L’invasione degli ultracorpi
di Giuseppe Faso (*)
Un’amica mi gira, nauseata, un articolo di «Repubblica» del 4 aprile, a firma Francesco Viviano, «Traffico controllato da 500 bande: ecco il dossier segreto dei Servizi», aggiungendo sarcastica: «l’invasione degli ultracorpi».
Si tratta di un concentrato di “servizi”
come ormai da molti anni leggiamo: servizi giornalistici su previsioni di imbarchi di profughi verso l’Italia (le 500 bande sono le supposte organizzazioni di traghettatori) che ostentano dossier segreti di servizi segreti, contando sul fatto che chi legge non sia capace di immaginare che, scritti, come sembrano, sotto dettatura o in forma ciclostilata, difficilmente possano accedere alla credibilità che si tributa a un’attività investigativa seria. E infatti, queste notizie di provenienza segreta, periodicamente urlate, si sono rivelate negli anni bufale mastodontiche, sia per la qualità dell’analisi sia per le quantità prospettate. Basti ricordare il titolo del quotidiano di Confindustria di tre anni fa, che attribuiva al ministro degli interni Maroni l’apocalittico allarme sui «quasi 2 milioni di clandestini pronti a riversarsi sulle nostre coste», cinquanta volte di più del realistico e di quanto poi avvenuto; la stessa cifra veniva strillata nel luglio 2004, attribuita al ministro Pisanu (con corredo più “disperati” e “poveracci”) dai non impeccabili «Corsera» e «Repubblica».
Simili quantificazioni ciclicamente vengono fornite dai “nostri 007”. E ritornano cliché screditati fino al ridicolo: il «transito biblico» di cui parla oggi (il 7 aprile) «Il giornale» richiama, appunto, «l’esodo biblico» paventato (a vuoto) dal medesimo quotidiano il 14 febbraio 2011, contando sulla memoria corta e la rigidità mentale dei suoi lettori.
In articoli contrassegnati da tale fiducia nella riproposizione di ribollite vecchie di anni, poca fiducia si mostra nelle proprie capacità linguistiche. Lo mostrano con evidenza le fitte virgolettature, vere cicatrici di argomentazioni che pretenderebbero un po’ di controllo – sia dell’informazione che dei giudizi. Si parla qui di persone ammassate nelle “prigioni” dei trafficanti libici: perché le virgolette, che suscitano in chi legge il richiamo di prigioni senza virgolette, finanziate dalle campagne di respingimento, e mostrate in documentari, tra i quali il film «Come un uomo sulla terra»? Perché altre virgolette attorno a «partenze», «raccolta», «snodo»? Né si tratta di una pignoleria su un fenomeno marginale: le virgolette qui sono l’elemento stilistico caratterizzante, e su 680 parole, a parte le denominazioni («Katibe» e il «Mare Nostrum» di macchiata memoria), ben 14 (una ogni 4 righe del testo in pdf) subiscono questo tipo di virgolettatura: quelle che segnano approssimazione, dimissione di responsabilità, insicurezza. Una occorrenza ogni 4 righe: un insegnante delle medie avrebbe di che lavorare per ridurre questo dire-e-non dire, questo tango oscillante fra spudoratezza e reticenza.
Ma chi firma l’articolo mostra ben altra sicurezza in altri ambiti. Per esempio, nello stigmatizzare come disperati i profughi, ben tre volte in mezza pagina: sempre facendoli seguire a «migliaia di»: «Libia l’ultimo terminale delle migliaia di disperati», «dove arrivano le centinaia di migliaia di disperati», «ha salvato dalla morte migliaia di disperati». Una vera ossessione, che contrasta con il feticismo del sinonimo, praticato con sistematicità dalle redazioni (solo italiane), e che dovrebbe ridurre la ripetizione di tale aggettivo, sostantivato e ontologizzato: la disperazione è la loro essenza.
Grazie a questo tormentone svalorizzante, il giornalista evita accuratamente di dire che sono profughi, una parola-tabù: forse qualcuno potrebbe collegarla con situazioni di guerre catastrofiche, non sia mai! non bisogna alimentare nessuna forma di possibile solidarietà, anche solo ideale, nei confronti di chi proviene dai quartieri di Aleppo ridotti in rovina. Pur essendo infatti disperati per natura, il loro è un «viaggio migratorio», il loro percorso una «immigrazione clandestina», non un tentativo (esposto a mille rischi, grazie anche al cinismo di chi la racconta così) di raggiungere l’Europa per chiedere l’asilo, il cui diritto è riconosciuto (sulla carta) da Paesi che vogliono dirsi civili.
Un’altra sicurezza dell’articolo lascia sbalorditi. Si trova, come spesso accade al veleno, nella coda, che perciò si riporta intera: «Flussi migratori che presentano rischi sanitari: i migranti africani hanno un alto tasso di malattie, polmonari ed epatiti, che sfuggono a ogni forma di prevenzione e cura mantenendo elevato il rischio della diffusione delle patologie».
Proprio così: non sono i profughi a cercare di sfuggire a difficoltà gravi, sono le loro malattie che sfuggono (la lingua batte dove il dente è stato censurato) ogni forma di prevenzione e cura. Ogni? Tutte ? Possibile? Quando si parla di alte probabilità, e si esibiscono serie statistiche, a volte si è in presenza di un atteggiamento scientifico o almeno di una seria informazione. Ne rimangono lontane le espressioni totalizzanti, assolute, indiscutibili come tutto, ogni, nessuno, sempre, mai: segni assai frequenti di rilevante cialtroneria. Non sappiamo, né ci interessa, se quell’ogni risalga alla gola profonda degli sbandierati 007 o sia un’invenzione di Viviano. In un articolo così, si rivela, come dire, una degna conclusione.
Resta il fatto che, in quel giornale, ci deve pure essere qualcuno memore della ciclicità di simili allarmi sulla possibile diffusione di malattie portate dall’immigrazione, comparsi periodicamente almeno da vent’anni, forse con prevalenza su altri quotidiani più cialtroni; e, da redattore esperto, dovrebbe forse avvertire il collega del fatto che tali allarmi incauti e irresponsabili sono stati clamorosamente smentiti da dati più attendibili: in base a un’osservazione attenta, pare proprio che, se gli immigrati le malattie ce le hanno, di solito è perché le prendono qua. Intanto, ci tocca allarmarci perché gli ultracorpi venuti dal mare sono refrattari a ogni cura. Ogni? Ogni ogni.
(*) ripreso da «Cronache di ordinario razzismo».