Levante: presentazione di un progetto
Levante
Presentazione del progetto di Monica Macchi e Susanna Sinigaglia
La cultura araba è mediterranea nell’essenza [1].
La storia della cultura mediterranea non solo prevede lo scambio, ma gli assegna una funzione di “creazione”. E in questo scambio creativo colgo ciò che perpetua l’essenza del Mediterraneo in quanto dimora comune…
Ogni volta che lo spirito poetico sembra compromesso, le lettere, le arti, le dottrine filosofiche, mistiche e scientifiche mi conducono verso un Mediterraneo di ospitalità [2].
Al contrario, il Mediterraneo odierno è diventato sempre più muro, frontiera invalicabile e cimitero per molti di coloro che cercano di attraversarlo.
Negli ultimi decenni, gli studi post-coloniali hanno recuperato – senza troppo successo sul piano delle pratiche politiche i cui fautori, anzi, li hanno osteggiati – l’esperienza del Levante inteso come archivio sonoro, visuale e letterario, di un Mediterraneo non ancora ingabbiato dai rigidi confini degli stati-nazione ma come spazio pluriverso.
Per riacquisire uno sguardo d’insieme che non sia schiacciato dalla drammaticità della contingenza, abbiamo pensato di recuperare un mosaico geopolitico e linguistico-culturale che ora ci arriva invece solo attraverso gli echi della politica spicciola.
Il “Levante” di cui parleremo non è quindi un’indicazione geografica identificabile o confinabile su una cartina ma un atteggiamento mentale che ha dato vita a contatti mercantili e culturali – con la creazione di forme architettoniche e urbanistiche comuni, tecniche e strumenti della produzione materiale e immateriale… – tra aree etnico-politiche-sociali diverse, caratterizzate dall’assenza di gerarchizzazione tipica invece delle logiche colonizzatrici.
Origine etimologica, storico-geografica e culturale, del termine
Da un punto di vista etimologico “Levante” indica la parte in cui si leva il sole, ossia l’Oriente (con una perfetta sovrapposizione semantica di Mashreq/Mizrach [3], e venne utilizzato nel lessico marittimo dal XIII secolo in poi per indicare il Mediterraneo orientale con cui francesi, italiani e spagnoli, avevano intensi scambi, traffici, interrelazioni e affari.
Da un punto di vista storico-geografico, con l’invasione araba della penisola iberica iniziata nel 711 s’inaugura quel processo che darà vita all’esperienza unica di al-Andalus-Sefarad [4] (l’Andalusia) con capitale Cordova, ricostruita a immagine e somiglianza di Baghdad, e alla formazione altrettanto unica di un Levante che si estende dalla penisola iberica fino alle pendici dell’India. Gli arabi musulmani iniziarono una fruttuosa convivenza di popoli, religioni, tradizioni culturali. Nel mondo da loro attraversato le minoranze, culturalmente preesistenti al loro passaggio, furono numericamente superiori: i tre grandi gruppi che stavano ai margini dei territori conquistati erano i berberi a ovest, i nubiani a sud e i curdi a est.
Trasportate dagli arabi, arrivarono le culture di Persia, Grecia, Egitto e le minoranze etnico-linguistiche che premevano ai confini del loro impero mixando tante culture, tante storie. Al-Andalus è stato il prototipo di un’università contemporanea che nasce in un territorio occidentale di un mondo antico; si spiega quindi perché in questa provincia continuarono ad arrivare (fino al 1300) rami culturali molto diversi e perché Al Andalus fu considerata un giardino dell’Eden, anziché una delle tante storie maledette originate dalle innumerevoli guerre.
Terminata la fase al-Andalus-Sefarad con la Reconquista conclusa da Isabella la Cattolica nel 1492 e la successiva espulsione di ebrei e arabi dai territori dominati dal regno di Spagna, l’esperienza del Levante proseguì negli altri paesi mediterranei e oltre; in particolare nel Maghreb, che veniva concepito come genti in transazione e non solo come territorio con le sue spartizioni politiche, un “Ovest del sole” in cui si parlavano dialetti che obbligano oggi a sostituire la nozione di identità etnica con la nozione di identità linguistica.
Questa continuità inizia a frantumarsi in seguito alle mire mercantili espansionistiche dei paesi europei a partire dalla fine del XVII secolo e alla penetrazione ottocentesca dei nazionalismi da parte dei paesi coloniali. Il crollo dell’Impero ottomano, i vari accordi fra le potenze europee che porteranno alla spartizione di Churchill del 1922, l’espansionismo sionista infersero dei colpi mortali all’idea e all’esistenza stessa del Levante.
Ha scritto Kamal Salibi: “Creare un paese è una cosa, creare una nazionalità è un’altra” [5] e il colonialismo delle potenze europee vittoriose (appena mascherato dal sistema dei mandati) ha disegnato a tavolino una mappa di stati già compromessi nella loro legittimità per loro stessa natura. Come tocco finale, il sionismo (che condivide col colonialismo lo spirito della “missione civilizzatrice”) fonda l’immagine divenuta iconica di ebrei e arabi come “antitetici e inconciliabili” cercando di oscurare completamente l’esperienza del Levante.
La ricostruzione: il Levante di Ammiel Alcalay
Fra i diversi studi sull’argomento notevole è il contributo di Ammiel Alcalay, che ricostruisce questo spazio alla luce degli eventi post guerra del 1948 le cui conseguenze si dispiegano ancora, nella loro drammatica attualità, sulle vicende mediorientali odierne. Scrive Alcalay:
Con la formazione della cultura andalusa classica nella Spagna del decimo secolo, e la sua conseguente influenza su tutto il Levante inteso in senso lato (che comprenderebbe il Portogallo, la Spagna, la Francia meridionale e l’Italia, i Balcani, la Grecia, la Turchia, l’Iran, l’Iraq, lo Yemen, la Siria, il Libano, Cipro, Israele/Palestina, l’Egitto, il Marocco, la Tunisia, l’Algeria, la Libia e anche alcune parti dell’Africa occidentale e dell’India), anche la creatività ebraica si dilatò, a volte al traino di altri, a volte all’avanguardia. E fu così fino alla completa o parziale dissoluzione di queste comunità ebraiche sefardite, levantine, ottomane, arabe e persiane con il loro trasferimento in massa in Israele negli anni ’50 [6].
Infatti lo spazio del Levante che Alcalay prende in considerazione “è inquadrato da due blocchi di tempo, punti limite di ogni lato. Il primo prende in considerazione grosso modo un periodo di sessant’anni, dagli anni ‘30 agli anni ’90 del novecento, un tempo in cui la maggior parte degli elementi del conflitto in Palestina hanno assunto caratteristiche piuttosto rigide…” [7]. L’altro punto è caratterizzato da due eventi letterari: la prima traduzione della Bibbia in arabo [8] e la comparsa nella poesia ebraica, durante il decimo secolo, di metrica, forme e temi arabi. In questo periodo giunge anche a compimento il “processo di trasformazione degli ebrei da popolazione primariamente contadina a popolazione principalmente urbana”.
Attenendomi a questi due punti – contrassegnati, particolarmente, da una parte (pressappoco nel 965) dalla comparsa della famosa canzone del vino di Dunash [9] e, dall’altra, dalla comparsa (nel 1951) delle lamentazioni yemenite [10] –, ho indicato un lasso di tempo entro cui (con alcuni prima e dopo) esiste una certa fluidità. La mia unica giustificazione per questa scelta è decisamente storica: gli ebrei hanno vissuto e lavorato, erano insediati e prosperavano da un capo all’altro di quest’area per tutto il periodo in questione durato, pressappoco, un migliaio di anni [11].
Non a caso Alcalay indica in tre eventi letterari i fattori che forniscono una chiave fondamentale di lettura dei due blocchi da lui indicati: arte, poesia e cultura appartengono alla struttura del Levante, recuperando la quale si potrebbero forse cambiare i paradigmi d’interpretazione delle dinamiche geopolitiche in corso. In tutta la sua opera hanno un ruolo fondamentale i riferimenti alla letteratura, cartina di tornasole degli accadimenti storici. Per questo proponiamo d’inaugurare il nostro progetto con la pubblicazione di ampi stralci del lavoro di Alcalay.
NOTE BIOGRAFICHE
Monica Macchi
Laureata in Scienze politiche, vive e lavora a Milano come docente di italiano L2 e mediatrice culturale, traduttrice e redattrice. Socia fondatrice di Formacinema e curatrice della sezione “Tahrir Square” sul cinema mediorientale, collabora anche con Pacta Teatri dove ha ideato, diretto e presentato gli spettacoli “Herstory. Parole di donne dalla rivoluzione egiziana”, “Quelle p(i)azze delle madri” e “Herstory2: Regeni e gli altri”, tutti inseriti nel progetto DonneTeatroDiritti. Ha inoltre partecipato in qualità di relatrice a vari convegni e seminari in Università Bicocca e allo IULM.
Susanna Sinigaglia
La sua traduzione di After Jews and Arabs. Remaking Levantine Culture s’inserisce in un lungo lavoro di ricerca iniziato nel 2004 (la fine della seconda intifada risale al 2005) che ha prodotto due raccolte di saggi di autori diversi quasi tutti di origine arabo-ebraica: Ebrei arabi: terzo incomodo? pubblicato nel 2012 da Zambon Editore e Israele/Palestina/Medioriente: una prospettiva etnostorica, pubblicato nel 2016 sempre dallo stesso editore [12]. Laureata in sociologia, vive e lavora a Milano come redattrice, traduttrice e pubblicista. Ex attivista della Rete ebrei contro l’occupazione e studiosa del conflitto israelopalestinese, ha partecipato in qualità di relatrice a vari incontri e seminari l’ultimo dei quali organizzato a Milano nel giugno 2019 dai gruppi consiliari di Milano in comune e Milano progressista e dall’associazione Parallelo Palestina. Dal 2015 collabora con il gruppo Casa per la pace, che organizza ogni anno un viaggio di conoscenza in Israele e nei Territori palestinesi occupati, per quanto riguarda la formazione dei volontari.
Per eventuali contatti scrivere a: mncmcch@gmail.com, sinigsus@gmail.com
[1] Mohammed Bennis, Il Mediterraneo e la parola. Viaggio, poesia, ospitalità. Donzelli Editore, Roma 2009, pp. 3-4.
[2] Ibid., p. 12.
[3] Mashreq è il termine arabo e Mizrach è il termine ebraico.
[4] Al-Andalus indica la Spagna musulmana mentre Sefarad quella ebraica.
[5] Kamal Salibi, A house of many mansions. The History of Lebanon Reconsidered. I. B. Tauris, Bloomsbury Publishers, Londra 1988.
[6] Ammiel Alcalay, After Jews and Arabs. Remaking Levantine Culture. University of Minnesota Press, Minneapolis-Londra 1993, “Introduction”, p. 21. Titolo provvisorio in italiano, “Sulle tracce di ebrei e arabi. Ricostruire la cultura del Levante”, in via di traduzione.
[7] Alcalay, After Jews and Arabs, cit., “Introduction”, pp. 27-28.
[8] Da parte di Sa’adia Gaon (882-942), un grande rabbino egiziano che operò in Egitto e Babilonia.
[9] Il primo poema laico in ebraico scritto da Dunash Ben Labrat (920-970), nato in Spagna, che fu uno degli ultimi allievi di Sa’adia Gaon a Baghdad. È considerato il fondatore della poesia ebraica spagnola.
[10] Poesie scritte nei campi di transito israeliani, con cui ebbero inizio le nuove divisioni etniche e di classe che avrebbero caratterizzato la vita in Israele degli ebrei di Levante.
[11] Alcalay, After Jews and Arabs, cit., “Introduction”, p. 28.
[12] Di entrambi i lavori esiste la versione inglese reperibile sul sito di Academia.edu con il titolo, rispettivamente, di Arab Jews: The Odd Man Out in the Israeli-Palestinian Equation e Israel/Palestine/Middle-East: An Ethno-Historical Perspective.
È un’analisi molto interessante e da conto di come i nazionalismi, frutto della modernità occidentale, poi esportati anche nel medioriente, abbiano distrutto una civiltà. Certo che poi sia il sionismo che il nazionalismo arabo abbiano avuto delle ragioni forti che derivavano dalle loro rispettive storie tragiche è un fatto, ma è anche un fatto che, sotto la spinta degli imperialismi prima coloniali e poi neo o post coloniali, la loro carica negativa, bellicista è prevalsa come unica dimensione. Riattivare, o anche solo cominciare col ricordare la civiltà del dialogo è un impegno ineludibile del nostro tempo.
grazie andrea. cercheremo di affrontare nella prossima pubblicazione quest’importante aspetto della vicenda storica.
Un’analisi molto interessante che meriterebbe uno scenario più ampio. Due aspetti tuttavia necessitano essere stemperati ed un po’ demistificati: “il mito di al-Andalus” e della sua “convivencia”; qui nell’accademia spagnola si parla dell’argomento da decenni e come sempre è la via media quella maggiormente prossima alla realtà storica. Il secondo aspetto ad esso relazionato è quello sulla violenza che anche nel mito di “al-Andalus” è stata ben presente e che a fasi alterne, prima della fine della Reconquista e dell’epurazione religiosa dell’inquisizione, ha colpito questa terra di “latte e miele”.
Ciononostante è importante sottolineare che l’impatto del nazionalismo di matrice europea è molto più recente rispetto a quello del dominio coloniale culturale ed economico, quasi una successiva conseguenza. La nobiltà europea del secolo XVIII e la borghesia imprenditoriale del XIX erano “nazionaliste” in un senso diverso da quello delle masse popolari della prima metà del XX secolo. Se a mio avviso il Sionismo deriva da entrambe, considerando l’integrazione culturale assoluta dell’elité guidaica nell’Europa occidentale dei secoli XIX-XX, il nazionalismo arabo è una ulteriore reazione al colonialismo europeo e al Sionismo ebreo che impatta solo ad inizio del secolo XX e alla fine del XIX nell’elite dell’impero Ottomano. Un’ ultimo pensiero, Salibi ha perfettamente ragione: creare un paese a tavolino è una cosa, plasmare una nazione necessità altro e soprattutto tempo, rimando sempre alla famosa frase di Massimo d’Azeglio: “adesso che abbiamo fatto l’Italia, dobbiamo fare gli italiani”; tuttavia, a prescindere dalla derive sovraniste di quel o quell’altro paese, la vecchia Europa sta culturalmente andando verso una nuova dimensione “mediterranea” dove le epurazioni dell’epoca moderna non possono più essere messe in atto se non attraverso oscene visioni apocalittiche.
ciao marco, grazie mille per il tuo commento-contributo. mi chiedo se tu abbia avuto il tempo di leggere anche la seconda pubblicazione, quella sulla nascita dei nazionalismi, e il tuo commento comprenda quindi entrambe o se ti riferisca solo alla presentazione del progetto… in ogni caso, cercherò di aggiungere qualche osservazione i prossimi giorni
Caro Marco, ti rispondo – un po’ in ritardo – riportando un brano ancora tratto dal libro di Ammiel Alcalay, che ci aiuta a seguire il filo del discorso. Lo scrittore vi cita Beniamino da Tudela, grande viaggiatore ebreo spagnolo. Intorno al 1160, Beniamino intraprese un viaggio durato circa tredici anni che, fra l’altro, lo portò a Damasco di cui descrisse così la Grande moschea nel suo Libro di viaggi:
Vi è un muro di cristallo di fattura magica con aperture in sequenza secondo i giorni dell’anno e, man mano che i raggi del sole penetrano in ognuna durante lo scorrere del giorno, segnano l’ora con l’ausilio di un quadrante graduato. Nel palazzo si trovano camere d’oro e vetro e se i visitatori camminano intorno al muro, possono vedersi l’un l’altro anche se ne sono separati.
Alcalay osserva che quanto vide Beniamino corrisponde esattamente alla figura che Jacqueline Kahanoff, scrittrice ebrea egiziana vissuta negli anni centrali del ‘900, scelse per comunicare la sua percezione del Levante nella Prefazione di From the East the Sun, una raccolta di saggi: “Un prisma le cui varie facce sono congiunte dal bordo affilato delle differenze ma dove ognuna, secondo la sua collocazione in un continuum spaziotemporale, riflette o rifrange la luce” . Secondo Alcalay: “L’immagine di persone che passeggiano intorno a mura attraverso le quali riescono tuttavia a vedersi l’un l’altra resta una delle metafore più calzanti del modo in cui le molte eterogenee comunità del Levante preindustriale si conoscevano e si relazionavano. Per gli ebrei, la poetica di questa conoscenza certamente durò quanto durarono le comunità: ossia fino alla metà del ventesimo secolo, malgrado i profondi scismi e cambiamenti nei rapporti di potere che portarono alla dispersione e al trasferimento di quelle comunità entrate nell’era moderna proprio ai tempi della Rivoluzione francese”.
In sintesi, con i nostri scritti non vogliamo certo sostenere che non ci furono conflitti fra comunità in El-Andalus o più tardi nel Levante in generale. Tuttavia bisogna osservare che per gli ebrei:
– L’esperienza di El-Andalus viene citata come l’Età dell’oro e non si registrarono loro fughe di massa dalla Spagna o dal Portogallo verso altri paesi fino alla grande cacciata del 1492 operata da Isabella la Cattolica.
– Quest’esperienza si trasmise a tutto il Levante, si radicò come cultura e approccio che regolava i rapporti fra individui e comunità. Malgrado sotto alcune dinastie – come quella degli almohadi – vi furono intolleranze e persecuzioni, non riguardarono però solo gli ebrei ma anche i cristiani e non provocarono in ogni caso esodi di massa né dalla penisola iberica né dai paesi arabi.
Immagino che per queste ragioni, molti scrittori ebrei di origini arabe come la stessa Kahanoff o Jabès o Derrida o Hélène Cixous, scrittrice ebrea algerina, riferendosi al mondo che si erano lasciati alle spalle ne parlano come di una perdita irrimediabile, un paradiso smarrito per sempre.