L’occhio nero d’una pistola
racconto di Mauro Antonio Miglieruolo
1
Quel che racconto è effetto d’una vantaggiosa fusione tra ciò che mi confidò in varie ricorrenze la protagonista del racconto; insieme alle registrazioni delle telecamere di sorveglianza interne; e quanto fu possibile estrarre dal Robot che avevo al mio servizio, felice aiuto di tutta una vita.
Quello che mi confidò: meglio di tutto l’ultima, offerta appena un attimo prima della vera definitiva conclusione. Sorta di olio santo con il quale vennero chiusi i conti della mia vita. E le furibonde liti con il destino.
Cioè a dire, chiudere i conti con Dio.
Dio? Sì, Dio|! Perché – cavolo – un Dio deve esistere. Un Narratore celeste e supremo e superiore che ispira i modelli modesti di tutti i narratori terreni, noi impossibili e inimmaginabili Deus per procura. Uno con cui prendersela per i contraccolpi che subiamo e le conseguenze delle sconsideratezze che commettiamo. Dio, sappiate – in questo modo lo usiamo – è una specie di pattumiera nella quale convogliamo desideri, rabbia, giudizi e invocazioni. Il modo nostro di rapportarsi con Dio è un insulto permanente a Dio. Dobbiamo sperare che non esista; o che sia il più pacioso essere di tutti i mondi, in grado di sopportare le nostre alzate di testa e ci permetta di continuare a imperversare.
Già. Ma io quei conti li chiusi. E forse continuerò a chiuderli per sempre, sub specie aeternitatis.
2
Il principiare dei suoi racconti riguardò la neve, la fame, il freddo, loro due abbracciate, madre e figlia, rabbrividendo, senza possibile riparo che la chioma d’un albero. La paura, il dolore, la disperazione. Ed io che ascoltavo rodendomi dal rimorso. Avrei fatto meglio ad ascoltarla per bene. Ascoltare quel che vibrava nel profondo dei suoni e delle parole. A volte pianto. Spesso anche collera. Vibrazione che col tempo intensificava.
Ah! che era piena di rancore, lei. Dopo la gratitudine negli inizi, il sollievo dato dalla nuova vita, solo rabbia. Più constatava quanto in effetti fossi buono e amorevole, più montava il furore. Ma che ci posso fare io se la società è fatta così male che nonostante l’abbondanza, lo spreco, il destino ancora nel tardo XXII secolo tardava a porre attenzione agli esseri umani?
3
Fortuna – commentava – non tirasse vento: non sarebbero sopravvissute altrimenti. Tremando e disperando. Nella notte. E la minaccia costituita dal principiare di una nuova nevicata. Poi il lampo improvviso che rischiarò il buio, non un fulmine, ma il rapido passaggio d’una automobile; o forse il provvidenziale intervento d’un angelo, dobbiamo pensare esistano considerando l’erompere di determinati avvenimenti, io stesso sono in grado di raccontarne un paio. In quel lampo la madre vide (e provvide) la casa abbandonata dove avrebbero potuto trovare un riparo. Uno meno precario dell’albero.
Avviandosi lentamente, i piedi che affondavano nella neve sempre più alta, raggiunsero la casa. Il tetto non era crollato, per fortuna; anche se l’incurvatura delle tegole faceva temere il peggio. Scelsero la stanza più interna, trovarono di che accendere un fuoco. Non smisero d’avere freddo. Ma almeno la piccola smise di battere i denti come nacchere.
Mangiare non ce n’era, la solo sicurezza dal peggio assicurata.
L’alba le trovò indenni. La seguente e le tante altre seguenti. Ma non lì, nella città che erano riuscite a raggiungere. Cioè a dire, nei pericoli densi che i grandi abitati presentano, affidati alla carità altrui, nella fame imperante, nella paura e nella vergogna. Arrabattandosi come potevano, finché non poterono più e dovettero separarsi. La madre per conto suo, piangendo “povera figlia mia, ti lascio sola”, la figlia necessitata dalle circostanze ad adattarsi. E si adattò. Perché la trovai viva, dentro un precario riparo, che le permetteva di stare, non d’avere vera protezione.
Sì, perché alla fine arrivai. Mi ero fatto attendere molto, ma arrivai. Troppo in ritardo per salvare la madre. Non sono sicuro di essere riuscito a recuperare la figlia.
4
“Povera figlia mia, chi si prenderà cura di te?”
Me ne assunsi l’incarico. Ma questo dopo che la ragazzina sparse lacrime inutili, molte: alla morte della madre; per l’indigenza rinnovata; l’esposizione a innumerevoli pericoli.
Pianse e io non ero là a consolarla.
5
Aveva forse un dieci anni quando l’autista, occhio d’aquila, inclinazione da balia, richiamò la mia attenzione.
“Guardì lì” dicendo e indicando. Con un dito grosso quanto una salsiccia. Ma agile e delicato come la mano d’un virtuoso di pianoforte.
Lì era una rientranza che spezzava la continuità d’un muro che un tempo, molto tempo prima, aveva protetto la serena concatenazione dei giorni d’una qualche famiglia. Di lato, sulla destra, i resti d’una enorme ciotola ch’era servito per decorare la rientranza. Sopra la rientranza un riparo di lamiera ondulata che qualche altro antico aveva piazzato per proteggersi dalla pioggia. Mancava un riparo sul davanti, e sarebbe stato perfetto. In quel caso non una ragazzina l’avrebbe abitato, ma uno dei tanto prepotenti dell’abisso.
In quel momento non tirava vento. Nemmeno pioveva. Ma era notte. La condizione peggiore per una piccola donna sola, seduta rannicchiata, stretta in sé stessa, le mani artigliate alle braccia, tirando su col naso.
Dormiva. O invece non dormiva, rinchiusa in sé stessa, nel timore e nella disperazione? Il buon uomo alla guida del mobile, che ne sapeva più di me in materia, la cui prudenza e competenza non ho mai saputo elogiare adeguatamente, con sapienza innata di donna piuttosto che d’uomo, spense i fari, lasciando accese le sole luci di posizione. Lentamente accostò. Nonostante il soffice inaudibile del motore elettrico la fanciullina si scosse, minuscola sfera di fame, paura e sdegno. Percepì il pericolo. Sciolse i legami dell’adattabilità che la rimpicciolivano ulteriormente per poter stare nel minuscolo rifugio e mise i piedi in terra. Accennò ad alzarsi, forse a mettersi a correre. Non aveva dove andare, dove scappare dagli adulti inflessibili che signoreggiavano nell’auto. Si rassegnò a ciò che il destino apportava.
Sedette nel riparo, si piegò in avanti e nascose il viso nelle mani. Resa Peschiera. Si consegnava al nemico, confidando nella sua misericordia. Incondizionatamente. Misericordia ne ebbi abbastanza per non scendere dall’auto, chiedendo all’autista di farlo in mia vece.
“Vai, Servo di Terza Classe, vai, parlale…”
Lui, un Terza Classe che meritava la Prima, forse persino l’affrancamento; lui con i modi di nonno, la bonomia nei gesti e nella voce, la sicura vicinanza sociale (nessuno avrebbe potuto scambiarlo per un lenone; nemmeno la piccola equivocò), riuscì ad avvicinarla e a rallentarne il batticuore. Le parlò. Parole brevi che la bambina ascoltò, anche se in costanza di allarme che non riusciva a rientrare. Dopo i primi dolci sussurri la bambina tornò a rannicchiarsi nella rientranza. Per potervi rientrare assunse una posizione fetale, le ginocchia quasi accostate al viso. La rientranza più piccola di quanto la bambina fosse, diminuendosi quest’ultima quel tanto necessario, tornò ad ospitarla.
L’autista continuò a parlare. Intercedette per me, la convinse. Tanto che lei di nuovo sciolse gli autolegami che le necessitavano per trovare posto nell’angusto rifugio; si alzò e diede due passi nella direzione dell’auto. Abbassai il finestrino.
“Ho bisogno di una come te” affermai. “Ho bisogno di una bambina da far passare per mia figlia. Ecco sì, mi servi in questo.”
Non capì. Ritengo non le importasse capire. Le mie bugiarde parole. Le bugiarde intenzioni di tutti. Il mondo impietoso. Mi fissò stranita. Che cavolo di carnefice ero? Nella profondità degli occhi, che non le nascosi, lesse qualcosa che l’aiutò a ulteriormente abbandonarsi. Ma penetrando con lo sguardo, abituato a indagare il male, notando la benevolenza che vi soggiornava, la scambiò per qualcos’altro (o volle scambiare) e per quest’altro si restituì allo spavento. Reagendo con qualcosa d’inaspettato. Fu forse per mettermi alla prova? o per gettare sé stessa alle ortiche, definitivamente? o d’andare al dunque di uno orrore che non intendeva dilazionare più di tanto?
Tirò su la gonna. O quel che avanzava della gonna.
“No, non è per questo” mi affrettai a dire. Il che la spaventò ulteriormente. Perché altro ancora? Botte? Frustate? Sigarette spente sulla viva carne? Se non era per quello, di cos’altro d’orrendo si trattava?
Terza Classe intervenne con la prontezza che gli si conveniva, con cui raddrizzava spesso le mie goffaggini. Pronunciò l’ulteriore bugia che solo era in grado di rendere credibile il mio invito. Confessando un vizio morale che comunque dovevamo avere. Non esiste nessuno veramente buono. Esiste una bontà che accompagna la segreta bassezza. Qualsiasi buona intenzione, comunque detta, non poteva che essere schermo di una cattiva. A volte pessima.
“Al Dottore” affermò, sebbene non fossi dottore. “Al Dottore piace mostrare d’essere buono e caritatevole. Ti porterà a mangiare in un bel posto, si lascerà fotografare, lo intervisteranno, vincerà le prossime elezioni e ti darà anche un regalo, alla fine del pranzo. Vero che le farete un regalo, Dottore?”
“Sì, certo. Qualsiasi cosa voglia.”
“Hai sentito? Qualsiasi cosa tu voglia.”
“Davvero?” interrogò nel tono scaltrito ch’era proprio a chi troppo a lungo aveva vissuto sulla strada.
A quel punto pietà m’afferrò al punto che non seppi continuare. Quel piccolo inerme essere… candore riplasmato per simulare scaltrezza, nelle cautele del debole. Come poteva pensare bastasse un po’ di scetticismo per destreggiarsi con gli ispirati dal signore dell’astuzia e dell’inganno? A quel punto poteva portare la disperazione di un innocente!
“Davvero?” tornò a dire la piccola, con accentuazione già più fiacca e poi: “Ma davvero?” girando il viso ora per fissare me, ora il nonno benevolo. Ma davvero? Ma davvero? Senza più apparentemente capacità di sottrarsi al vincolo di parole suoni che non avevano senso, non più interrogando, la scaltrezza abbandonata alla follia, scelse di lasciarsene ghermire. E come infatti apparve nell’apparenza dell’indescrivibile, e lì per lì, ripetendo alcuni balbettii, fece intendere che non era più nella possibilità d’essere presente a sé stessa. Finché i balbettii divennero un devastante incontenibile madavveromadavveromadavvero? in un miscuglio insulso di ripulsa accusa accettazione, contestazione, balbettio e speranza. Cosa diavolo stava succedendo? pensammo all’unisono Terza Classe e io. Cosacososacosa! Contaminati dal medesimo esplodere dell’incontenibile.
Ché davvero credette – me lo confermò lei stessa, più tardi, molti anni dopo – fossimo mariuoli autentici, i più veri e crudeli avesse incontrato, i più perfidi e spietati, gettati nel mondo a sfregio e dispregio degli inermi. Doveva averne conosciuti tanti di costoro, amanti delle blandizie con inevitabili esiti di tradimenti! E noialtri che pure insistevamo! prolungando, anzi estendendo una commedia senza vi fosse vera necessità di farlo. Non si era arresa forse? Non si era affidata alla discrezione del nemico?
Nel frattempo degli istanti consustanziali alla necessità di ipnotizzarsi da sé stessa, per sfuggire al terrore della realtà, anche il corpo principiò a perdere coordinate ragionevoli. Il viso girando di qua e di là di scatto, accompagnando il gesto con escandescenze del gomito dato all’indietro, come a sottrarsi dalla presa pedestre di qualcuno. E viaviaviavia! Dicendo ripetendo, come per maledire, senza darlo a vedere, che fu molto più che un sintomo della follia dentro cui ormai navigava, navicella senza nocchiero in piena tempesta psichica; ché, ignoro quanto volente, scattò in avanti, in velleitaria fuga dall’esistenza. Cioè da Terza Classe e il Padrone assiso nell’automobile. IO. Quel qualcuno che racconta e ben presto smetterà di farlo. Travolto dagli insoliti destini in agguato sempre dietro gli angoli. L’Io ancora vivo, dunque, non narratore post-mortem, come si favoleggia ve ne siano, che parlano ben più dei referti medico legali; e ben aldilà dai Tribunali. Fantasmi. Ma non siamo forse tutti fantasmi?
Un’Io che si affrettò a gridare:
“Prendila, non lasciarla scappare.”
Al che la fanciulla rispose. Continuando a correre, senza voltare il viso. Grido acuto, disperato, pazzo, a squarciagola. Non contro di noi, ma contro il tutto che l’aveva ridotta al minimo di un essere umano. Grido incoerente.
“Morirete anche voi! Morirete! Morirete!”.
Gridando, il dolore nel cuore, l’avvilimento, la diffidenza e quindi la paura non ancora del tutto spenta.
Nonno l’afferrò. Utilizzando tutta la delicatezza della quale era capace, ben bene iscritta nelle istruzioni, nelle eccezioni e negli obblighi primari (Asimov docet). E poiché la piccola insisteva a divincolarsi, quasi sull’orlo di abbandonarsi alle convulsioni, le afferrò una mano e gliela baciò. Baciò il pugno chiuso in effetti. Ma bastò a calmare la piccola sollevata in alto, in quell’alto da dove evidentemente non credeva potesse esistere altro che bene. Così in alto (Terza Classe misurava un buon due metri, ah! Che ridere!); così in alto che le miserie umane non la potevano nemmeno sfiorare.
La calmò, certo. Non annullò il residuo di convenzioni alle quale per anni s’ostinò a restare ancorata.
“Sei pazzo! Sei pazzo!” sussurrando.
Il che era del tutto assurdo. Terza Classe poteva anche avere nei circuiti debolezza e forza di sentimenti, non certo l’inammissibilità della follia. Lui razionale, per definizione. Erede ultimo del calcolo binario.
Beh, si placò. Arresa definitivamente all’universo di dolore e perversione nel quale temeva di cadere.
Accettò di salire in macchina, rannicchiandosi in un angolo, tremante e obbligatoriamente ostile.
6
Fu forse crudele, senno di poi, portarla al ristorante promesso, senza fotografi a immortalare, e osannanti a fornire garanzia. Eravamo stati bugiardi su questo. Perfidi anzi, perché tutto lo scintillio di luci, camerieri che andavano e venivano, le decorazioni, le facce dei clienti, lustrini e lustro, il cibo che abbondava, servì a trascinarla nello spaventò di poco prima.
L’avevamo gettata di peso in una realtà inimmaginata, fuori da ogni pensabile, fuori dalle stesse leggende, da ogni sostanza di esagerazione inventata, ghignata o sussurrata. Vivevamo in due mondi separati. Le strade del XXII secolo non hanno nulla a che vedere con gli orpelli delle sempre più rarefatte categorie di abbienti.
Quell’ambiente la proiettava fuori dal mondo. Si guardò intorno spaurita e accennò a voler di nuovo scappare
Per fortuna il gestore non sollevò obiezioni ad accettare che sedesse con noi, non tali da metterci in difficoltà.
Chiamò invece una signora sua assistente e le chiese di occuparsi della piccola.
La piccola: “sei una puttana, tu?” chiese quando la maggiordonna si avvicinò morbida e amichevole, in un grado che commosse persino me, destinatario certo del conto finale.
L’assistente non arretrò. Sorrise, capì, rispose a tono.
“Lo sono stata, ora non più. Adesso aiuto le persone che entrano a darsi una sistemata. Le aiuto a diventare per alcune ore quello che non sono. Poi, se vogliono, torneranno a essere quello che sono state. Anche per me è stato lo stesso. Sono entrata che erano settimane che non mi lavavo, vestita di stracci, avevo bisogno di una buona ripulita e me l’hanno data. Io però non ho fatto come tante. Sono rimasta dentro, nei miei nuovi abiti.”
“Vuoi dire che non esci mai da qui?”
“Con il corpo qualche volta sì, ma senza mai smettere di immaginarmi d’essere sempre qui dentro. Aiuta, ti dà forza, speranza. Ma, senti, ti va di venire con me per fare un po’ di toeletta?”
La piccola esitò.
“Sei sicura che non morirai anche tu?”.
Beh, la madre era morta. Tutti quelli che le volevano bene, o volevano il suo bene, secondo lei, erano destinati a morire.
7
L’opulenza andò oltre le sue più rosee fantasie. Forse fu proprio questo a convincerla. L’impossibilità di tutto quello che vedeva. Del quale verificava la possibilità di condividere, persino godere. E per di più una donna ben vestita che non cercava di sopraffarla, ma si mostrava amica.
Guardò tutto a bocca aperta, per alcuni istanti, poi guardò me.
“Vai” le consigliai. “Vai con la signora.”
Tornò irriconoscibile. Definitivamente certa di me. Di sé stessa.
8
Più tardi, quella notte, ma anche tante altre volte ancora, dormendo nel suo lettino, accanto al mio, la mano che stringeva la mia, sussurrò:
“Non mi lascerai, vero? Non morirai anche tu?”.
“No, che dici? Sono giovane, ho una casa, la possibilità di curarmi…”.
“Non tornerò sulla strada…”.
“No, che non ci torni”.
“Difesa soltanto dalla misericordia delle puttane”.
A quel punto delle conversazioni notturne avvertivo un dolore sordo al petto. La realtà sconvolgente delle circostanze del mondo… non mi chiesi mai se pure io potessi essere classificato nella medesima categoria delle puttane. Non me lo chiesi allora, me lo chiedo ora. Non risposi allora per non essermelo chiesto. Non rispondo ora consapevole del perché di quella omissione. Non rispondo e seppellisco in me.
8
Provvidi in merito. Con il testamento, una donazione, affidandola a un robot di Seconda. Mi costò un occhio della testa, ma le diede pace. Sicurezza. Dall’alba al tramonto e dal tramonto all’alba era affidata a qualcuno del quale poteva fidarsi. Che non poteva essere vinto in alcun modo. Malattie, aggressioni, cambi di umore.
Un fondo provvide a pagare i suoi studi, che naturalmente, in compenso della penuria attraversata (e superata) erano effettuati nelle scuole migliori, nell’università più prestigiosa.
L’idea ottima, le conseguenze devastanti. Uno di Seconda è un robot che va oltre l’ottimo dei servizi ben prestati da uno di Terza, intelligente fedele collaboratore, ma con i suoi limiti. I Seconda Classe eseguono mansioni d’alto livello, lavori che richiedono una certa capacità di astrazione, flessibilità; nonché il continuo fuoriuscire dall’ambito della programmazione. Che sono in grado di ampliare le facoltà di cui dispongono, a volte anche di riprogrammazione radicale.
Fu il mio povero di Terza a informarmi. Il nonnino robot che mi aveva coadiuvato quando ancora la cercavo. Lui alla vigilia del temuto pensionamento, io che non facevo altro che aspettarlo. Il pensionamento dalla vita.
Si trattò di un tentativo di salvarmi che andò a monte.
Stanco delle infamie della vita mia, non ne volevo più sapere di continuare. O forse solo vittima di una indifferenza masochistica che mi disarmava. Che mia aveva sempre disarmato.
“Assume informazioni su di lei” disse.
L’espressione interrogativa con cui accolsi la frase lo costrinse a aggiungere i particolari. Che esitò alquanto prima di specificare.
“Il mio collega, Robot di Seconda…”
Non la ragazza, dunque, il Robot. Restai senza parole.
“È da un po’ che lo fa…”
Il panico. La certezza che fosse troppo tardi per poterci fare qualcosa. E anzi ch’era inopportuno facessi qualcosa. Indifferente o pieno di adrenalina, il risultato fu il medesimo. L’accesso all’inerzia. Che non era rassegnazione. Era senso di equità. La fine inevitabile per atti e iniziative che potevo evitare. O comunque compensare accettando paciosamente le conseguenze.
Lo ringraziai, pregandolo di approfondire. E mi diedi in fretta a scrivere le poche pagine che state leggendo.
Il resto probabilmente è pura ricostruzione.
9
Tornò il giorno seguente. Con notizie ancora peggiori. Pessime.
“Ricordi come è cominciata?” gli chiesi. Al termine della relazione.
Ricordava tutto. Sapeva tutto.
“È stato” rammentò, “quando ha dimenticato sul tavolo le analisi del DNA…”
Annuii.
“E poi peggio quando le è stato chiesto se era stato sposato e ha risposto di no. Brutta risposta”.
“Già, perché mentire?”.
“Ci è voluto niente a controllare”.
Non fu detto altro. L’invitai ad andarsene e se ne andò. In tasca la lettera con la quale lo affrancavo.
10
Entrò, l’espressione del viso chiusa, indifferente. Il che è peggio dell’essere ostile. Mi guardò fisso. Abbassai gli occhi.
“L’hai buttata per strada” m’accusò. “Mandata a morire.”
Era incinta allora, ma aveva messo da parte qualcosa. Per qualche tempo riuscì a cavarsela. Poi non so, distratto dall’odio finii per perderla di vista.
“Assassino!” mi soffiò in faccia. Avvicinandosi.
Stavo sul divano, con i gomiti poggiati sulle gambe, la testa che scendeva quasi volessi chiudermi in un cerchio di disperazione, perdere di vista il mondo.
“Guardami!” ordinò allora lei. Alta, bella, sanata dalle molte cicatrici. Ma ce n’era un’ultima che ancora doleva.
“Guardami!” impose.
Non potevo guardarla. Sarebbe stato più difficile l’addio.
Mi sfuggì un singhiozzo.
“Mi aveva tradito” osai pronunciare.
“Mi aveva tradito!” urlai.
La giustificazione di sempre, quella con la quale avevo sperato negli anni di sanare tutto, invece rinfocolando, approfondendo, lasciando che la coscienza imputridisse.
“No, tu, TU hai tradito. Il giuramento di proteggerla, di custodirla, di amarla…”
Ah, se era per quello non avevo cessato un istante. Non glielo dissi. Sarebbe solo servito a farmi odiare di più. Disprezzare. L’amavi e non hai mosso un dito? D’altronde non avevo mosso un dito neanche in suo favore, se non quando era stato quasi troppo tardi.
“Guardami!” impose per la terza volta.
Alzai lentamente il viso. Lentamente, feci quel che voleva. Timoroso. Dolente.
Temevo l’incontro con il volto, l’espressione irata, la condanna. Non l’incontrai. Per fortuna. Solo l’occhio nero minaccioso d’una pistola.
Sedette nel riparo, si piegò in avanti e nascose il viso nelle mani. Resa Peschiera.
per resa Peschiera vedi:
https://it.wikipedia.org/wiki/Assedio_di_Peschiera
Mam
è un bel racconto 🙂
c’è un bel romanzo noir francese, La luce nera, di Didier Daeninckx, che finisce come il racconto.
Grazie.
Per quanto riguarda il finale si è imposto da solo, proprio quando ero a metà dell’ultima pagina. Non l’unico finale possibile, quello imposto dal racconto stesso. Succede.
Non ho mai letto nulla di Didier Daeninckx. Vedrò di cominciare con “La Luce nera”.
Grazie ancora.