«L’étang»
di Susanna Sinigaglia
«L’étang» di Gisèle Vienne
Interpretazione di Adèle Haenel, Henriette Wallberg
Attraverso la frantumazione del linguaggio questa performance di Gisèle Vienne, straniante e sconvolgente, porta in scena il disfacimento del mondo contemporaneo che accumula tragedia su tragedia in una cacofonia indistinta di parole smozzicate. Come afferma l’autrice in un’intervista rilasciata in occasione del Festival d’automne di Parigi 2021, la sua è anche la ricerca di una lingua in grado di decostruire le violenze invisibili nonché strutturali esercitate dai dominatori sui dominati.
Il lavoro si ispira a una pièce di Robert Walser dal titolo omonimo, un atto d’accusa contro la famiglia che nella lettura di Gisèle Vienne si trasforma in un atto di accusa contro l’intera società. L’étang, lo stagno cui si riferisce l’opera giovanile di Walser dedicata alla sorella, è quello in cui simula il suicidio il protagonista adolescente, Fritz, per attirare l’attenzione della madre da cui si sente disperatamente trascurato.
Nell’opera di Gisèle Vienne, il sipario si apre al suono di una musica assordante mostrando una serie di pupazzi in abiti dai colori sgargianti ammassati su un lettino-lettiga, o seduti sul pavimento ai suoi piedi, o sdraiati a terra un po’ più distanti. Rappresentano gli adolescenti; in continuità con la pièce di Walser, è infatti sull’adolescenza che si appunta lo sguardo dell’autrice. Entra un uomo robusto che a uno a uno li solleva e se li porta via, lasciando in scena solo il lettino.
Ora lo spazio bianco che circonda il lettino altrettanto bianco sembra alludere a un ambiente ospedaliero. Vi si affaccia una giovane donna (Adèle Haenel) in tuta bianca sotto un giubbotto marrone, seguita da un’altra donna un po’ più anziana (Henriette Wallberg) in felpa e jeans: avanzano muovendosi come al ralenti, in modo quasi felino. Entrambe interpreteranno una molteplicità di personaggi: è come se, liberata la scena dai pupazzi, sono ora le due performer in carne e ossa a sostituirli. Innanzitutto, Adèle Haenel è Fritz ma anche la sorella e un amico, e Henriette Wallberg è la madre ma anche il padre. Mano a mano che la performance procede, entrambe si scinderanno in una serie di personaggi indistinti ma accomunati dalla stessa disperazione per il loro essere frantumati, per la perdita di orientamento, per la loro alienazione.
Questo disfacimento dell’io è sorprendentemente interpretato nel corpo dalle due performer: da Henriette Wallberg, col suo accasciarsi a terra con movimenti che sembrano scomporle il corpo come se fosse un pupazzo che si disarticoli rovinando su stesso;
da Adèle Haenel, col suo sgonfiarsi come una bambola di gomma.
L’effetto allucinatorio e straniante dell’atmosfera viene moltiplicato dalle luci che a un tratto tingono di rosso, giallo e blu l’ambiente creando l’impressione che il lettino fluttui a mezz’aria e tutto sia sempre più irreale.
La disperazione si esprime al culmine quando Fritz, rimasto solo, si abbandona a urlare parole sempre più sconnesse ma talmente potenti da attirare la tanto desiderata attenzione della madre che infine, col suo passo felino, ritorna in scena.