Lobby continua e senza legge
di Massimo Luria (*)
La politica non si muove e le lobby agiscono in una comoda zona grigia, nasce #Lobbying4Change per superare lo stallo
Accelerare l’iter di approvazione della legge sul lobbying ora in discussione in Commissione Affari Costituzionali. Lo chiede la coalizione #Lobbying4Change, presentata oggi alla Camera, formata da 14 organizzazioni della società civile – Altroconsumo, Associazione Antigone, Calciosociale, Cittadinanza Attiva, Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili, Cittadini per l’aria, CIWF Italia, Equo Garantito, Fondazione Etica, ISDE – Associazione Medici per l’Ambiente, LIPU – Lega Italiana Protezione Uccelli, Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa, Slow Food Italia, The Good Lobby. «Siamo 14 organizzazioni dai profili, dalle storie, dalle esperienze molto diverse, ma accomunate dalla battaglia per decisioni pubbliche più trasparenti e inclusive, che tengano conto anche del parere e del punto di vista di chi come noi, pur difendendo i diritti dei consumatori, la salute, l’ambiente, i diritti civili, la sostenibilità, e più in generale l’interesse pubblico e il bene comune, viene troppo spesso escluso dal dibattito politico. Alla Camera l’iter delle proposte di legge è avviato e i testi presentati da esponenti delle maggioranza sono più che soddisfacenti. Se non ora, quando? » dichiara Federico Anghelé direttore di The Good Lobby, associazione promotrice della coalizione. Con l’arrivo del Recovery Fund europeo – sostiene una nota della coalizione – assisteremo alla più grossa iniezione di fondi pubblici nel sistema economico italiano dai tempi della Seconda guerra mondiale, oltre 200 miliardi di euro. Senza una legge sul lobbying capace di garantire effettiva trasparenza e partecipazione della società civile, c’è il rischio che la politica finisca per favorire solamente chi è più avvantaggiato nei rapporti con il potere e tutti quei soggetti più pronti ad «accogliere» gli investimenti pubblici, escludendo dal piano di «recupero» per il Paese le categorie maggiormente colpite e i portatori di interessi generali che hanno più limitata capacità di farsi ascoltare.
Forse la vicenda più recente è quella che riguarda Philip Morris. La Procura di Milano ha aperto un fascicolo conoscitivo a modello 45, e quindi al momento senza ipotesi di reato né indagati, sulle consulenze, per un totale di circa 2 milioni e 400mila euro, che la Casaleggio Associati ha ottenuto dal 2017 in poi dalla Philip Morris. Gli inquirenti vogliono capire che genere di consulenze la società di Davide Casaleggio, presidente della piattaforma Rousseau e figlio di Gianroberto, co-fondatore del Movimento 5 Stelle, abbia ottenuto dalla multinazionale e se ci siano eventuali legami tra quei soldi incassati e alcuni provvedimenti di legge favorevoli all’industria del tabacco e, in particolare, alla Philp Morris. In attesa di capire gli strascichi di questa inchiesta, che già si sta trascinando polemiche e querele, proviamo a fare il punto sul dibattito.
Gli attacchi all’autoproduzione da fonti rinnovabili, travestiti da circolari oppure da mancate approvazioni di norme, per sbloccare il mercato dei piccoli mercati diffusi e bilanciare le rendite di posizione dei colossi dell’energia; la recente minaccia di Atlantia – più o meno velata – di sospendere gli investimenti senza una garanzia statale di un prestito miliardario, perché la proposta di cancellare le penali in caso di revoca delle concessioni contenuta nel Milleproroghe avrebbe innescato l’incertezza dei mercati. Ma questa è solo l’ultima mano di una partita aperta col governo dopo il crollo del Ponte Morandi nel 2018. Poi ci sono i deprimenti balletti sull’onda del cosiddetto revolving doors dal pubblico al privato e ritorno, che in passato ha coinvolto persino vice ministri della risma di Lapo Pistelli, passato in un mese dalla scrivania degli Affari Esteri alla cura degli interessi internazionali della multinazionale del cane a sei zampe. Sono solo alcuni degli esempi più clamorosi che compongono la lunga lista del lobbying all’italiana, che tiene sotto scacco la capacità delle istituzioni di prendere decisioni e virare verso scelte mirate a difendere l’interesse collettivo. Una empasse che lega le mani di politici e funzionari a ogni livello, perché mancano regole chiare e precise sulla gestione dei rapporti tra legittimi rappresentanti di interesse e lo Stato.
Una legge per regolamentare il lobbying non è solo auspicabile, ma necessaria. Tutti la vogliono e nessuno riesce ad ottenerla. La chiede la politica, la vuole la magistratura, è utile agli apparati amministrativi per definire i limiti da non oltrepassare, la invocano i cittadini che vorrebbero maggiore trasparenza, la sollecitano persino gli stessi lobbisti. Ma perché allora non si riesce ad approvare una norma che accontenti tutti? «Non si è ancora fatta una legge sul lobbying perché la situazione attuale sostanzialmente conviene a tutti», spiega Alberto Vannucci, politologo e direttore del master APC (Analisi, prevenzione e contrasto della criminalità organizzata e della corruzione) all’Università di Pisa.
«In questa situazione di ambiguità molto spesso si creano zone d’ombra fittissime, nei contatti tra i portatori di interessi privati e i rappresentanti istituzionali; lì può succedere di tutto e a giudicare dai benefici che alcuni concessionari pubblici, alcune lobby ottengono, qualcosa presumibilmente è successo. Non solo, ma fa capire anche che questa situazione conviene perché il rischio di un intervento di qualche organo di controllo è estremamente basso. Il gioco in questo momento vale la candela».
Una terra di nessuno, una enorme zona grigia fatta di rapporti opachi tra politica e lobby. Relazioni che emergono solo in minima parte e solo in quei casi in cui c’è stata una sporadica e scoordinata azione di regolamentazione del lobbying. È il caso ad esempio del “Registro pubblico dei rappresentanti di interesse particolari” depositato presso qualche ministero come quelli dello Sviluppo economico, del Lavoro, dell’Agricoltura o quello istituito presso la Camera dei Deputati nel 2017, che conta qualche centinaio di iscrizioni a fronte di una platea vastissima che preferisce rimanere nell’ombra. Opportunità, non obbligo alla trasparenza degli incontri e dei risultati ottenuti. Restano dunque tentativi parziali e poco efficaci.
«Non sono più i partiti gli unici che si fanno portavoce delle istanze della società, qualsiasi esse siano – spiega Susanna Ferro, advocacy officer di Transparency International Italia – ma non riconoscendosi più nel ruolo dei partiti o di quelli che ci sono oggi, le varie istanze si muovono da sole e quindi si moltiplicano. Questo è un problema generale delle istituzioni, che non hanno preso atto di questa crisi, e quindi non riescono nemmeno ad adeguare il passo rispetto a quanto avviene al di fuori delle stesse istituzioni». Accanto allo smarrimento della politica, si aggiunge la fine dei finanziamenti pubblici, che rende maggiormente permeabili i partiti nei confronti dei settori privati, spesso fonte di sostenibilità dell’azione politica in generale, declinata anche attraverso le fondazioni da essi promosse.
Ad oggi in discussione ci sono ben tre disegni di legge: quello di Marianna Madia del Pd, di Silvia Fregolent per Italia Viva e il testo di Francesco Silvestri del M5S. Le tre proposte, simili in molte parti, sono state accorpate in un unico provvedimento nella speranza di trovare una quadra prima della fine di questa legislatura. Per ora la discussione è aperta in Commissione Affari Costituzionali della Camera. Il futuro è incerto e il presente vede ancora molta frammentazione.
Per ora «è tutto lasciato all’iniziativa dei singoli ministeri o delle Regioni – chiarisce ancora Ferro – Banalmente c’è un problema a livello di soluzioni tecnologiche adottate: fare trasparenza significa mettere in mano alle persone dei dati leggibili e certi. Se persino sui siti web le informazioni non sono facilmente reperibili – ad esempio nel caso di pagine htlm dove non è possibile fare ricerca – non raggiungi lo scopo per cui quel tentativo di disciplinare l’attività di lobbying dovrebbe nascere».
In questa cornice a farne le spese sono tutti: gli organi istituzionali esposti a influenze poco chiare, i portatori di interesse a cui non viene riconosciuto il loro ruolo, spesso chiave nell’approvazione di una legge, per finire ai cittadini che non possono conoscere il percorso che ha portato a una determinata norma, che però avrà un impatto diretto su tutti. Non sempre, infatti, il lobbying è una cosa negativa, anche se in generale la parola gode di cattiva fama e ha bisogno di un’operazione non solo di restyling, ma di buone pratiche per essere digerita. Ferro cita ad esempio l’approvazione della legge sul whistleblowing (segnalante di illeciti, reati o irregolarità) per la quale Transparency Iternational si è impegnata direttamente.
C’è bisogno dunque di regole chiare, «a partire dal registro, fino alla pubblicazione degli incontri, e i documenti che vengono trattati. Sarebbe auspicabile – insiste Susanna Ferro – anche sapere qual è la legislazione di riferimento per cui si va a fare attività di lobbying. Così come si può seguire l’iter di una legge sul sito di Camera e Senato, così si dovrebbe sapere quali rappresentanti esterni hanno partecipato e come hanno contribuito alla costruzione di una determinata legge».
Regole sì, ma ben congegnate, altrimenti si rischia un effetto boomerang, gli fa eco Alberto Vannucci, secondo cui «una forma di regolazione mal costruita, che fissa male questi paletti, che lascia margini di ambiguità, che non lascia la piena trasparenza, diventa un modo per “legalizzare la corruzione”» e di legare le mani anche alla magistratura per la quale è già molto difficile intervenire su un terreno scivoloso e ambiguo come quello delle azioni di lobbying.
Quella sul lobbying è una delle leggi più annunciate e controverse nella storia della Repubblica italiana. Se ne contano oltre cinquanta, nessuna delle quali ha mai visto l’alba. Nel 2013 è toccato all’allora Presidente del Consiglio Enrico Letta, con un testo per la regolamentazione dei portatori di interesse. Il testo fantasma prevedeva un elenco pubblico in ogni ministero degli incontri di tutti i rappresentanti di interessi economici con il ministro o col suo gabinetto. Quasi tutto il governo era sull’orlo di un ammutinamento. A spalleggiare i ministri insorti c’erano anche molte aziende di Stato a cui si aggiungeva Confindustria: tutti contrari alla pubblicazione delle agende.
La storia dei tentativi a salve per dare regole al lobbying è lunga. Nel 1982 ci provò Pietro Ichino, con una proposta di legge sul “Riconoscimento e disciplina delle attività professionali di relazioni pubbliche”. La discussione non iniziò mai. Poi fu la volta di Beniamino Andreatta nel 1988. Più avanti, nel 2007, toccò a Giulio Santagata, ex ministro del governo Prodi, il quale propose inutilmente un “Registro pubblico dei rappresentanti di interessi particolari”.
All’elenco si aggiungono Pino Pisicchio con tre diverse proposte di legge, Marina Sereni, Mario Marazziti, Franco Bruno, Marco Baldassarre, Chiara Moroni, Elio Lannutti, per citarne alcuni, a cui si sommano decine di altri di ogni schieramento politico. Nel frattempo anche le assemblee regionali si sono date da fare per palesare gli incontri tra stakeholders (letteralmente, titolare di una posta in gioco) e politici: Toscana, Molise, Abruzzo, Calabria e Lombardia.
«Nel 1996 – racconta infine Vannucci – si riunì il Comitato di studio per la prevenzione della corruzione, il cosiddetto Comitato Cassese presso la Camera dei Deputati, dove si costruivano proposte contro la corruzione. All’interno c’erano proposte per la regolamentazione delle attività di lobbying. Nella Commissione legislativa speciale della Camera il tema fu molto dibattuto, ci furono molte proposte. Ma non ne andò in porto nemmeno una».
(*) ripreso da www.popoffquotidiano.it
LA FOTO E’ STATA SCELTA DALLA “BOTTEGA”