Liliana Segre. E non solo
Riflessioni di Sergio Sinigaglia e di Carmelo Palma. Doriana Goracci ricorda Z5742 cioè Karl Stojka
Quello che ci dice la vicenda Segre
«Tu senza odio hai fatto la cronaca senza retorica di Auschwitz, hai descritto quello che anche io avevo visto schiacciata dalla nostalgia, dalla fame, dalla solitudine…». E ancora: «tu avevi capito, resta allora soltanto la memoria, sempre più difficile farsi capire dalle nuove generazioni, ma compito irrinunciabile finché avrà vita l’ultimo testimone».
Sono brani del testo che Liliana Segre ha scritto per l’introduzione de “I sommersi e i salvati” di Primo Levi di prossima uscita nella versione audio-libro. Come è noto la senatrice a vita, sopravvissuta ai lager nazisti, da alcuni giorni è sotto scorta in seguito al crescente diluvio di minacce arrivate da marmaglia varia sui social e non solo. Una vicenda estremamente emblematica, corollario allo stillicidio di aggressioni razziste, intemperanze verbali di cui da tempo sono vittime un po’ in tutte le zone della penisola persone di origine straniera, rappresentanti delle comunità di immigrati, e coloro che sono al loro fianco. Una canea razzista e xenofoba che ormai ha contagiato una parte consistente dei nostri concittadini, e che ha stabilmente espressione elettorale nei sempre più consistenti e crescenti consensi riversati verso la Lega salviniana. Ecco perché quell’immagine dell’anziana scampata allo sterminio nazista, sottobraccio ad uno dei carabinieri della scorta, ci fa rabbrividire e non può essere assolutamente sottovalutata. E’ l’immagine di un Paese, da sempre storicamente laboratorio e battistrada dei fenomeni più retrivi e reazionari.
Un Paese dove le radici del lontano ventennio fascista sono strutturalmente radicate e hanno attraversato la storia repubblicana. In queste settimane in occasione del cinquantesimo anniversario della strage di Piazza Fontana, sono usciti diversi volumi che ne ripercorrono la genesi e i suoi protagonisti, le sue vittime. Tra i felloni che dentro gli apparti dello Stato tramarono contro i movimenti e la democrazia, spicca quel Silvano Russomanno, uno dei pilastri dell’Ufficio Affari Riservati, vera e propria enclave eversiva, uno dei “cervelli” della strategia della tensione. Russomanno, scomparso pochi anni fa, presente nella stanza del quarto piano della Questura di Milano da cui “volò” Giuseppe Pinelli, è uno dei più autorevoli rappresentanti dei numerosi transfughi che dopo la caduta del fascismo si riciclarono nelle forze di polizia diventandone pedine rilavante. Stiamo parlando di un figuro che dopo l’otto settembre del 43 non scelse neanche la Repubblica Sociale, ma si arruolò direttamente nell’esercito nazista. Russomanno può essere considerato degno rappresentate dei tanti che trovarono spazio nei vari settori del Paese, civili e militari, migliore garanzia di una linea di continuità del cancro fascista, poi riemerso prepotentemente, con il berlusconismo, lo “sdoganamento” dei vari Fini, e il processo di revisionismo storico fattosi strada utilizzando vari strumenti, oltre che politici, soprattutto culturali; dai libri di Pansa, alle improbabili fiction. Per non parlare dei testi di storia a scuola. Questo nonostante la generosità intellettuale di singoli insegnanti e di chi come la Segre, e l’Associazione partigiani, hanno cercato di far capire alle nuove generazioni cosa sia stato il fascismo e di trasmettere i valori antifascisti, nonostante ci fosse il Violante di turno a cianciare sui «ragazzi di Salò».
Tale è il panorama che ci troviamo di fronte, con la prospettiva molto probabile di avere tra qualche mese Salvini al governo, questa volta come premier, dopo aver scaldato i motori al ministero dell’Interno. In questo contesto sono solo i movimenti sociali, il circuito associativo antirazzista e antifascista di base, a fare da baluardo, visto che quella che ancora continua a essere percepita come “sinistra” è la causa della situazione in cui ci troviamo, mentre la sua componente “radicale” è morta e defunta da un pezzo, dopo aver esplicitato tutti i cronici difetti della sua componente partitica.
Ecco perché sulle spalle dei movimenti ricadono responsabilità enormi e non ci si può permettere “distrazioni” di nessun tipo. In tal senso il silenzio che ha caratterizzato il circuito in questione di fronte alla questione Segre, non può essere taciuto. Quando razzismo e xenofobia si diffondono così profondamente nella società, l’antisemitismo, che cova sempre sotto le ceneri, esce alla luce, come possiamo constatare anche in altri parti d’Europa, Germania in primis. Non vorrei che la giusta avversione nei confronti di chi in Israele (governi e coloni, nel purtroppo crescente consenso di una buona parte dell’opinione pubblica) discrimina e uccide i palestinesi, e ha dato vita a una specie di apartheid, condizioni le reazioni e faccia da freno quando ad essere colpiti dal razzismo sono rappresentanti del mondo ebraico. Tra l’altro sui social capita di imbattersi nel microcosmo virtuale in minuscoli e insignificanti gruppi che in nome di un presunto “antisionismo”, fanno propri i peggiori luoghi comuni della storica propaganda antisemita. Pochi giorni fa in uno di questi, che tra l’altro si rifà a un nome glorioso dei movimenti degli anni Settanta a cui sono particolarmente legato, c’era un osceno riquadro all’interno del quale erano riportati i simboli dei vari partiti; sotto una stella di David a cui era sovrapposta una svastica e la scritta che più o meno diceva: «puoi votare chi ti pare ma a vincere sono sempre loro». Ogni commento su questa porcheria è superfluo.
In conclusione ci attendono ancora di più tempi difficili. Bisogna avere sempre la lucidità di non abbassare la guardia e saper intervenire tempestivamente per opporsi alla deriva politica, sociale e culturale in atto.
Sergio Sinigaglia
Il caso Segre, il canarino nella miniera della democrazia italiana
di Carmelo Palma (*)
Le minacce non sono tutte uguali e non basta una generica motivazione ideologica ad assimilare i casi e le vittime della violenza politica. Liliana Segre è il solo senatore a vita nominato dal Capo dello Stato (che non sia mai stato un esponente politico o una personalità di governo) a dovere girare, a 90 anni, scortata dai carabinieri. Non accade ai suoi colleghi Piano, Cattaneo e Rubbia. Matteo Salvini ha la scorta, come tutti i suoi predecessori al Viminale e come tutti i leader politici in carica.
Quando il segretario della Lega dice che «i cittadini sono tutti uguali» e quindi il caso della senatrice Segre non merita particolare né superiore scandalo, imbroglia le carte del discorso e riduce la violenza politica a una sorta di incidente atmosferico, un incerto del mestiere di chi accetta di non stare nascosto nel confortevole privato della propria casa e si avventura nella vita pubblica. Da molti punti di vista, Salvini ha ragione, nel senso che dà voce a un’opinione prevalente e diffusa, per cui nella contrapposizione tra politica e antipolitica, e tra Palazzo e Piazza, non si riconosce spazio né legittimità per ulteriori distinzioni.
Invece, è l’assoluta differenza con tutto il resto, con ogni altro movimento di Piazza e di Palazzo, a qualificare l’abnormità del “caso Segre”. Anche l’antisemitismo di cui la senatrice Segre è vittima ha qualcosa di specifico e non di generico. Anche in questo caso, il tentativo di ridurre l’antisemitismo a una malattia di cui tutti i ceppi si riducono ad uno e si mischiano (quello islamista, quello “antisionista”, quello nazifascista, quello tradizionalista-cattolico) non aiuta a comprendere, ma a equivocare la natura insieme eccezionale e paradigmatica delle violenze minacciate contro la senatrice a vita.
Liliana Segre è stata alla fine della propria vita riacciuffata dallo stesso incubo da cui, poco più che bambina, era miracolosamente scampata oltre settanta anni fa. Lo ha visto riaffacciarsi, in forma ovviamente aggiornata, ma somigliante all’originale, proprio quando la sua nomina a Palazzo Madama, per meriti di testimonianza e di memoria, l’ha costretta a fare cronaca e non solo storia di quel male irredimibile incistato nell’anima italiana e europea.
La senatrice Segre è entrata in “zona pericolo”, perfettamente documentata dall’esplosione dell’odio digitale, quando ha onestamente aggiornato il suo impegno di martire dell’odio che fu a testimone all’odio che è, dove la matrice antisemita è imbastardita con altre forme di pensiero discriminatorio (sessuali, etniche e religiose), che se non sembrano centrali nella dottrina hitleriana, furono comunque tutt’altro che marginali nella macchina dello sterminio (i “triangoli” rosa, viola, bruno e azzurro dei lager nazisti).
Nel testimoniare come l’odio fanatico contro gli ebrei fosse e sia politicamente consustanziale ad altre forme di pregiudizio etico-etnico-religioso la senatrice Segre si è giocata la rispettabilità sociale presso mondi – quelli della destra nazionalista – che sanno perfettamente di dovere ancora pagare pegno rispetto alla pagina delle leggi razziali del ’38, ma ritengono di potere, ebrei a parte, esibire un pensiero politico apertamente razziale e dunque inevitabilmente razzista.
La senatrice Segre non è insomma finita nel mirino perché è ebrea, ma perché ha fatto qualcosa di politicamente molto più scandaloso che rivendicare la propria identità di ebrea perseguitata. Ha rivendicato l’esigenza di contrastare oggi il risorgente antisemitismo e le forme di odio politico, che all’antisemitismo sono apparentate.
La senatrice Segre ha messo il dito nella piaga riaperta di un passato che è già ritornato e che non può essere stoccato, con il suo carico di rifiuti tossici, nei magazzini di una (mai esistita) memoria condivisa. I veleni e i miasmi sono nuovamente tra di noi. La scelta di uno strumento come quello della Commissione di inchiesta, che rischia sempre di sfociare nell’arbitrio di una storiografia di comodo, ha offerto agli odiatori un paradossale alibi libertario. Ma non è l’astensione del centro-destra nel voto a Palazzo Madama la pietra dello scandalo.
Lo scandalo non è neppure il “negazionismo” dell’odio politico, ma il fatto che esso sia un fenomeno di massa e di potere e sia diventato senso comune, alimento della frustrazione e dell’invidia sociale. In una parola: pensiero dominante, anche se travestito da resistenza all’egemonia del politicamente corretto. È l’egemonia culturale dell’odio nelle democrazie occidentali il problema negato e il caso della senatrice Segre è il canarino nella miniera della democrazia italiana, il segnale d’allarme di un’aria che si è fatta irrespirabile.
(*) ripreso da www.stradeonline.it
Chi conosce Karl Stojka
di Doriana Goracci
Ho visto in rete la foto di alcune righe scritte da un uomo: «Non sono stati Hitler o Himmler a deportarmi, picchiarmi, ad uccidere i miei familiari. Furono il lattaio, il vicino di casa, il calzolaio, il dottore, a cui fu data un‘uniforme e credettero di essere la razza superiore».
Ho letto che si trattava di tale Karl Stojka, ho voluto saperne di più dal momento che non lo conoscevo affatto. Le informazioni quasi non esistono in italiano ma quelle poche che ho trovato le riporto e condivido.
Gli Stojka e i suoi genitori, appartenevano ad una tribù zingara chiamata Lowara Roma, che tradizionalmente conduceva una vita nomade commerciando in cavalli, dal XIX secolo. Vivevano in un carro con il quale viaggiavano, ma trascorrevano gli inverni a Vienna, la capitale austriaca.
Gli antenati di Karl avevano cominciato a vivere in Austria duecento anni prima.
«Sono cresciuto libero, spostandomi continuamente e lavorando duro. Nel marzo 1938, eravamo accampati con il nostro carro in un campeggio di Vienna, per l’inverno, quando la Germania annetté l’Austria, poco prima del mio settimo compleanno. I Tedeschi ci ordinarono di non allontanarci. I miei genitori dovettero convertire il nostro carro in una casa di legno, ma io non ero abituato a vivere tra le pareti di una casa. Mio padre e mia sorella maggiore cominciarono a lavorare in una fabbrica e io cominciai ad andare a scuola.
Quando arrivò il 1943, tutta la mia famiglia era già stata deportata in un campo nazista a Birkenau, dove c’erano già migliaia di Zingari. Adesso vivevamo rinchiusi dal filo spinato. Quando giunse il 1944, solo 2.000 zingari erano ancora vivi; 918 di noi furono messi in un convoglio che andava a Buchenvald, ai lavori forzati. Una volta là, i Tedeschi decisero che 200 di noi non erano in grado di lavorare e li mandarono indietro, a Birkenau. Io ero uno di loro, perché pensavano fossi troppo giovane per lavorare. Mio fratello e mio zio, però, riuscirono a convincerli che avevo 14 anni, ma che ero un nano. Così restai. Tutti gli altri di coloro che furono costretti a tornare indietro, vennero uccisi con il gas».
Karl Stojka (nato il 20 aprile 1931 a Wampersdorf ,si spense il 10 aprile 2003 a Vienna ) era un artista austriaco e sopravvissuto al Porajmos dall’etnia« rom. Karl Stojka è nato nella roulotte come il quarto di sei figli di una famiglia rom cattolica. Alla fine del 1941 il padre di Karl Stojka fu assassinato nel campo di concentramento di Dachau, in seguito ci fu la deportazione della sua famiglia in altri campi di concentramento. Quando aveva undici anni, fu arrestato dai nazionalsocialisti e portato nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau.Più tardi Karl fu trasferito nel campo di concentramento di Flossenbrg. Venne liberato vicino a Roetz, in Germania, dalle truppe americane, il 24 aprile 1945. Dopo la guerra Karl ritornò a Vienna.
Stojka è stato derubato del suo nome e ha ricevuto il numero Z5742, che è stato tatuato nell’avambraccio sinistro: «Noi Rom e Sinti siamo come i fiori di questa terra. Ci possono calpestare, ci possono eradicare, gassare, ci possono bruciare, ci possono ammazzare – ma come i fiori noi torniamo comunque sempre». Suo fratello Ossi, sei anni, morì per mancanza di assistenza medica e fame, come riportato dallo stesso Karl Stojka: «Mio fratello Ossi non era un criminale, era un semplice bambino Rom». Ossi era il più piccolo, morirà di tifo il 18 maggio 1944.
Karl Stojka visse dopo la seconda guerra mondiale nelle stazioni in Austria e negli Stati Uniti. Nel 1985 iniziò a dipingere come autodidatta. Nelle sue foto, ha espresso la storia della vita come un Rom perseguitato. Ha anche esposto più di 80 opere in Giappone, Stati Uniti ed Europa. Stojka fu sepolto a Vienna nel cimitero di Meidlinger (gruppo 1, fila 7, numero 129).
Karl Stojka era il fratello di Ceija Stojka e Mongo Stojka, è il padre del musicista jazz Karl Ratzer.
Scrive Ceija Stojka: «Sono cresciuta libera, spostandomi continuamente e lavorando duro. Una volta, mio padre mi fece una gonna usando una vecchia tenda da giardino. Nel marzo 1938, quando la Germania annetté l’Austria, io avevo 5 anni e vivevamo, con il nostro carro, in un campeggio di Vienna, almeno per l’inverno. I Tedeschi ci ordinarono di non non lasciare il campo. I miei genitori dovettero convertire il nostro carro in una casa di legno e dovemmo imparare a cucinare con una vera cucina invece che su un fuoco acceso all’aperto.Gli Zingari erano obbligati a registrarsi come membri di un’altra “razza”. Il nostro campo venne recintato e posto sotto sorveglianza dalla polizia. Avevo 8 anni quando i Tedeschi portarono via mio padre; pochi mesi dopo, mia madre ricevette una scatola con le sue ceneri. Più tardi, i Tedeschi presero anche mia sorella, Kathi. Alla fine, ci deportarono tutti in un campo nazista destinato agli Zingari, a Birkenau. Vivevamo all’ombra del crematorio, che fumava sempre, e avevamo ribattezzato il sentiero di fronte alle nostre baracche “l’autostrada per l’inferno” perché portava alle camere a gas».
Nel 1945, Ceija venne liberata dal campo di Bergen-Belsen. Dopo la guerra documentò e pubblicò canzoni sull’Olocausto composte dagli Zingari Lowara.
Karl Ratzer (nato a Vienna il 4 luglio 1950 ) è un chitarrista jazz, cantante e compositore austriaco.
Dalla Guida Auschwitz: Ad Auschwitz- Birkenau furono deportati Rom e Sinti da tutta l’Europa. Il gruppo più numeroso furono i Sinti e Rom dall’Austria e Germania circa i 2/3 dei deporati (14.000 persone); poi i Sinti e Rom provenienti dal Protettorato di Cechia e Moravia (4.500 persone circa) e 1.300 Rom dalla Polonia occupata. A questa cifra vanno aggiunti circa 1.700 Rom provenienti da Bialistock (Polonia) che sospettati di tifo non furono registrati ed inviati direttamente nelle camere a gas e uccisi. In generale, sino alla fine del 1943 nello Zigeunerlager furono deportate circa 18.736 persone, nel 1944 circa 2.207 persone. Di queste circa 9.500 furono i bambini al di sotto dei 14 anni e circa 380 i bambini nati nel Campo.Ad Auschwitz Birkenau morirono circa 21.000 Sinti e Rom provenienti da 12 Stati.
Il ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, ha recentemente confermato che, alla maturità 2020, «tornerà il tema di storia nella prima prova scritta». Vorrei fosse vissuto questo ritorno, come pagine di umanità e non come una minaccia per gli studenti e gli insegnanti che dovranno proporla.
Nel 1959 cantava Dalida gli zingari, neanche 10 anni dopo avrei saputo dalla scuola che anche i gitani furono deportati dai nazisti ma L’arte salva la vita…
video foto e documentazioni su https://www.agoravox.it/La-storia-sul-braccio-numero-Z5742.html
LE VIGNETTE – scelte dalla “bottega” – sono di Mauro Biani.