L’insurrezione mediterranea
Ringrazio Annamaria Rivera per avermi autorizzato a riproporre qui il suo articolo uscito oggi sul quotidiano “Liberazione” (db)
“Voglio partecipare alla manifestazione, fosse l’ultima cosa che faccio nella mia vita!”. Sono le parole di un egiziano di 90 anni, che l’inviata di Libération, Elodie Auffray, ha raccolto durante la grande protesta del 28 gennaio al Cairo, come sempre repressa nel sangue. Sarebbe bello trovare un novantenne italiano (uno qualsiasi, non un ex partigiano) che, impugnando un cartello con “Berluska dégage!”, frema per raggiungere un corteo di protesta. Potremmo morire contenti. Purtroppo non sembra che in Italia ci siano anziani disposti a sfidare lacrimogeni e proiettili per cacciare il despota mediocre e dissoluto. Perfino i giovani che il 14 dicembre scorso avevano sconvolto la città di Roma “con la loro rabbia” paiono poco reattivi di fronte al grande sommovimento politico che scuote l’area del Mediterraneo e oltre: dalla Tunisia all’Egitto, dall’Algeria allo Yemen, dalla Giordania all’Albania. Eppure con i coetanei in rivolta condividono non solo “la rabbia” ma anche la condizione sociale: forza-lavoro istruita, declassata, umiliata, destinata alla precarietà o alla disoccupazione. Scendere in piazza, magari proclamare uno sciopero generale, in solidarietà con la grande insurrezione popolare che serpeggia nell’area sud-orientale del Mare nostrum significherebbe, qui e ora, cogliere l’occasione storica per ricucire i legami – ignorati, dimenticati o recisi – che annodano il nostro destino a quello di altri Paesi mediterranei. Significherebbe, al tempo stesso, sfidare il nostro regime, “equivalente funzionale e postmoderno del fascismo” (la bella formula sintetica è di Paolo Flores d’Arcais): non molto dissimile, se non nelle forme, dai regimi che crollano o vacillano, travolti dalle grandi sollevazioni popolari. Certo, da noi la confisca della democrazia, il malaffare come sistema di governo, soprattutto l’apparato di propaganda hanno assunto forme più indirette e subdole. Ma forse anche più pervasive di quelle di un Ben Ali o di un Mubarak, poiché sono riuscite a offuscare la coscienza collettiva del Paese, a pervertirne l’immaginario e la vita sociale, ad annullarne la capacità di desiderare e perciò di lottare. Come è tipico delle inclinazioni totalitarie, queste forme hanno diffuso una sorta di neolingua orwelliana, della quale è parte la tendenza, presente anche a sinistra, a percepire e categorizzare tutto quel che riguarda gli altri, soprattutto i vicini dell’altra sponda del Mediterraneo, secondo cliché e luoghi comuni. Di questi, la parola-chiave – usata perfino da certi dotti – è “islamici”, che permette d’infilare nello stesso sacco persone di fede o solo di cultura musulmana insieme con islamisti, jihadisti, terroristi…E l’icona è il “velo”, che consente d’attribuire agli altri il monopolio della sottomissione delle donne e dell’oppressione di genere. Ora che gli “islamici” sfidano, con coraggio e dignità, regimi del terrore che sembravano incrollabili e i loro feroci apparati di repressione; ora che chiedono democrazia e partecipazione, giustizia sociale e uguaglianza, libertà e rispetto; ora che si appropriano delle belle parole che noi abbiamo dimenticato, il Paese provinciale che siamo diventati non sa che dire. Perfino certa sinistra sgrana gli occhi di fronte a eventi che neppure aveva immaginato, in ciò degna di altre sinistre “riformiste” europee: basta dire che solo pochi giorni fa, dopo la fuga di Ben Ali, l’Rcd, il suo partito, è stato espulso dall’Internazionale socialista. Balbettano penosamente anche certe femministe nostrane, eurocentriche ma non fino al punto d’apprendere da altri Paesi europei a usare correttamente le parole e ad evitare cliché: i loro miseri pre-concetti sono messi in crisi dalle immagini delle rivolte che, in Tunisia come in Egitto, mostrano donne giovani e anziane alla testa delle manifestazioni, il capo coperto da un hijab.
Che il “nostro” ineffabile ministro degli Esteri cada dalle nuvole o dica scempiaggini è cosa scontata. Meno ovvio è che certi quotidiani italiani abbiano impiegato qualche settimana per dare agli eventi la rilevanza che meritano. Per molti giorni, chi ha voluto informarsi degnamente ha fatto ricorso a emittenti arabe e a giornali inglesi, americani, soprattutto francesi: in testa Libération e Le Monde, che ancora una volta ci insegnano cosa debba intendersi per informazione. Né vale la scusa, che spesso ci viene opposta, del peculiare interesse francese verso Paesi ex colonizzati: dai quei due quotidiani la rivolta egiziana ha ricevuto e riceve uguale spazio e attenzione.
Per quanto continuiamo a coltivarne la speranza, è incerto che un Paese divenuto tanto provinciale e incolto sappia cogliere il valore di evento storico dell’insurrezione mediterranea. Ma noi ci ostiniamo a ripeterlo, almeno ai pochi che ci leggono: comunque vadano a finire, i moti popolari degli altri hanno inferto un grave colpo alla miope realpolitik, nutrita da razzismo postcoloniale, che ha spinto a utilizzare regimi tirannici e corrotti come cani da guardia dell’Europa-fortezza, dighe contro il presunto diluvio dell’islamismo politico, soci minori e disprezzati in affari più o meno leciti. Qualunque ne sia l’esito, gli equilibri postcoloniali sono stati spezzati, quindi niente sarà più come prima, neanche per il Paese marginale che è diventata l’Italia.