Libertà di viaggiare o costrizione?
Accordi, disaccordi e riflessioni di Giuliano Spagnul su «Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo», l’ultimo libro di Marco D’Eramo (*)
Nel suo ultimo libro Il selfie del mondo1 Marco D’Eramo pronostica un futuro in cui si interrogheranno su “che cosa esattamente consistesse quell’attività che noi chiamiamo turismo” facendo il verso al Foucault che adombrava la stessa sorte per la follia. Il sottotitolo Indagine sull’età del turismo allude alla tesi di fondo del libro: “se il turismo definisce un’intera epoca, la nostra, allora quest’era, come tutte le ere, ha avuto un inizio e avrà una fine”; da qui la sensazione che più che un’indagine sulla contemporaneità, sui mali del turismo e sul cosa fare per (se non proprio eliminarli) attenuarli, all’autore preme di più capire quale futuro ci aspetti una volta che la macchina industriale del turismo abbia cessato di macinare a modo suo quelle esigenze, quei bisogni e quella “fame di mondo” che di volta in volta le storiche invenzioni umane vanno a soddisfare. Potrebbe essere definita una guida turistica all’età del turismo, un manuale per districarsi fra i luoghi comuni, i pregiudizi e anche i “razzismi” che imperversano ogni volta che si ha a che fare con questo particolare mondo; che si abbia a che fare coi turisti o si sia noi stessi turisti.
La labilità delle distinzioni fra turista e viaggiatore, o dei confini fra turisti e migranti; nella realtà tutto si interseca e si sovrappone. E l’industria di questo settore – settore mondo – prospera.
Un libro ricchissimo; D’Eramo ci parla dell’urbanicidio delle nostre città spogliate del proprio tessuto abitativo e consacrate alla disneylandizzazione imperante; della legittimazione ideologica di un turismo da rapina che si nasconde dietro l’etichetta UNESCO; dello zooning, quella pianificazione urbanistica “fatta su un piano regolatore con lo scopo di attribuire a ogni funzione e a ogni individuo il suo giusto posto”2 (Le Corbusier). Ma ecco ancora il tema dell’autenticità e del falso autentico, vero ossimoro che si sta imponendo a forza (apparentemente sfidando ogni logica) nella realtà; e il selfie, “insopprimibile bisogno di confermare la propria esistenza, di lasciare un documento di sé, una traccia del proprio heideggeriano esserci nel mondo (esserci alla piramide di Cheope, al Tay Mahal), un ansia di rassicurarci sul fatto che la nostra esistenza non è una bufala, una fola al vento, ma che siamo davvero: il selfie fotografa una tale incertezza di sé da dare il magone”.
E qui smettiamo di spulciare il libro perché proprio con Heidegger possiamo cominciare a vedere ciò che non ci convince appieno e forse quel qualcosa che un po’ urta in questo libro (grazie a questo libro).
In un libretto scritto nel 1962 – Soggiorni. Viaggio in Grecia – Heidegger si interroga e scrive:“…il mondo della tecnica e dell’industria nata con il concorso della scienza crea possibilità sempre nuove, possibilità che vanno aumentando in maniera sempre più rapida e grazie alle quali l’uomo moderno si sente di casa dappertutto? In questo modo, chi parlasse di perdita della patria (Heimatlosigkeit) verrebbe accusato di menzogne e le sue parole sarebbero considerate la fuga in un vuoto romanticismo. E se invece questo esser-di-casa (Zuhause)privo di un radicamento, garantito soltanto dalla tecnica e dall’informazione, avesse rinunciato a cercare una patria, per accontentarsi soltanto di una smania illimitata di viaggiare?”3 . La rinuncia a cercare qualcosa che non sta fissa nella storia dell’uomo: una patria, una casa, in ultima istanza quella nicchia ecologica che sta alla base e fonda l’esistenza di qualunque specie animale, tranne la specie animale homo sapiens: “la specie più migrante ed espansiva: è partita dall’Africa e ha finito per abitare ogni angolo del pianeta, senza fermarsi dinnanzi agli oceani sterminati, ai deserti più torridi o ai ghiacciai perenni, alle pressioni atmosferiche più schiaccianti delle montagne o dei fondali marini, all’isolamento insulare più assoluto o al più nevrotizzante degli affollamenti urbani”.4 Grazie alla tecnologia (la cui espressione più potente è il linguaggio) l’uomo non è costretto a vivere in un determinato territorio con le caratteristiche ambientali a lui più favorevoli, non ha limiti, può (ma è anche costretto) a vagare all’infinito, sempre oltre la prossima collina. È una fame che più che alla curiosità (il cosiddetto bisogno di conoscere) è più vicina a quella fame descritta da Kafka nel racconto Il digiunatore, come ci racconta bene Giuliano Baioni: “Nella gabbia del digiunatore (…), nella quale egli ha potuto distruggere se stesso e lo ha potuto fare senza sforzo perché il mondo era per lui del tutto privo della seduzione del cibo, viene messa una pantera che porta nel suo nobile corpo che scoppia di vitalità, quella libertà che l’asceta ha invano cercato. Libera, gioiosamente libera è infatti la pantera dentro la gabbia perché essa porta la libertà tra i denti e i suoi denti trovano nella gabbia tutto il cibo che possono divorare. Certo che l’asceta kafkiano è libero, ma la sua è in definitiva soltanto la libertà dell’assurdo”5 . Quelle che noi leggiamo come costrizioni nelle altre specie animali non sono in realtà più costrittive delle nostre presunte libertà. La nostra libertà di viaggiare è in realtà una libertà senza altro significato di quello che di volta in volta riusciamo a inventarci, inautentico sempre e comunque per definizione. Se non partiamo da queste premesse, credo che qualunque indagine sulla realtà (che giustamente D’Eramo vuole col suo lavoro evidenziare complessa) globale del turismo rischi di rimanere intrappolata fra la sterile condanna dei suoi effetti più stupidi e distruttivi e quella di chi “si sdegna” per dimostrare la propria superiorità individuale (e comunque inevitabilmente classista). Ma non coglie il problema, che è umano e a cui il capitalismo ha solo dato quel tipo particolare di forma; muterà di nuovo ma non finirà (se non con l’estinzione della specie). Quello che allora occorrerebbe indagare è non tanto se questo fenomeno sia lo specchio di una società: “il turismo funziona come qualunque altra pratica sociale gerarchizzata, opera da specchio, o da lente d’ingrandimento della società, perché è il campo in cui più sono visibili i processi che comunque si ripresentano sempre, ma che negli altri campi non generano né stupore né riprovazione”, cosa verissima ma che in un qualche modo sappiamo già. Servirebbe piuttosto capire le motivazioni vere di tutto questo, non ideologiche o presunte profonde, ma quelle più di superficie, che riguardano la nostra specie animale la quale ha sviluppato una particolare caratteristica naturale che noi definiamo culturale. È uno sguardo più umile quello di cui noi oggi necessitiamo, che sappia provare al contempo pietà, orrore e ammirazione per ciò che siamo e per quello che produciamo. Siamo tutti “turisti” su questo pianeta; se dobbiamo combattere il turismo per i danni che esso produce lo faremo, ma consci che stiamo confliggendo non contro semplici ideologie, sovrastrutture ma autentici bisogni umani, prodotti casuali della nostra evoluzione, i quali assumono la configurazione storicamente resasi necessaria. Lo sguardo consapevole e dotto di fronte alla Cappella Sistina, per quanto ci sia difficile ammetterlo, non diverge qualitativamente da quello del fotografo compulsivo distratto; ambedue assolvono a bisogni precisi. Non c’è una visione distorta voluta da un’ideologia che vuole l’ignoranza diffusa. La partita quella vera, per il potere, si gioca da tutt’altra parte. Non è acculturando le masse alla nostra presunta cultura superiore che si combatte il potere, piuttosto è rendendoci capaci di ascoltare, di leggere quello che c’è in ogni cultura bassa, alta, mercificata, nobile o comunque la si voglia definire. Se solo sapessimo farlo!
NOTE
- Marco D’Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo, Feltrinelli (Campi del sapere), Milano, 2017.
- Sull’imparare a stare al posto giusto, quello che si presume la “società” abbia assegnato ad ogni individuo fin dalla sua nascita, si può vedere lo splendido film di Ernst Lubitsch Fra le tue braccia (1946). Il mio commento qui: https://www.labottegadelbarbieri.org/45573-2/
- Martin Heidegger, Soggiorni, Viaggio in Grecia, Guanda, Parma, 1997, p. 43.
- Antonino Pennisi, Alessandra Falzone, Il prezzo del linguaggio, Il Mulino, Bologna, 2010, p. 262. Vedi la lezione di Antonio Caronia https://www.labottegadelbarbieri.org/linguaggi-biologia-umani-e-altre-stranezze/
- Giuliano Baioni, Kafka. Romanzo e parabola, Feltrinelli (Campi del sapere), Milano, 1997, p. 281.
(*) in bottega cfr Viaggiare, così fan tutti, intervista di db a D’Eramo, e il successivo post di Francesco Masala “Il selfie del mondo” – Marco d’Eramo