«Levante»: progetto di Monica Macchi e Susanna Sinigaglia
Intermezzo
Il Levante-prisma di cristallo: una metafora che ha attraversato i secoli
Questo post nasce in risposta a un commento lasciato da Marco Demichelis [1] relativo alla presentazione del progetto “Levante”, pubblicato in Bottega nel giugno scorso (https://www.labottegadelbarbieri.org/levante-presentazione-di-un-progetto/#comments). Poiché la risposta è abbastanza articolata, abbiamo pensato di farne un post per proporre altri elementi utili alla costruzione e comprensione del progetto stesso.
Un brano tratto dal libro di Ammiel Alcalay – After Jews and Arabs – cui abbiamo fatto riferimento sia nella presentazione sia nell’articolo che ne è seguito, sui nazionalismi e in particolare sul nazionalismo ebraico (https://www.labottegadelbarbieri.org/?s=levante+nascita+dei+nazionalismi) pubblicato in Bottega a dicembre, ci aiuta ancora a seguire il filo del discorso. Lo scrittore vi cita Beniamino da Tudela, grande viaggiatore ebreo spagnolo. Intorno al 1160, Beniamino intraprese un viaggio durato circa tredici anni che, fra l’altro, lo portò a Damasco di cui descrisse così la Grande moschea nel suo Libro di viaggi:
Vi è un muro di cristallo di fattura magica con aperture in sequenza secondo i giorni dell’anno e, man mano che i raggi del sole penetrano in ognuna durante lo scorrere del giorno, segnano l’ora con l’ausilio di un quadrante graduato. Nel palazzo si trovano camere d’oro e vetro e se i visitatori camminano intorno al muro, possono vedersi l’un l’altro anche se ne sono separati [2].
Alcalay osserva che quanto vide Beniamino corrisponde esattamente alla figura che Jacqueline Kahanoff, scrittrice ebrea egiziana vissuta negli anni centrali del ‘900, scelse per comunicare la sua percezione del Levante nella Prefazione di From the East the Sun, una raccolta di saggi: “Un prisma le cui varie facce sono congiunte dal bordo affilato delle differenze ma dove ognuna, secondo la sua collocazione in un continuum spaziotemporale, riflette o rifrange la luce” . Secondo Alcalay: “L’immagine di persone che passeggiano intorno a mura attraverso le quali riescono tuttavia a vedersi l’un l’altra resta una delle metafore più calzanti del modo in cui le molte eterogenee comunità del Levante preindustriale si conoscevano e si relazionavano. Per gli ebrei, la poetica di questa conoscenza certamente durò quanto durarono le comunità: ossia fino alla metà del ventesimo secolo, malgrado i profondi scismi e cambiamenti nei rapporti di potere che portarono alla dispersione e al trasferimento di quelle comunità entrate nell’era moderna proprio ai tempi della Rivoluzione francese” [3].
In sintesi, con i nostri scritti non vogliamo certo sostenere che non ci furono conflitti fra comunità in al-Andalus o più tardi nel Levante in generale. Tuttavia bisogna osservare che per gli ebrei:
– L’esperienza di al-Andalus viene citata come l’Età dell’oro e non si registrarono loro fughe di massa dalla Spagna o dal Portogallo verso altri Paesi fino alla grande cacciata del 1492 operata da Isabella la Cattolica.
– Quest’esperienza si trasmise a tutto il Levante, si radicò come cultura e approccio che regolava i rapporti fra individui e comunità. Malgrado sotto alcune dinastie – come quella degli Almohadi [4] – vi furono intolleranze e persecuzioni, non riguardarono però solo gli ebrei ma anche i cristiani e non provocarono in ogni caso esodi di massa né dalla penisola iberica né dai paesi arabi.
Immagino che per queste ragioni, molti scrittori ebrei di origini arabe come la stessa Kahanoff o Jabès o Derrida o Hélène Cixous, scrittrice ebrea algerina, riferendosi al mondo che si erano lasciati alle spalle ne parlano come di una perdita irrimediabile, un paradiso smarrito per sempre.
[1] Marco Demichelis ha scritto vari libri fra cui Storia dei popoli arabi – Ananke, Torino 2013 – e, suo ultimo, Violence in Early Islam: Religious Narratives, the Arab Conquests and the Canonization of Jihad: Marco Demichelis: I.B. Tauris (bloomsbury.com). Attualmente è ricercatore presso l’Università della Navarra, in Spagna.
[2] L’edificio della Grande moschea di Damasco, costruita nell’VIII secolo dagli Omayyadi, venne completamente rivestito di marmi e mosaici in pasta vitrea con conchiglie e madreperle inserite sul fondo oro. Forse è a questi che si riferisce Beniamino da Tudela quando parla di “muro di cristallo”.
[3] Ammiel Alcalay, After Jews and Arabs. Remaking Levantine Culture. University of Minnesota Press, Minneapolis-Londra 1993, capitolo 2, pp. 119-120.
[4] Gli Almohadi (“gli unitari”, “gli attestatori dell’unicità di Dio”) furono un movimento religioso e una dinastia berbera di fede musulmana, che emerse in opposizione agli Almpravidi e governò su una parte del Maghreb e sulla Spagna musulmana dal 1147 al 1269 [tratto da Wikipedia].