L’Europa insiste con l’austerità

di Marco Bertorello e Danilo Corradi (*)

Col nuovo Patto di stabilità l’Ue ribadisce che la spesa non può essere fuori controllo e che non c’è alcuna mutualizzazione del debito all’orizzonte.

Quando si parla di modifiche al Patto di stabilità e crescita si parla di debito e quando si parla di debito la discussione spesso diventa surreale e schizofrenica. Nelle ultime settimane il ministro all’economia Giancarlo Giorgetti per frenare i desiderata dei cosiddetti paesi frugali (le formiche) si è proposto come capofila dei paesi maggiormente indebitati (le cicale, il riferimento alla fiaba è volutamente ironico), ricordando che in Europa c’è una guerra e che non si potevano assumere parametri che si sarebbero rivelati immediatamente impraticabili.

Sui parametri impraticabili torneremo più avanti, il problema è che Giorgetti confonde la causa con l’effetto. Paradossalmente nel 2022 il rapporto debito/Pil è sceso di qualche punto grazie alla crescente inflazione, cui aveva contribuito anche la guerra. Oggi la cronicizzazione del conflitto tra Russia e Ucraina non sembra la principale causa di quella mancata crescita che ristagna da tempo e che alimenta l’indebitamento. Se veramente si vuole parlare di parametri impraticabili si dovrebbe andare oltre il contingente e volgere lo sguardo verso ciò che sembra essere strutturale da, almeno, un paio di decadi.

Sovranismo immaginario

Partiamo dalle modifiche al Patto di stabilità e crescita approvate all’unanimità dal Consiglio dei ministri delle finanze dell’Unione europea (EcoFin) che ora dovranno esser ratificate dalla Commissione e dal Parlamento del Vecchio continente. Durante la pandemia il Patto era stato sospeso per consentire ai singoli paesi di fronteggiare le conseguenze del blocco economico e produttivo. Appena intravista una certa normalizzazione i paesi formica hanno nuovamente rilanciato il tema del suo ripristino, che al momento della sospensione era stato previsto dovesse essere il 2024. La fine dell’effetto rimbalzo post-pandemico e dei benefici dell’ inflazione sui conti hanno spinto perlomeno nella direzione di riaprire la discussione. D’altronde di sospensione si trattava.

Si è avviato un lungo confronto tra cicale e formiche nel quale, come quasi sempre accade, la Francia ha sostenuto una parte delle ragioni delle cicale (a cui sempre più assomiglia) e alla fine si è accordata in una sorta di bilaterale con la capofila delle formiche, la Germania, rimarcando l’insostituibilità dell’asse franco-tedesco. Le querelle sovraniste di Giorgia Meloni sulle foto di Mario Draghi sul treno o, aggiungiamo, le sue al bar con i premier delle due potenze stanno a zero! In realtà il governo della destra ha votato a favore di un accordo su cui ha inciso pochissimo e che certo non esprime una discontinuità di orientamento relativamente alle politiche europee dei decenni passati. Uno spuntato sovranismo della domenica.

I contenuti

I principi base restano, infatti, quelli precedenti.
Il rapporto Debito/Pil di ogni paese aderente non deve superare il 60% e il deficit deve rimanere al di sotto del 3%. Ciò che cambia è l’introduzione dei cosiddetti margini di flessibilità per tendere ai numeri sopracitati. Cioè formalmente torna importante la tendenza piuttosto che la velocità nella riduzione dell’indebitamento. I paesi che supereranno il 90% del rapporto debito/Pil dovranno realizzare una riduzione annua pari all’1%, mentre se si attesteranno tra il 60 e il 90% la riduzione annua dovrà essere dello 0,5%. Quando il deficit supererà il 3% l’aggiustamento annuo richiesto sarà dello 0,5% del Pil in termini strutturali. Nel calcolo dell’aumento del deficit si terrà conto, però, dell’aumento della spesa per interessi onde evitare di ostacolare la spesa in investimenti. I paesi che hanno un rapporto debito/Pil superiore al 90% dovranno far scendere il deficit all’1,5% attraverso un aggiustamento strutturale annuo dello 0,4% per quattro anni o dello 0,25% in sette, calcolato al netto degli interessi sul debito e con un impegno formale del paese a realizzare investimenti e riforme.

Questo impianto prevede un periodo transitorio per la piena entrata in vigore che andrà dal 2025 al 2027. In tale lasso di tempo la Commissione europea dovrà stabilire un percorso di risanamento dei conti pubblici per ogni paese aderente, tenendo conto degli oneri degli interessi sul debito e dell’impegno a prevedere spese in investimenti. È prevista la possibilità di sforare il piano concordato in misura non superiore allo 0,3%. I paesi che non rispetteranno i piani e saranno sottoposti a procedura di infrazione dovranno concordare con la Commissione l’uso di fondi pubblici. I piani di risanamento dovranno essere della durata quadriennale, ma potranno arrivare anche a un settennato in considerazione del profilo dei piani di spesa, degli sforzi effettuati sul versante degli investimenti e delle riforme, a partire da quelle frutto del Pnrr.

A conti fatti

Dopo 25 anni il vecchio Patto non mostrava le rughe della vecchiaia, ma la sua impraticabilità. Dagli accordi di Maastricht in avanti la grandissima parte dei paesi non solo non aveva rispettato i parametri, ma se ne era costantemente allontanata.
Faceva parzialmente eccezione la Germania (che pure oggi supera il 60% del Pil con una dinamica economica molto debole) e alcuni paesi a essa simili (Austria e Olanda, i paesi scandinavi e alcuni Stati dell’est). Attualmente Francia, Italia, Spagna, Belgio, Portogallo e Grecia hanno un debito superiore al 100% del Pil.

Le regole europee sui bilanci pubblici ricordano Manzoni quando all’inizio dei Promessi sposi menziona i ripetuti sforzi delle autorità per sconfiggere la piaga dei cosiddetti «bravi». Una «specie» di cui racconta gli «sforzi fatti per ispegnerla, e della sua durata e rigogliosa vitalità». E di come l’autorità «prescrive gli stessi rimedi, accrescendo la dose», finendo poi per esser costretta «a ricorreggere e ripubblicare la solita grida contro i bravi».

Il Patto, va detto, era e resta un compromesso tra formiche e cicale per tenere unito un continente che rischia di fare la fine, per restare a Manzoni, del vaso di terracotta tra vasi di ferro. Un compromesso tra paesi che hanno i conti pubblici relativamente in ordine e quelli che in questi decenni hanno avuto bisogno di un crescente uso del debito pubblico per arginare crisi e stagnazione. Senza dimenticare che di questo uso dell’indebitamento hanno avuto vantaggi indiretti, ma sempre vantaggi, anche le formiche. Si pensi al caso greco e al salvataggio delle banche franco-teutoniche, ma più in generale alla tenuta della domanda interna nell’Unione.

Il compromesso, dunque, è tra due istanze. La prima quella improntata al rigore e alla paura di pagare un debito prodotto da altri, con il rischio di un azzardo morale nella spesa pubblica, cioè che governi spendano senza controllo (magari in spesa corrente) per poi condividerne il conto con paesi più morigerati.
E la seconda che arranca nei conti pubblici. Dove ogni crisi si siede sulla precedente, aumentando il debito, anche in virtù delle necessità di salvataggio del sistema finanziario privato che ha determinato l’assorbimento nel pubblico di un pezzo importante di debito privato. I salvataggi dal 2008 in poi non hanno prodotto, però, alcuna inversione di rotta, anzi il ristagno economico si è consolidato. Con il risultato che se alla fine degli anni Novanta l’Italia era un’anomalia nel superare significativamente il 60% nel rapporto debito/Pil, oggi questa anomalia si è assai diffusa anche oltre i confini dell’Unione. Stati uniti, Giappone, Regno unito sforano tutti il 100% nel rapporto debito/Pil, e anche la Cina sta rapidamente recuperando in questa speciale classifica sfiorando l’80% nel 2022. Insomma, l’anomalia italiana non è tornata alla «normalità», mentre il mondo e un bel pezzo di Europa si è italianizzato.

L’austerity non ha funzionato: viva l’austerity! 

Nei compromessi tutti si dicono soddisfatti e al contempo insoddisfatti.
Sulla carta si passa da una riduzione del debito annuale di 1/20 di quello accumulato, diffusamente ritenuta irrealistica, a piani più moderati e concordati sulla base del contesto socio-economico in via di affermazione. Flessibilità dunque. Le stesse multe, chiamiamole così, per un paese che non osservasse le nuove regole sarebbero pari allo 0,05% del proprio Pil. Va detto che nelle 114 violazioni del Patto registrate dal 1999 al 2016 a nessun paese è stata comminata una multa.

Ora si tratta di capire se il nuovo Patto sarà applicato alla lettera.
In tal caso, Massimo Bordignon fa notare come sarebbe peggiorativo per i paesi maggiormente indebitati rispetto alla versione originaria e a una prima bozza ipotizzata dalla Commissione europea. Il percorso, infatti, sarebbe più stringente, sottoposto a verifica annuale anziché al suo termine, dovrebbe prevedere regole comuni per ogni paese, il vincolo del disavanzo sarebbe più gravoso, in quanto alla fine dovrebbe scendere al di sotto dell’1,5%, che per l’Italia significherebbe un avanzo primario pari al 2,5-3% del Pil. In sostanza la Commissione dovrebbe seguire «l’evoluzione della spesa primaria netta per verificare l’attuazione del piano». Che in definitiva è quel che intende il ministro delle finanze tedesco Christian Linder quando afferma che «le vecchie regole sono rigide sulla carta, ma non nell’applicazione”.

Ma immaginiamo che non mancheranno criteri di ordine squisitamente politico per far valere deroghe e discostamenti. D’altronde stiamo vivendo una fase che è stata definita di policrisi. In tal senso questo compromesso seriverebbe perlomeno a ribadire che delle regole ispirate a principi austeritari rimangono, che la spesa non può essere fuori controllo e, forse, che i fondi del Ricovery per ora restano un’eccezione emergenziale e non c’è alcuna mutualizzazione del debito all’orizzonte.

Da questo punto di vista, l’austerità non era mai scomparsa dalle politiche europee come prospettiva di fondo. Anche nel profondo della pandemia paesi come l’Italia se da un lato si indebitavano tanto, dall’altro avevano il freno dei conti pubblici disastrati. La prossima crisi vedrà costretti molti paesi ad adoperare nuovamente sul fronte del deficit, ma con a monte un debito sempre più grande. Questo problema non può sfuggire. Insomma, viva l’austerity! all’unanimità, una linea che non ha funzionato e che non funzionerà.

Che fare?

Se l’austerità non era mai scomparsa, oggi non possiamo considerare epocale il presunto ritorno dell’austerità. Certo tornano in vigore delle regole che peseranno politicamente, ma i criteri e gli obiettivi che si danno non sono stati rispettati da tre decadi. Si dirà che in mezzo ci sono state molte emergenze, crisi economiche, sanitarie, geopolitiche, ma cosa può far pensare che non ce ne saranno altre?  I debiti pubblici, nel medio periodo, continuano ad accumularsi, i debiti privati restano alti mentre la crescita forte che dovrebbe ridurli non è data. È questo il paradosso dell’austerità: totalmente inefficace sull’indebitamento e nel generare crescita, ma capace di favorire la polarizzazione dei redditi e delle ricchezze.

Anche l’inflazione, che aveva dato una mano ai conti pubblici, lo ha fatto solo in cambio di un ulteriore vantaggio per i profitti e per la rendita, e oggi rallenta.  La strutturalità dei debiti, dunque, viene confermata. È dentro l’attuale  modello economico, produttivo e di consumo, che genera bassa crescita e forte indebitamento privato e pubblico, che andrebbero cercate le cause di questa tendenza.

A questo livello andrebbe affrontata una discussione, partendo da una semplice constatazione: l’ascesa dei debiti pubblici non è il risultato della crescita delle politiche sociali, ma l’espressione delle contraddizioni di un modello economico che in trent’anni ha enormemente polarizzato le ricchezze e i redditi. In questi ultimi decenni di economia a debito ci sono fasce sociali che hanno accresciuto rendite di posizione, altre che si sono impoverite in termini relativi e assoluti. Le prime dovrebbero iniziare a pagare il conto.

La funzionalità dell’indebitamento va soppesata, va compreso chi davvero ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità e chi no. Il tema, per giunta, è globale e non si risolve con un sovranismo da campagna elettorale. Far pagare chi ha di più risolverebbe tutti i problemi? Certamente no, ma sarebbe l’inizio di un’inversione di prospettiva che punti a superare l’attuale modello di accumulazione ingiusto e inefficiente.
A dispetto di quel che dice Giorgetti, la discussione dovrebbe partire da qui.

(*) Tratto da Jacobin Italia.

Marco Bertorello e Danilo Corradi collaborano con il manifesto. Insieme hanno pubblicato Capitalismo tossico (Alegre, 2011) e Lo strano caso del debito italiano (Alegre, 2023). Marco Bertorello lavora nel porto di Genova, Danilo Corradi insegna filosofia e storia nel liceo di Tor Bella Monaca di Roma.
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alexik

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