la comunità internazionale, tutti gli Stati hanno il dovere di agire per fermare il massacro e ristabilire la pace. Invece non solo non vengono applicate sanzioni di alcun tipo per fermare Israele, ma non si ha nemmeno il coraggio di invocare il cessate il fuoco per non disturbare i piani del governo israeliano. L’Italia e l’Unione europea balbettano di tregua umanitaria, di far passare i convogli con i generi di prima necessità, di aumentare gli aiuti a Gaza. Ma a cosa serve una tregua se poi i combattimenti sono destinati a riprendere?

Il silenzio della politica ci rende complici. Quando ogni 10 minuti muore un bambino a Gaza, il fattore tempo è essenziale. Dobbiamo pretendere che il nostro Paese e le Istituzioni europee di cui facciamo parte chiedano a voce alta il cessate il fuoco ed esercitino su Israele pressioni non inferiori a quelle operate sulla Russia per ottenere lo stop di ogni massacro. Il cessate il fuoco interrompe la fase cruenta della guerra, può favorire il rilascio degli ostaggi ma non assicura la pace. Netanyahu ha comunicato l’intenzione di rioccupare Gaza per garantire la sicurezza di Israele. Questo sarebbe il modo migliore per rendere il conflitto permanente. Come si può pensare che dopo aver seminato lutti in tutte le famiglie, dopo aver trasformato in sfollati oltre un milione di persone, dopo aver distrutto il 50% delle abitazioni e gli impianti indispensabili per la vita civile, l’esercito israeliano possa amministrare il territorio e tenere sotto controllo la popolazione superstite di Gaza?..

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La sindrome di Hamas – Raffaele Tuzio

L’asse principale della propaganda degli stati occidentali per giustificare l’eccidio e la deportazione della popolazione palestinese, si incardina su un punto di fondo condiviso sia dalle anime più esplicitamente votate allo sterminio dei palestinesi che da quelle “buone” e “sensibili” alle loro sofferenze e agli “eccessi” della repressione.

Su questo “principio” convergono le varie anime:

“è necessario che i palestinesi si liberino della direzione politica di Hamas”.

Il giuramento su questa “necessità” è richiesto nei salotti col fucile della propaganda mainstream in ossequio agli ordini di Washington, ma è esplicitato in una sorta di auto-castrazione anche da quei solidali che precisano “non siamo qui in piazza per sostenere Hamas, ma la popolazione palestinese”. Giuramenti che non a caso sono stati richiesti nei confronti del demonio Putin nella contemporanea offensiva della Nato contro la Russia in Ucraina, e la richiesta si estende a tutti i popoli e gli “Stati canaglia” (Iran, Hezbollah libanesi etc.).

Nella sostanza Hamas viene presa a pretesto per imporre la dissociazione dalla battaglia e dall’operazione Diluvio di Al Aqsa” che oggi come non mai prima è sostenuta dalla totalità della popolazione Palestinese (e non solo) e dall’intero schieramento delle organizzazioni politiche e militari (a eccezione di Fatah).

Si dirà le intenzioni sono opposte: gli uni (i propagandisti dello sterminio degli “incivili”) utilizzano Hamas per giustificare la repressione e la politica di assoggettamento dei palestinesi, gli altri intendono denunciare questo utilizzo e sgombrare l’ “equivoco”. Ovvero intendono chiarire che la lotta di liberazione nazionale è “universalmente giusta”, pregna di vera democrazia e “diritto” e non può essere inficiata di “brutalità”, “islamismo”, “arretratezza” come nelle direzioni attuali che i palestinesi si sono scelte.

Riconoscendo le “buone intenzioni”, che buone non sono, si dovrebbe perlomeno convenire che questa speculare convergenza si allinea su un “ragionamento” ed un “sentimento” condiviso con il nemico, almeno nella definizione, che si basa sull’assunto che la resistenza palestinese non è come “dovrebbe essere”. Di conseguenza uno schieramento “senza condizioni preventive” sugli episodi di resistenza palestinese risulterebbe equivoco e dannoso per la stessa popolazione palestinese. Tralasciando la letterale corrispondenza con le elucubrazioni di un qualsiasi “cinegiornale luce” occidentale, sorgerebbe spontanea la domanda: ma come dovrebbe essere una resistenza giusta?

Sappiamo che per l’imperialismo occidentale una resistenza giusta è quella che non resiste; che delega alle buone intenzioni degli accordi internazionali e degli sponsor occidentali la speranza che venga concesso un futuro ai palestinesi. Ma anche il più distratto e fiducioso adepto del “diritto” internazionale non può che prendere atto che questa strada ha condotto alla disgregazione di ogni realtà territoriale palestinese, al campo di concentramento che è la striscia di Gaza, alla colonizzazione della Cisgiordania. Un “errore” delle democrazie occidentali? Una conseguenza dell’ala più intransigente del sionismo? Basterebbe una settimana premio per questo adepto del diritto internazionale nella striscia di Gaza per indurlo a riflessione su cosa abbia voluto dire la favola di 2 popoli e 2 stati.

Non di errore si tratta ma di necessità e volontà dell’imperialismo internazionale di schiacciare ogni resistenza delle masse sfruttate del medio oriente all’ordine che ha consentito e consente lo sfruttamento delle sue risorse e della sua popolazione. Lo Stato di Israele è stato costruito ed è finanziato per tale scopo. Per esercitare il diritto del più forte.

In realtà la domanda che ci si dovrebbe porre è come mai la grande massa dei palestinesi non crede più in queste promesse e si sceglie Hamas come rappresentante delle proprie esigenze di sopravvivenza prima che di liberazione.

Un’estensione della vacanza premio in Cisgiordania aiuterebbe alla comprensione di come l’autorità palestinese e le prospettive di un riconoscimento di uno Stato Palestinese viene vissuto dalla popolazione locale. Le recenti repressioni operate dalla polizia dell’Autorità Palestinese a Ramallah contro le manifestazioni in favore della resistenza nella Striscia di Gaza la dicono lunga. L’autorità palestinese è finanziata e tenuta in piedi per giustificare la politica di espansione coloniale di Israele e funziona come un qualsiasi governo quisling utilizzato per garantire l’ordine.

Ma, per inciso, i buoni propositi per la ricerca di una “resistenza giusta” e il disvelamento dell’arcano Hamas dovrebbero richiedere la risposta a ulteriori domande. Per esempio perché l’imperialismo occidentale, o almeno una parte dei suoi Stati compresa l’Italia si sono spinti in passato a giustificare e “coprire” il terrorismo dell’Olp mentre oggi sono spietatamente attive contro ogni forma di resistenza sotto lo scudo della lotta alla “barbarie islamista”. Ai tempi di Sigonella l’Olp non riconosceva l’esistenza dello Stato di Israele e utilizzava apertamente le azioni terroristiche. Quello che è cambiato non è l’inclinazione dei dirigenti occidentali contemporanei, che oggi come allora pretendono che qualsiasi resistenza si assoggetti e subordini completamente ai protettori, ma l’inasprimento indispensabile dello scontro internazionale contro gli sfruttati dell’area (e non solo) e l’impossibilità di garantire l’ordine senza soffocare qualsiasi anelito di indipendenza…

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Gaza. Crollano le menzogne israeliane sull’ospedale Al Shifa – Forum Palestina

Aggiornamenti. I militari israeliani continuano ad accanirsi sull’ospedale al Shifa di Gaza. “Stasera abbiamo condotto un’operazione mirata nell’ospedale di Shifa”, ha annunciato il maggiore generale Yaron Finkelman, capo delle operazioni militari israeliane a Gaza. “Continuiamo ad andare avanti”. Il ministero della Sanità di Gaza ha riferito che i bulldozer israeliani hanno “distrutto parti dell’ingresso Sud” dell’ospedale.

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Nell’ospedale Al Shifa di Gaza non c’era alcun “comando di Hamas” nè gli ostaggi ma solo feriti, malati e personale medico costretti a sfollare dalle truppe israeliane. Lo riferisce un collaboratore dell’agenzia Afp sul posto.

Un giornalista, che si trova dentro l’ospedale Al-Shifa, ha raccontato alla Bbc che le forze israeliane sono andate di stanza in stanza, piano dopo piano, e hanno interrogato tutti, sia il personale che i pazienti, accompagnati da medici e soldati che parlano arabo.

Il giornalista di nome Khader aggiunge che gli sfollati che si erano rifugiati nel complesso sono stati fatti radunare nel cortile e alcuni sono sottoposti a controlli di sicurezza.

Il direttore del pronto soccorso dell’ospedale Al-Shifa, Omar Zaqout, ha accusato le forze armate Israele di aver sequestrato gli sfollati. Secondo quanto riporta il Washington Post, Zaqout ha raccontato ad Al Jazeera che gli sfollati sono stati spogliati, ammanettati e bendati e portati in una destinazione non precisata.

I soldati israeliani hanno fatto irruzione nell’ospedale di al-Shifa sparando in aria e ordinando a tutti i maschi con più di 16 anni di consegnarsi.

Secondo le testimonianze di chi era presente durante la presa della più grande struttura sanitaria di Gaza, divenuta da giorni il centro di feroci combattimenti urbani, circa mille palestinesi maschi, con le mani sopra la testa, sono stati condotti nel vasto cortile dell’ospedale, alcuni di loro denudati dai soldati che li controllavano alla ricerca di armi ed esplosivi.

Un giornalista di France Presse che ha visitato l’ospedale diversi giorni fa per interviste gli assediati ed è rimasto intrappolato dai combattimenti, riferisce che i soldati sparavano colpi di avvertimento mentre si spostavano da una stanza all’altra alla ricerca di miliziani di Hamas, perquisendo donne e bambini, alcuni dei quali erano in lacrime.

Zaqout ha riferito anche di non aver visto le forniture mediche che l’Idf dice di aver fornito all’ospedale, in particolare le incubatrici e il latte per i bambini.

Solo nelle vicinanze dell’ospedale c’è stato effettivamente uno scontro a fuoco. Ma nulla all’interno della struttura che era stata attaccata e additata dalle forze armate israeliane come il quartier generale di Hamas.

La notizia è confermata da un funzionario militare israeliano il quale ha riferito ai giornalisti che quattro combattenti palestinesi sono stati uccisi in uno scontro all’esterno e che non ci sono stati combattimenti all’interno del complesso ospedaliero. Lo stesso funzionario non ha specificato cosa sia stato trovato nell’ospedale, ma ha detto che le prove saranno presentate in seguito.

Hamas ha negato l’affermazione israeliano, definendola “nient’altro che una continuazione delle menzogne e della propaganda a buon mercato, attraverso le quali Israele sta cercando di dare una giustificazione per il suo crimine volto a distruggere il settore sanitario a Gaza“.

La Reuters riporta quanto affermato dal portavoce militare israeliano Richard Hecht, il quale ha rabberciato una dichiarazione affermando: “Sappiamo che c’è una notevole infrastruttura di Hamas nell’area, nelle vicinanze dell’ospedale. Potenzialmente sotto l’ospedale, ed è qualcosa su cui stiamo lavorando. Ci vorrà del tempo. Questa guerra è una guerra complessa”, ha detto Hecht. Per cucinare le menzogne di guerra infatti serve un po’ di tempo e un po’ di messinscena.

Perfino The Guardian è stato costretto ad ammettere che “Israele ha finora presentato in pubblico solo prove limitate del presunto complesso di comando sotto al-Shifa, anche se è ampiamente accettato che Hamas abbia una vasta rete di tunnel in tutta Gaza”.

Ma è evidente che “all’interno o nelle vicinanze” e “sotto Al Shifa e vasta rete di tunnel a Gaza” sono due cose ben diverse tra loro.

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L’ingresso dei militari israeliani nell’ospedale di Al Shifa, nella Striscia di Gaza, costituisce “un palese crimine di guerra”, e Israele “è pienamente responsabile della vita dei malati e dei feriti, del personale medico e degli operatori sanitari, delle donne e dei bambini civili sfollati”. Lo ha reso noto ieri in una dichiarazione il movimento di liberazione nazionale palestinese Fatah, principale partito dell’organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). “Il crimine di assaltare il complesso di Al Shifa dopo averlo assediato e di sparare fuoco e missili contro i suoi edifici e dintorni, è una violazione di tutti i valori umani e una palese violazione di tutte le leggi, le carte e gli accordi internazionali”, si legge nel documento.

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L’esercito israeliano infine ha fatto saltare il palazzo del parlamento di Gaza, “conquistato” nei giorni scorsi. Lo ha riferito il sito israeliano Ynet. Lo hanno fatto le truppe di quella che arbitrariamente viene considerate l’unica democrazia nel Medio Oriente, una democrazia con la postura del terrorismo di Stato.

da qui

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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