L’orrore quotidiano nella striscia di Gaza
articoli e video di Enrico Semprini, Federico Giusti, Richard Silverstein, Gianni Lixi, Alex Zanotelli, Manlio Dinucci, Fabio Marcelli, Ilan Pappé, Massimo Fini, Ronnie Kasrils, Tareq Hajjaj, Alessandro Orsini, Elena Basile, Max Blumenthal, Zakaria Baker, Ennio Remondino, Pepe Escobar, Chris Hedges, Enrico Campofreda, Alberto Bradanini, Gilles Devers, Jonathan Ofir
Pensavo che il termine “Giudeo-Nazisti” fosse eccessivo. Non più – Jonathan Ofir
Foto condivisa dal vicesindaco di Gerusalemme Arieh King sui social media di oltre un centinaio di palestinesi nudi rapiti dall’esercito israeliano a Gaza, 8 dicembre 2023
Pensavo che il termine “Giudeo-Nazisti” usato da Yeshayahu Leibowitz fosse troppo forte per descrivere Israele. Ma oggi, mi devo ricredere.
Il defunto professor Yeshayahu Leibowitz applicò il termine “Giudeo-Nazisti” alla fine degli anni ’80, in riferimento all’ex giudice della Corte Suprema Meir Landau, che di fatto aveva legalizzato la tortura, per descriverlo. Ha espresso le sue argomentazioni con forza: “Lo Stato di Israele rappresenta l’oscurità di un organismo statale, dove una creatura di forma umana che era il presidente della Corte Suprema decide che l’uso della tortura è consentito nell’interesse dello Stato”.
L’ho presa come una sorta di esagerazione morale. Era brutto: i palestinesi venivano torturati sistematicamente, ma in qualche modo ho pensato che non siamo così genocidi come i nazisti.
Ma oggi la penso diversamente. Ieri il vicesindaco di Gerusalemme, Arieh King, ha twittato una foto di oltre cento palestinesi nudi rapiti dall’esercito israeliano a Gaza, ammanettati e seduti sulla sabbia, sorvegliati da soldati israeliani. King ha scritto che “L’IDF sta sterminando i musulmani nazisti a Gaza” e che “dobbiamo accelerare il ritmo”. “Se dipendesse da me”, ha aggiunto, “porterei 4 bulldozer D9, li metterei dietro le colline sabbiose e darei l’ordine di seppellire vivi tutti quei nazisti. Non sono esseri umani e nemmeno animali, sono subumani ed è così che dovrebbero essere trattati”, ha detto King. Ha concluso ripetendo il riferimento biblico al Genocidio degli Amaleciti di Netanyahu: “Sradicare la memoria degli Amaleciti, non dimenticheremo”.
Anche se Israele l’ha definita una “retata di membri di Hamas”, gli uomini e i ragazzi in quelle foto, alcuni di appena 13 anni, erano medici, giornalisti, negozianti e altri civili che avevano cercato rifugio nelle scuole dell’UNRWA a Beit Lahia. Erano stati arbitrariamente rapiti e separati dalle loro famiglie.
Il tweet di King, era stato ripubblicato da Middle East Monitor, ed era apparentemente eccessivo per X (Twitter), e sembra essere stato rimosso dalla piattaforma. Ma niente paura, questa mattina King ha twittato di nuovo con la stessa foto e altre (di ragazzi e uomini palestinesi nudi sui camion), e questa volta ha iniziato il suo post con una citazione biblica riferita ad Amalek, forse per confondere gli algoritmi. Ha citato Deuteronomio 25,19:
“Quando dunque il Signore, il tuo Dio, ti avrà dato pace liberandoti da tutti i tuoi nemici che ti circondano nel Paese che il Signore, il tuo Dio, ti dà come eredità perché tu lo possegga, cancellerai la memoria di Amalek sotto al cielo: non te ne scordare!”
Tuttavia, King ha ritenuto necessario sottolineare l’attuale rilevanza, per timore che fosse troppo vaga:
“Centinaia di figli di Amalek, musulmani-nazisti, quale pensate dovrebbe essere la loro punizione?”
Quindi, è chiaro che siamo davvero in epoca nazista, e questo porta davvero associazioni con l’Olocausto. E questi proclami, queste azioni, sono proprio ovunque. Oggi, il giornalista e conduttore dei media Yinon Magal (che in passato è stato un parlamentare del Partito Patria Ebraica di Naftali Bennett e che conduce un programma radiofonico con Ben Caspit sulla radio centrista Maariv 103FM), ha twittato la stessa foto aggiunta di un altra foto del 1967 di Prigionieri palestinesi (in particolare, vestiti), e ha scritto che “la storia si ripete”. Avrebbe potuto benissimo usare una foto della Nakba del 1948 o, se è per questo, una foto dell’Olocausto. Magal sembra non cogliere l’ironia di come la storia si stia effettivamente ripetendo.
Ieri, Magal ha twittato una foto di alcuni di questi ragazzi e uomini nudi mentre erano seduti sulla strada rasa al suolo a Beit Lahiya, e ha chiesto seriamente “perché non ci sono donne nella foto”.
È difficile persino aggirare tutti gli strati di perversione qui.
Ieri, Magal ha condiviso un video di soldati israeliani a Gaza che cantano e ballano, e ha scritto con approvazione le parole della loro canzone genocida:
“Sono venuto per conquistare Gaza
E colpire duramente Hezbollah
Per compiere un mitzvah (comandamento)
Per sradicare il seme di Amalek
Ho lasciato la mia casa
E non tornerò finché la vittoria non sarà raggiunta
Tutti conoscono il nostro motto
Non ci sono non coinvolti”
Questi non sono solo i canti di alcuni giovani coloni sionisti radicali sulle colline della Cisgiordania: sono a Gaza e sono loro che perpetrano questo orribile Genocidio. Proprio davanti ai nostri occhi. E coloro che li incoraggiano in termini esplicitamente genocidi non sono solo fanatici di estrema destra: questo spirito è ovunque.
Sto parlando con alcuni colleghi attivisti che trovano davvero difficile affrontare tutto questo. Difficilmente riusciamo a seguire gli orrori, il crescente bilancio delle vittime, mentre i funzionari statunitensi affermano che l’assalto israeliano potrebbe continuare nella sua modalità attuale fino alla fine di gennaio, e poi continuare con “una strategia iper-localizzata a bassa intensità”.
Come diavolo può continuare questo Genocidio, sotto gli occhi del mondo intero, ci chiediamo. Ebbene, la risposta sembra essere che sta continuando proprio perché il mondo intero sta a guardare invece di fermarlo. È colpa di tutti noi.
Jonathan Ofir è un direttore d’orchestra, musicista, scrittore e blogger israelo-danese, che scrive regolarmente per Mondoweiss.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
Richard Silverstein : Il gabinetto di sicurezza israeliano ordina l’omicidio di importanti leader e famiglie di Hamas, invocando un versetto biblico che ordina lo sterminio di Amalek
Una fonte di sicurezza israeliana ben informata dice a Tikun Olam che il gabinetto di sicurezza ha ordinato all’IDF e allo Shin Bet di assassinare tutti i leader di Hamas, i comandanti che pianificarono l’attacco al sud di Israele e le loro famiglie .
La direttiva portava il titolo del versetto biblico תִּמְחֶה אֶת-זֵכֶר עֲמָלֵק (“sradicherai ogni traccia di Amalek”) in cui Samuele ordina al re Saul di sterminare l’intera tribù di Amalek, senza risparmiare nemmeno i bambini o il bestiame della tribù. Tutti dovevano essere massacrati senza pietà. Quando Saul risparmiò il re e gli animali, Samuele lo denunciò e lo rifiutò come re d’Israele. Il messaggio è chiaro: Israele intraprenderà una guerra biblica di sterminio contro Hamas. Chiunque si sottragga al proprio dovere conoscerà il destino di Saul.
L’ordine, secondo la fonte, è di “trovare e uccidere quanti più parenti possibile dei membri di Hamas che hanno compiuto i massacri del 7 ottobre, e questi alti funzionari: Mohammed Deif, Yahya Sinwar, Saleh al-Arouri, Khaled Mashal, Marwan Issa e Ismail Haniyeh.”
La stessa storia è trapelata anche su Ynet. Ma la censura militare impedisce ai media israeliani di riportare gli elementi chiave della storia che ho riportato qui. Non viene menzionato chi ha dato l’ordine degli omicidi e omette anche che anche le famiglie vengono prese di mira a morte.
I titoli e i grafici del rapporto Ynet sono spaventosi e omicidi. Celebrano positivamente questi potenziali omicidi. È il grido primordiale del predatore alla caccia della preda. Foto dei leader di Hamas presi di mira:
Morti che camminano: sei leader di Hamas che dovranno pagare con la vita il massacro. [Hamas]
Come se il genocidio non fosse già abbastanza grave, ora Israele è diventato un serial killer psicotico. Siamo solo a pochi passi dal ripetersi dell’Olocausto. È così che una nazione diventa una nazione che ne stermina un’altra, proprio come Samuele comandò a Saul e agli Israeliti di sradicare gli Amalechiti. È così che la Germania è scivolata, gradino dopo gradino, nell’inferno hitleriano.
Israele è diventata una nazione intrisa di sangue e omicidi di massa. Questo è chiaramente ciò che un giudice della Corte Suprema ha definito “ bandiera nera ”. Un comando dato a un ufficiale dell’esercito che è palesemente illegale e non deve essere obbedito. Ma le sottigliezze come la sentenza della bandiera nera sono una cosa del passato. Nessun ordine è troppo folle. Tutto è permesso. Omicidio. Incendio doloso. Tortura. Non ci sono più limiti. Niente più restrizioni.
Quindi, nonostante la chiara ostilità tra gli alti comandi dell’IDF nei confronti di Netanyahu (e viceversa), molto probabilmente si porterà a termine il compito. Vorrei poter dire diversamente, temo di non poterlo dire.
C’è una remota possibilità che questa fuga di notizie abbia lo scopo di intimidire Hamas; per mettere in guardia sul fatto che Israele può vendicarsi di tutte le famiglie della leadership. Li lascia pietrificati dal fatto che lo farà e li porta anche a chiedersi se lo farà. È un bluff? Un gioco di guerra psicologica con molte vite in gioco? Oppure Israele farà una Monaco, ma su vasta scala.
Questa decisione semina disperazione; un animale ferito che si scaglia contro i suoi aggressori. Come quella bestia, Israele è ora assediato su molti fronti da nemici, in attesa di lanciare il suo attacco di terra su Gaza. L’Iran ha minacciato di intervenire qualora Israele invadesse l’enclave. Il suo più potente alleato nella regione, Hezbollah, ha lanciato da giorni attacchi sonda contro le posizioni dell’IDF nel nord. Israele ha evacuato decine di migliaia di residenti di una ventina di città vicino al confine libanese. L’Iran ha anche attivato le sue milizie in Iraq e Siria che, per oltre una settimana, hanno lanciato numerosi attacchi con droni contro le truppe statunitensi in entrambi i paesi, lasciando feriti 24 soldati.
Gli alleati Houthi dell’Iran nello Yemen hanno lanciato tre missili da crociera e otto droni contro Israele (a oltre 1.600 miglia di distanza!). La maggior parte fu abbattuta dalla USS Carney nel Golfo Persico. Anche l’Arabia Saudita ne ha abbattuto uno.
Anche la Cina ha diretto sei delle sue navi da guerra nel Golfo. Questo potrebbe essere il motivo per cui il Pres. Biden ha reindirizzato invece uno dei due gruppi d’attacco delle portaerei originariamente diretti nel Mediterraneo, nel Golfo. Questo sviluppo porta la rivalità USA-Cina nel teatro del Medio Oriente.
Un tempo la Guerra Fredda contrapponeva gli Stati Uniti alla Russia in una competizione per l’influenza globale. Ciò includeva anche guerre per procura come il Vietnam. Riuscirà il mondo a sopportare un’altra rivalità del genere, date le enormi armi a disposizione di entrambe le superpotenze? Un conflitto multipartitico come questo potrebbe innescare una guerra? Vogliamo aspettare per scoprirlo?
Il gabinetto di sicurezza israeliano ritiene che il modo per rispondere a Hamas sia eliminare tutto e tutti coloro che sono ad esso collegati. Ritiene che il mondo sia abbastanza disgustato dai 1.400 israeliani assassinati da chiudere un occhio sugli omicidi di massa. Non solo ai 5.000 civili di Gaza che ha già ucciso (quasi la metà dei quali sono bambini), ma anche a decine di familiari della leadership del gruppo. È possibile che la propaganda israeliana abbia funzionato e che il mondo non alzi la voce né la fermerà. La mia regola è quella di non sottovalutare mai la capacità del mondo di nascondere la testa sotto la sabbia di fronte al genocidio.
Beit Lahia, la nuova Abu Ghraib – Enrico Campofreda
La cattura e l’umiliazione di più d’un centinaio di palestinesi a Beit Lahia cammina di pari passo con la desertificazione d’ogni presenza umana e materiale nella Striscia di Gaza. S’intreccia in sordida assonanza alla unilaterale, totale, criminale, bestiale desertificazione con cui il governo Netanyahu e il braccio armato dell’Israel Defence Forces affermano di voler sradicare Hamas dall’intera area, mirando invece ad alleggerirla dalla presenza di due milioni di gazesi. Eppure il gesto di questa prigionìa che a detta dello Shin Bet è indirizzata a miliziani del Movimento di Resistenza Islamico, è più d’un abuso di soggettivi codici militari e di guerra. Non solo perché, come già accaduto in altre occasioni (le operazioni condotte nell’estate 2014) Tsahal stesso ammise che fra i parecchi catturati durante rastrellamenti di terra solo una quota minima risultavano combattenti. Ma ammesso che tutti i catturati di Beit Lahia fossero miliziani, gli si applica un trattamento che definire subumano è un eufemismo. Denudati, bendati, inginocchiati – l’Intelligence israeliana sostiene per ragioni di sicurezza affinché non si dileguino in un’area ormai totalmente controllata dallo stesso esercito di Tel Aviv – quegli uomini, fra cui sono stati già riconosciuti un giornalista, un operatore umanitario, appaiono prostrati non solo per la postura imposta ma per la vessazione subìta. Che potrebbe proseguire altrove, immaginiamo nelle carceri alla maniera dei lager del Terzo Millennio, già sperimentati dagli alleati della Cia e dell’Us Army a Guantanamo e Abu Ghraib. Il fine è terrorizzare il nemico, anche quello presunto, semplicemente ostaggio d’una guerra che se ha per contendenti Hamas e l’Idf va a colpire soggetti inermi, prima i frequentatori del rave party e i kibbutzim israeliani, e da due mesi l’intero popolo della Striscia. La falsità dell’intervento d’Israele per liberare i concittadini rapiti è dimostrata dalla totale incapacità di compiere quest’operazione e dalla primaria volontà di portare morte e squallore su quel territorio. Fino al punto di assassinare, accanto a migliaia di gazesi, alcuni ostaggi stessi, l’ultimo Sahar Baruch, stritolato sotto le macerie d’una moschea bombardata. Cecità assoluta d’un delinquente che continua a guidare un Paese spaccato, ma impotente e bloccato nella volontà di liberarsene, mentre l’unica via per affrancare gli ostaggi israeliani in cambio di prigionieri palestinesi resta la trattativa. Che è quanto è accaduto giorni addietro e che solo i sanguinari non vogliono ripetere. Coi suoi abusi il governo d’Israele riporta la storia giuridica internazionale indietro di secoli, vanificando non solo qualsiasi diritto per presunti detenuti, ma lo stesso habeas corpus.
Alberto Bradanini – I 7 crimini che rendono un governo genocidario
La lucida, coraggiosa giornalista australiana, Caitlin Johnstone, afferma[1] che se un governo dovesse dare inizio al genocidio di un popolo – una strategia destinata a durare nel tempo, anni o decenni, a meno che non riuscisse a cacciarli prima, dalla loro terra, con la forza – inizierebbe con l’eliminazione del maggior numero possibile di donne e bambini[2]. La loro soppressione, com’è evidente[3], risolverebbe il problema nella culla, è il tragico caso di rilevare, impedendo il riprodursi di un popolo che quell’ipotetico governo genocidario intendesse spazzar via. A ben guardare quel governo farebbe esattamente ciò che Israele sta facendo a Gaza.
Quel governo genocidario prenderebbe poi di mira i civili e le infrastrutture civili per rendere assai difficile o impossibile la sopravvivenza della popolazione da eliminare. Guarda caso si tratta proprio di quello che Israele sta facendo a Gaza[4].
Sempre quel governo genocidario punterebbe quindi ai centri culturali, con il fine di distruggere le radici storiche della popolazione da sopprimere, demolendo luoghi di cultura, musei ed edifici religiosi[5]. Sarà anche qui una coincidenza, ma è esattamente ciò che Israele sta facendo a Gaza[6].
Sempre quell’ipotetico governo genocidario cercherebbe anche di colpire i membri migliori, i più preparati e competenti di quella sciagurata popolazione, sterminando medici, avvocati, accademici, giornalisti e leader di pensiero, al fine di impedire la possibile ricostituzione di quella civiltà che intende depennare dalla mappa del mondo. Ancora una volta, esso farebbe esattamente ciò che sta facendo Israele a Gaza[7].
Inoltre, per condividere le responsabilità dei crimini commessi (non si sa mai che un giorno qualcuno possa essere chiamato a rendere conto!), quell’ipotetico governo incoraggerebbe tutti i membri della leadership del paese (non solo della compagine governativa) a far uso di tale retorica genocida, mascherata o esplicita, affinché tale progetto appaia una scelta di tutto il paese, non solo di qualche settore politico-militare temporaneamente uscito di testa. Sarà un caso, ma vengono alla memoria alcune espressioni utilizzate dal governo israeliano (ad es. Yoav Gallant, Min. della Difesa, secondo il quale i palestinesi sono animali umani[8]) quando ha spiegato al mondo cosa intende fare a Gaza[9].
Quel medesimo governo genocidario aggredirebbe poi la popolazione indesiderata con ogni mezzo – bombardamenti aerei, ordigni al fosforo bianco o di qualsiasi altro colore – forzandola a dirigersi verso il confine[10], facendo poi trovare le altre nazioni davanti alla tragica scelta di accogliere quella misera umanità, con tutti gli inconvenienti politici e sociali che tale scelta comporterebbe, o di assistere a un altro massacro, sulla base del principio di diritto internazionale auto-generato da quello stesso governo genocidario e sintetizzabile come segue: “vi avevo avvertiti, non fingete di ignorare le conseguenze della vostra colpevole inerzia”. E per aiutare quelle nazioni a decidere in fretta continuerebbero a piovere su quelle genti esplosivi di ogni genere, mentre i loro spazi di vita si ridurrebbero sempre più, inesorabilmente…
Pepe Escobar – “L’orrore! L’orrore!”, rivisitato in Palestina
“Mistah Kurtz – è morto”.
Joseph Conrad, Cuore di tenebra
Joseph Conrad disse una volta che prima di andare in Congo era un animale semplice. Fu in una di quelle terre parzialmente tracciate dalla crudeltà e dall’ipocrisia dell’etica imperiale che Conrad scoprì il colonialismo europeo nella sua incarnazione più terribile, debitamente rappresentata in Cuore di tenebra, una delle grandi epopee di sensibilizzazione della storia della letteratura.
Fu in Congo che Conrad, di etnia polacca, nato in quella che ancora oggi è conosciuta come “Ucraina”, allora controllata dalla Polonia, e che iniziò a scrivere in inglese solo a 23 anni, perse per sempre ogni illusione sulla missione civilizzatrice della sua razza.
Altri eminenti europei del suo tempo sperimentarono senza soluzione di continuità lo stesso orrore: partecipando a spettacoli di atrocità di conquista, aiutando le Metropoli a saccheggiare e depredare l’Africa, usando il continente come sfondo per le loro avventure giovanili e per i loro riti di passaggio, o mettendo alla prova il loro coraggio solo “salvando” le anime dei nativi.
Hanno attraversato il cuore selvaggio del mondo e hanno fatto fortuna, guadagnato reputazione o espiato i loro peccati solo per tornare al dolce conforto dell’incoscienza, quando non venivano spediti indietro in una bara, naturalmente.
Per dominare popolazioni “primitive” assortite, la Britannia ha sostituito il ferro e la spada con il commercio. Come ogni fede monoteistica, credevano che ci fosse un solo modo di essere; un solo modo di bere il tè; un solo modo di giocare al gioco, qualsiasi esso fosse. Tutto il resto era considerato non civilizzato, selvaggio, brutale, al massimo fornendo materie prime e forti mal di testa.
La giungla interiore
Per la sensibilità europea, il mondo subequatoriale, in realtà l’intero Sud globale, era il luogo in cui l’uomo bianco si recava per il trionfo personale o per la dissoluzione, diventando in qualche modo “uguale” ai nativi. La letteratura, dall’epoca vittoriana in poi, è piena di eroi che viaggiano verso latitudini “esotiche” dove le passioni – come i frutti tropicali – sono più grandi che in Europa, e forme perverse di conoscenza di sé possono essere sperimentate fino all’oblio.
Conrad stesso ha collocato i suoi eroi torturati in luoghi “oscuri” della Terra, per espiare le loro ombre insieme alle ombre del mondo, lontano dalla “civiltà” e dalle sue punizioni convenzionali.
E questo porta a Kurtz in Cuore di tenebra: è un personaggio a sé stante, perché arriva a un estremo di conoscenza di sé praticamente inedito nella letteratura europea, affrontando la piena rivelazione della malignità della sua missione e della sua specie.
In Congo, Conrad ha perso l’innocenza. E il suo protagonista perse la ragione.
Quando Kurtz è passato al cinema in Apocalypse Now di Coppola e la Cambogia ha sostituito il Congo come Cuore di Tenebra, ha denigrato l’immagine dell’Impero. Così il Pentagono inviò un guerriero-intellettuale per ucciderlo, il capitano Willard. Coppola raffigura lo spettatore passivo Willard come ancora più folle di Kurtz: ed è così che realizza lo smascheramento psichedelico dell’intera farsa del colonialismo civilizzatore.
Oggi non abbiamo bisogno di salpare o di imbarcarci su una carovana alla ricerca delle sorgenti dei fiumi nebbiosi per vivere l’avventura neo-imperiale.
Basta accendere lo smartphone per seguire un genocidio, in diretta, 24 ore su 24, 7 giorni su 7, anche in HD. Il nostro incontro con l’orrore… l’orrore – immortalato nelle parole di Kurtz in Cuore di tenebra – può essere vissuto mentre ci si rade al mattino, si fa pilates o si cena con gli amici.
E proprio come Coppola in Apocalypse Now, siamo liberi di esprimere uno stupore morale umanista di fronte a una “guerra”, in realtà un massacro, che è già persa – impossibile da sostenere eticamente.
Oggi siamo tutti personaggi conradiani, che intravedono solo frammenti, ombre, mescolate allo stupore di vivere in un’epoca macabramente memorabile. Non c’è possibilità di cogliere la totalità dei fatti – soprattutto quando i “fatti” sono fabbricati e riprodotti o rafforzati artificialmente.
Siamo come fantasmi, questa volta non di fronte alla grandiosità della natura, o attraversando la giungla fitta e irreversibile; ma inseriti in un’urbanità devastata come in un videogioco, coautori della sofferenza senza sosta. Il Cuore di Tenebra viene costruito dall'”unica democrazia” dell’Asia occidentale in nome dei “nostri valori”.
Ci sono così tanti orrori invisibili messi in atto dietro la nebbia, nel cuore di una giungla ora replicata come una gabbia urbana. Guardando impotenti l’uccisione selvaggia di donne e bambini, il bombardamento a tappeto di ospedali, scuole e moschee, è come se fossimo tutti passeggeri di una nave allo sbando in balìa delle onde che precipita in un vortice, ammirando la potente maestosità dell’intero scenario.
E stiamo già morendo prima ancora di intravedere la morte.
Siamo gli epigoni degli Hollow Men di T.S. Eliot. Le grida ossessionanti della giungla non provengono più da un emisfero “esotico”. La giungla è qui, si insinua dentro tutti noi.
Da Gaza a Khan Yunis: estremismo contrapposto in ebraico-palestinese – Ennio Remondino
La cronaca della vergogna. Khan Yunis, la seconda città della Striscia attaccata via terra. Wall Street Journal: cinque pompe per allagare le gallerie sotterranee di Hamas. Oltre 16mila palestinesi uccisi in 60 giorni di offensiva. Unicef: le zone designate dall’esercito israeliano come «sicure» sono edifici in rovina, angoli di strada e marciapiedi.
Il macello dei Gaza letto in ebraico-palestinese
«La guerra Israele-Ḥamās esula dalle norme internazionali. Così la Carta delle Nazioni Unite perde significato. Noi e i nostri governi dovremmo allarmarci per quanto sta accadendo in Palestina», avverte Widad Tamimi* su Limes. «Nascere metà ebrea e metà palestinese ha un sicuro vantaggio: insegna a una bambina che la pace non è un’utopia e che ogni matrimonio, seppur complicato, può essere salvato».
Guida d’eccezione tra i contrapposti estremismi
Il conflitto israelo-palestinese offre un esempio infelice quanto calzante della debolezza congenita delle norme internazionali, la premessa. «Le dinamiche tra Hamas e Israele, in particolare, cercano spazi alternativi alla norma e poggiano su narrazioni che manipolano realtà drammatiche. Entrambe le parti sfruttano la sofferenza della gente a sostegno della propria causa».
Hamas
Il movimento armato palestinese mira a costituire uno Stato islamico. Nonostante i palestinesi professino più di un credo, con tutt’al più in comune l’unicità del Dio in cui credono e il nome con cui lo chiamano – dato che la parola Allah altro non è che la traduzione di Dio in arabo. Ma la gestione della loro società – con l’eccezione di Hamas, che secondo gli ultimi sondaggi arrancava al 30% dei consensi – è sempre stata notoriamente laica.
Stato ebraico
Israele, invece, propone due criteri diametralmente opposti ma volti allo stesso risultato: chiede al mondo di dimenticare i 75 anni di occupazione, inclusi i soprusi commessi ai danni dei palestinesi, e cerca di stabilire un nesso tra il barbarico attacco del 7 ottobre e la Shoah. In entrambi i casi ci obbliga a una colpevole mistificazione della storia pur di zittire le critiche che il mondo rivolge a Gerusalemme. E lo fa interrompendo una tradizione del tutto ebraica – scavare nel passato, tornare alle radici e ripercorrere la storia al contrario per capire i giorni che viviamo – e ripescando nell’antisemitismo dell’Europa di inizio Novecento.
Il dopo 7 ottobre
La gravità degli attacchi del 7 ottobre piombata su un vuoto apparente. Ciò che il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres cercava di dirci era più articolato, ovvero che contestualizzare gli eventi serve a comprenderne la genesi, afferrarne la complessità e formulare i passi da compiere per invertire le tendenze nocive o consolidare quelle positive. Tale esercizio non toglie né aggiunge giustificazioni ai massacri.
Spiegare non è legittimare
La distorsione degli eventi di oggi riletti attraverso riferimenti al passato, manipolandoli facendo leva sull’emotività, invece che aderire alla complessità insita nella storia contemporanea, dovrebbe allarmarci. L’accusa di antisemitismo, oltre che avanzare un imprudente ‘Al lupo! Al lupo!’ come nella storia di Pierino, rischia di trasformarsi nella negazione del diritto di parola, se posto a prescindere dalle ragioni sulla bocca di tutti quelli che contestano il comportamento di Gerusalemme…
Un esercito di avvocati denuncia Israele alla Corte Penale Internazionale per “genocidio”
Può la CPI portare in giudizio Israele per genocidio?
Intervista della stazione televisiva francese “Le Media” all’Avvocato Gilles Devers, dell’Ordine degli Avvocati di Lione, e specialista di diritto internazionale e di guerra.
Intervistatrice – Allora, buonasera, Avvocato Gilles Devers, mi sente bene?
Gilles Devers – Sì, buonasera.
Intervistatrice – Buonasera, perfetto. Lei è un avvocato del foro di Lione e si è fatto promotore di una denuncia collettiva contro Israele per genocidio e crimini di guerra alla Corte Penale Internazionale (CPI), l’istituzione giudiziaria internazionale creata nel 2002 per processare i responsabili dei crimini internazionali più gravi. La denuncia riunisce più di 500 avvocati francesi e internazionali ed è stata presentata giovedì scorso 9 novembre presso la sede della CPI all’Aia, nei Paesi Bassi. Prima di qualsiasi altra cosa, Avvocato Devers, ci conferma che la CPI ha la giurisdizione e tutti i poteri necessari per portare Israele davanti ai suoi giudici? Se le faccio questa domanda è perché molti ritengono che Israele sfugga alla giustizia internazionale e che non ha ratificato la CPI.
Gilles Devers – Sì, infatti, lo si sente dire a più riprese, ma sono molto abituato a questo discorso inteso a screditare il diritto internazionale perché lo si teme. Ma la situazione è del tutto chiara. C’è stato un dibattito sul tema con un procedimento durato circa un anno a cui hanno partecipato 80 parti, e almeno 50 in rappresentanza della parte israeliana. E si è concluso con una sentenza della Corte del 5 febbraio 2021 che ha stabilito che la Corte è competente, per cui la cosa non si discute. E la Corte che dice? Dice delle cose molto importanti, ed è per questo che, anche se la CPI non ha solo delle qualità e ci sono cose che si potrebbero modificare, bisogna ben valutare la ragione per cui ci si rivolge alla CPI.
La Corte ha detto che la Palestina è uno Stato quindi pongo la domanda: lei conosce molte giurisdizioni o delle istanze internazionali che abbiano dichiarato che “la Palestina è uno Stato pari ad altri, e quindi un palestinese è su un piano di parità con gli altri, che c’è un luogo dove i Palestinesi sono uguali agli altri?” Ebbene, lo ha fatto il Tribunale Penale Internazionale. E poi la Corte ha sentenziato che quello Stato è sovrano in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Ciò significa che questa sentenza sulla giurisdizione ha già praticamente deliberato in merito all’illegalità dell’annessione di Gerusalemme Est.
L’altro giorno ho sentito Jacques Attali che diceva “Be’, ci sono cose che dovranno essere risolte, ma Gerusalemme Est la teniamo”. Ma come la tieni, che vuol dire? La giustizia si è pronunciata, bisogna pur rispettare il diritto, soprattutto che si tratta di un diritto del tutto logico, la questione di Gerusalemme Est è già passata in giudizio, ed è sovranità palestinese.
Poi la Corte ha stabilito che il governo di Ramallah, quindi il Governo dello Stato di Palestina, poteva trasferire la sua competenza penale alla CPI, per cui il Procuratore dispone già di che indagare su tutti i fatti che sono accaduti, uno dei quali è stato commesso nel territorio, e questo riguarda sia il Signor Netanyahou che il Signor Biden in qualità di complice, o il contrario, perché noi cominciamo a chiederci chi conduca veramente le operazioni…
“C’erano corpi ovunque. Scene orribili, sufficienti a far piangere una pietra” Il viaggio straziante di una famiglia fuori da Gaza City – Zakaria Baker
Zakaria Baker e la sua famiglia sono stati costretti dalle bombe israeliane a lasciare la loro casa nel campo profughi di Al-Shati il 7 novembre. Mentre viaggiavano verso sud, per oltre 15 chilometri, sono stati testimoni di incredibili orrori, e non tutti sono sopravvissuti al viaggio. Questa è la loro storia.
Nota dell’editore: la seguente testimonianza è stata resa da Zakaria Baker l’11 novembre 2023. La testimonianza è stata raccolta da Amplify Gaza Stories, un’organizzazione che lavora sul campo a Gaza per raccogliere e tradurre testimonianze degli abitanti di Gaza, garantendo che le loro storie di lotta, resilienza e sopravvivenza vengano ascoltate.
Sono Zakaria Baker, una delle persone sfollate dalle proprie case quattro giorni fa, il 7 novembre 2023.
L’inizio dell’evacuazione si è svolto così: un ufficiale dell’intelligence israeliana ha chiamato uno dei miei cugini. C’erano circa una ventina seduti su delle sedie. Il bombardamento del campo profughi di Al-Shati non si fermava un solo secondo. I missili lanciati contro il campo non potevamo né vederli né sentirli. Erano barrel bomb. Quando vennero lanciate su un blocco residenziale di sei o sette case, lo distrussero completamente. La cosa più spaventosa e dolorosa è che questi missili vengono lanciati contro case abitate. Nel campo di Al-Shifa i corpi sono ancora sotto le macerie. Potevamo sentirne l’odore.
L’ufficiale dell’intelligence israeliana ha chiamato uno dei miei cugini che era seduto con noi e ha detto: “Bakers, perché non ve ne siete andati? I vostri vicini sono stati evacuati. Avete 30 minuti per partire. Se non lo fate, vi faremo cadere la morte addosso”.
Ok, mezz’ora… Cosa facciamo? Siamo famiglie con bambini e dobbiamo prepararci a partire?…
Gli Stati Uniti complici di Israele nella Pulizia Etnica dei palestinesi di Gaza – Richard Silverstein
Gli Stati Uniti hanno stanziato miliardi per facilitare le espulsioni da Gaza.
Joe Biden, il Segretario di Stato Blinken e la Vicepresidente Kamala Harris hanno tutti ripetuto le stesse richieste di Israele riguardo alla guerra in corso: nessuna appropriazione israeliana del territorio di Gaza per una zona cuscinetto e nessun “trasferimento forzato” della popolazione di Gaza:
“La Vicepresidente ha ribadito che in nessuna circostanza gli Stati Uniti permetteranno il trasferimento forzato di palestinesi da Gaza o dalla Cisgiordania”, si legge nella dichiarazione della Casa Bianca.
La parola chiave in quella frase è “forzato”. Senza leggerlo attentamente, si potrebbe pensare che gli Stati Uniti si oppongano alla Pulizia Etnica a Gaza. Ma non è così. Si oppone solo alla Pulizia Etnica forzata, che eufemizza come “rilocalizzazione”. Il risultato è che gli Stati Uniti non si oppongono alla ricollocazione volontaria. In altre parole, non abbiamo problemi con gli abitanti di Gaza che se ne vanno di loro spontanea volontà.
Ma che cosa significa “volontario”? Per Israele, significa chiunque lasci Gaza, non importa quale sia il motivo. Se hai una famiglia di 20 persone e la tua casa è stata bombardata e non hai cibo per nutrire i tuoi bambini e decidi che devi andartene è volontario? No certo che no. Ma Israele lo descriverebbe come tale. È come se una donna accusasse un uomo di stupro, mentre in sua difesa lo descrive come “consensuale”. Quando qualcuno fa qualcosa contro la propria volontà, non è volontario. Per qualcuno che si sente costretto a fare qualcosa, ciò non significa che voglia farlo.
Nel caso in cui qualcuno dubiti delle intenzioni dell’amministrazione Biden a questo riguardo, legga il linguaggio nel disegno di legge di aiuti supplementari da 106 miliardi di dollari (98 miliardi di euro) che fornisce aiuti militari e umanitari a Ucraina e Israele. DAWN (Democrazia per il Mondo Arabo) notò per la prima volta quanto fosse problematico:
Queste risorse sosterrebbero i civili sfollati e colpiti dal conflitto, compresi i rifugiati palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, e risponderebbero ai potenziali bisogni degli abitanti di Gaza in fuga nei Paesi vicini. Ciò includerebbe anche i potenziali costi critici delle infrastrutture umanitarie necessari per fornire l’accesso a un sostegno di base e vitale alla popolazione rifugiata. Questa crisi potrebbe comportare uno sfollamento oltre il confine e un aumento dei bisogni umanitari regionali, e i finanziamenti potrebbero essere utilizzati per soddisfare le esigenze di programmi in evoluzione al di fuori di Gaza.
Perché gli abitanti di Gaza “fuggono nei Paesi vicini?” Chi li farebbe partire? L’uso del termine “fuggire” è in linea con l’idea che questi rifugiati lo farebbero volontariamente, per usare il termine di Harris.
Questa parte del disegno di legge complessivo sugli aiuti stanzia 14 miliardi di dollari (13 miliardi di euro) in trasferimenti di armi a Israele per perseguire il suo Genocidio in Palestina. Ma una parte di ciò potrebbe facilitare il “trasferimento volontario” di gran parte della popolazione di Gaza. A questo proposito, un piano ufficiale del Ministero dell’Intelligence israeliano stima che spedire 2,5 milioni di abitanti di Gaza in Egitto costerebbe dai 5 agli 8 miliardi di dollari (4,6 – 7,4 miliardi di euro). Sebbene gli Stati Uniti non abbiano necessariamente avviato questo particolare piano, certamente sarebbe necessaria una somma così consistente (o maggiore) per espellere “correttamente” la popolazione di Gaza.
Il New York Times ha riferito che Israele ha presentato a sei Paesi: Stati Uniti, Regno Unito, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Giordania e presumibilmente Arabia Saudita (anche se il suo nome non è stato menzionato), un piano per “trasferire”, cioè espellere “centinaia di migliaia” di abitanti di Gaza.
Secondo sei alti diplomatici stranieri, Israele ha silenziosamente cercato di ottenere sostegno internazionale per il trasferimento di diverse centinaia di migliaia di civili da Gaza all’Egitto per la durata della sua guerra nel territorio.
Leader e diplomatici israeliani hanno proposto privatamente l’idea a diversi governi stranieri, definendola un’iniziativa umanitaria che consentirebbe ai civili di sfuggire temporaneamente ai pericoli di Gaza per rifugiarsi nei campi profughi nel deserto del Sinai, appena oltre il confine con il vicino Egitto.
In altre parole, Israele ha proposto di fare agli odierni rifugiati di Gaza esattamente quello che ha fatto a 1 milione di palestinesi durante la Nakba: espellerli nei campi profughi deserti di Gaza, Libano, Siria e Giordania. L’idea che questa espulsione durerebbe solo “per la durata della sua guerra nel territorio” è assurda. Una volta partiti non torneranno più. Gli abitanti di Gaza lo sanno. L’Egitto e la Giordania lo sanno. Ecco perché si sono rifiutati di lasciarsi convincere a seguire questa farsa.
Si noti che il linguaggio della proposta di aiuto statunitense è simile al piano israeliano. Entrambi sono inquadrati come un gesto umanitario per i rifugiati “in fuga dai pericoli di Gaza”. Per dove? Il deserto del Sinai, che ovviamente li aspetta a braccia aperte. Per non parlare degli stessi egiziani, da gente ospitale quale sono, che stenderebbero il tappeto di benvenuto per circa un milione di rifugiati affamati.
Non c’è quasi alcun dubbio che Israele e l’amministrazione Biden abbiano architettato questo piano insieme. È semplicemente sorprendente che gli Stati Uniti, che fanno mostra di rispettare i diritti umani a livello globale, li tradiscano in modo così eclatante.
Il professor Rashid Khalidi rende ancora più forte la tesi della collusione statunitense. In un’intervista rilasciata alla rivista Foreign Policy dice:
“All’inizio di questa guerra, il Presidente Biden ha inviato il Segretario di Stato Anthony Blinken per trasmettere agli egiziani e ai giordani la richiesta di consentire l’espulsione dei palestinesi nel loro territorio. Questo è vergognoso. Questa è la partecipazione diretta americana alla Pulizia Etnica di una parte della Palestina storica. Si sono immediatamente tirati indietro quando gli egiziani e i giordani hanno spiegato perché non avrebbero mai permesso che ciò accadesse”.
In questo, Biden ha fatto gli interessi di Israele come è stato fatto per 50 anni. Ma questa volta ha cospirato con Israele per commettere una grave violazione del diritto internazionale. Ma non preoccupatevi, gli Stati Uniti non hanno ratificato lo Statuto di Roma, quindi Biden, Blinken e Netanyahu non siederebbero sul banco degli imputati al tribunale dell’Aja. Teoricamente Netanyahu potrebbe essere processato. Ma non con l’attuale Procuratore Generale della Corte Penale Internazionale.
Ho interrogato il Dipartimento di Stato, chiedendo se potevano confermare che Blinken aveva trasmesso un piano del genere all’Egitto e alla Giordania. Invece di rispondere alla mia domanda, ha inviato un testo che fa eco alle parole della Vicepresidente Kamala Harris sopra riportate:
- Gli Stati Uniti continueranno inoltre a sostenere gli sforzi per un passaggio sicuro per i civili a Gaza in cerca di sicurezza.
- Gli Stati Uniti non supportano alcun trasferimento forzato di palestinesi fuori Gaza.
- Gli Stati Uniti non supportano e non sosterranno alcuno spostamento forzato dei palestinesi dalle loro case a Gaza.
Chiaramente, una volta respinto il piano da Egitto e Giordania, gli Stati Uniti hanno modificato la loro posizione, ma solo leggermente. Anche se sembrano aver abbandonato la proposta di “trasferimento” avanzata all’Egitto e alla Giordania, non lo hanno fatto affatto. Mantengono un linguaggio che consente a Israele di espellere gli abitanti di Gaza purché se ne vadano volontariamente, lasciando a Israele la definizione del termine. Questa è Pulizia Etnica con un altro nome. L’abbiamo abbellita chiamandola “assistenza ai rifugiati” e provvedendo ai “bisogni degli abitanti di Gaza sfollati oltre confine”. Siamo così magnanimi e generosi. Ci prendiamo cura dei bambini e degli orfani. Non siamo grandiosi?! Il tutto tradendo gli abitanti di Gaza e trattandoli come bestiame spedito al macello, invece che come esseri umani.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
Financial Times: Il bombardamento del nord di Gaza si avvicina ai livelli della Seconda Guerra Mondiale
Sono passati 60 giorni dalla rappresaglia di Israele con terrificanti bombardamenti contro la Striscia di Gaza dopo l’operazione della Resistenza palestinese denominata “Tempesta di al Aqsa”, in risposta ai crescenti crimini di Tel Aviv nella Cisgiordania occupata e nell’enclave costiera assediata.
La portata del massacro è ormai sotto gli occhi di tutti, sono più di 16.000 i morti, più della metà donne e bambini.
È una prova di onnipotenza distruttiva che, al contrario, deve essere pubblicizzata come monito. Chi si ribella sarà schiacciato con ogni mezzo, non importa quale sarà il prezzo in termini di vite umane, tutto avverrà con il beneplacito delle “democrazie” occidentali.
Indirettamente o meno, questo monito si riflette in un articolo pubblicato ieri dal Financial Times.
Senza troppi giri di parole, il FT riporta che l’entità della devastazione e della distruzione nel nord di Gaza in meno di sette settimane si è avvicinata ai livelli visti durante gli anni di bombardamenti a tappeto delle città tedesche durante la Seconda Guerra Mondiale.
Nell’articolo si legge che oltre il 60% degli edifici nel nord di Gaza sono stati gravemente danneggiati. In tutto il territorio costiero più di 300.000 unità residenziali sono state danneggiate o distrutte.
Se non fosse chiaro, nell’articolo si fa riferimento ai diversi tipi di munizioni che l’esercito israeliano sta usando contro la Striscia di Gaza, comprese le “dumb bombs” MII7 non guidate e le “earth-shaking” GBU-31 da 2.000 libbre che erano tipicamente gli ordigni più grandi usati dalle forze statunitensi nella città irachena di Mosul, per citare un altro storico massacro.
In merito alle cifre, il quotidiano britannico ricorda che ”più di 15.000 abitanti di Gaza erano morti prima ancora che Israele iniziasse la sua offensiva nel sud la scorsa settimana”, pur precisando “che Israele sostiene che la cifra includa fino a 5.000 combattenti di Hamas”, fa un confronto storico inequivocabile: “nei primi nove mesi dell’invasione americana dell’Iraq nel 2003 furono registrati 12.000 civili uccisi.”
Il media britannico cita lo storico militare americano Robert Pape, autore di Bombing to Win, uno studio fondamentale sulle campagne di bombardamento del XX secolo: “”Dresda, Amburgo, Colonia: alcuni dei bombardamenti più pesanti mai avvenuti al mondo sono ricordati dai nomi dei luoghi”, per questa ragione “Gaza è già una campagna di punizioni civili molto elevata. Passerà alla storia come una delle operazioni più pesanti mai intraprese con armi convenzionali”.
Come ha detto, lunedì scorso, Richard Peeperkorn rappresentante dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) nei territori palestinesi occupati, a Gaza “siamo vicini all’ora più buia dell’umanità”.
7 ottobre, la vera storia del “gruppo di soccorso” israeliano fonte delle principali fake news – Max Blumenthal (The Gray Zone)
Fondato da uno stupratore seriale noto come il “Jeffrey Epstein degli Haredi”, il gruppo di soccorso ultraortodosso israeliano ZAKA è responsabile di alcune tra le più oscene falsificazioni delle atrocità del dopo il 7 ottobre, dai bambini decapitati allo “stupro di massa”, fino al feto strappato alla madre.
Il Segretario di Stato Tony Blinken e il Presidente Joseph Biden hanno fatto eco a testimonianze ZAKA palesemente false sulle atrocità di Hamas.
Accusata di frode finanziaria, ZAKA sta sfruttando la notorietà del 7 ottobre per raccogliere somme di denaro senza precedenti.
Il rivale, United Hatzalah, ha raccontato storie false di bambini bruciati nei forni mentre si avvicina al traguardo di 50 milioni di dollari di raccolta fondi.
Durante un’udienza del 31 ottobre al Senato sulla guerra di Israele a Gaza, il Segretario di Stato Antony Blinken ha esposto le sue ragioni per rifiutare un cessate il fuoco. Esibendo tutta l’emozione possibile per un tetro funzionario del Partito Democratico, Blinken ha evocato una scena raccapricciante per illustrare la ferocia di Hamas e l’impossibilità di negoziare con una simile organizzazione: “Un bambino e una bambina, di 6 e 8 anni, e i loro genitori intorno al tavolo della colazione”, ha raccontato Blinken. “”Al padre è stato cavato un occhio davanti ai suoi figli. Il seno della madre tagliato, il piede della bambina amputato, le dita del ragazzo tagliate prima dell’esecuzione”.
Il Segretario di Stato ha concluso: “Ecco con cosa ha a che fare questa società [israeliana]”.
Sebbene Blinken non abbia specificato la fonte della sua inquietante affermazione – e se non è stato spinto a farlo da qualche senatore – essa corrisponde alla testimonianza di Yossi Landau, il responsabile delle operazioni per la regione meridionale di Israele di un’organizzazione religiosa di “identificazione delle vittime di disastri” chiamata ZAKA. In effetti, Landau ha ripetuto in varie forme la storia a cui Blinken ha fatto riferimento dal 12 ottobre, descrivendo come i miliziani di Hamas abbiano ferocemente mutilato e ucciso un bambino di 6 e 8 anni e i loro genitori nel Kibbutz Beeri prima di pranzare nella loro casa.
Nonostante la presenza di diversi potenziali testimoni all’interno di Beeri prima che ZAKA arrivasse a raccogliere i cadaveri, non sono ancora emerse testimonianze indipendenti che confermino le affermazioni di Landau. Inoltre, non sono stati registrati decessi di fratelli e sorelle di età compresa tra i 6 e gli 8 anni a Beeri il 7 ottobre. Anche la documentazione relativa a un bambino ucciso nel modo descritto da Landau è inesistente, così come le foto della famiglia assassinata da lui descritta. In effetti, gli unici fratelli vicini a questa fascia d’età che sono morti nella comunità quel giorno, due gemelli di 12 anni, Liel e Yanai Hetrzroni, sono stati uccisi dai bombardamenti dei carri armati israeliani.
La storia di Landau – e, per estensione, la testimonianza di Blinken davanti al Senato – sembra quindi essere stata inventata di sana pianta; una cinica montatura volta a drammatizzare la presunta barbarie di Hamas al fine di ampliare lo spazio politico per la furia di Israele nella Striscia di Gaza. Come dimostrerà questa inchiesta, il racconto di Landau è stato solo una delle tante frottole inventate da una ristretta cerchia di personaggi ambigui che sono riusciti a plasmare la narrazione ufficiale del 7 ottobre nei media occidentali…
Una storia di sfollamento e di perdita della mia patria – Tareq Hajjaj
La nostra Nakba viene trasmessa in tempo reale affinché il mondo intero possa vederla. Tutti possono assistere al nostro massacro e alla nostra morte collettiva. Il nostro semplice sogno è stato distrutto da Israele, per l’unico peccato dell’essere nati sotto occupazione.
Palestinesi sfollati arrivano a Rafah in fuga dal bombardamento israeliano di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, 5 dicembre 2023. (Foto: © Abed Rahim Khatib/dpa via ZUMA Press APA Images)
Quando ho lasciato la mia casa nel quartiere Shuja’iyya di Gaza City per recarmi nel vicino quartiere di Zeiytoun, sapevo che questa non sarebbe stata l’unica tappa nel viaggio di sfollamento della mia famiglia. Mi era chiaro cosa sarebbe successo dopo. Israele avrebbe approfittato di questa opportunità per porre fine alla presenza palestinese a Gaza ed espellerci nel Sinai. Questo è ciò che Israele ha sempre desiderato e che fino ad ora era stato fermato solo dal rifiuto dei leader arabi.
Questa volta, però, sembra che tutto sia chiaro e pianificato in anticipo. Questa volta c’è il pericolo reale di perdere la nostra patria, forse per sempre, e di essere costretti a rifugiarci in Egitto. La nostra sola scelta è restare e rischiare morire. Siamo costretti a lasciare le nostre case distrutte. Siamo costretti ad abbandonare i nostri ricordi sepolti sotto le macerie. Siamo costretti a lasciare andare i sogni che abbiamo costruito in quelle case.
Dopo aver lasciato il nord di Gaza per andare a sud, ci siamo stabiliti a Khan Younis, ma non mi illudevo che saremmo rimasti lì per molto tempo, anche se l’esercito la definiva una “zona sicura”. Ben presto anche Khan Younis sarebbe stata svuotata dei suoi abitanti e tutti sarebbero stati costretti a dirigersi verso Rafah, al confine con l’Egitto. E dopo che Khan Younis sarà stata svuotata dei suoi abitanti – dopo che le sue infrastrutture saranno state distrutte, dopo che i suoi edifici saranno stati rasi al suolo e dopo che coloro che sono rimasti saranno uccisi – sarà il momento in cui sarà il turno di Rafah di essere sfollata, ma questa volta sarà per andare via dalla Palestina.
In fuga da Khan Younis
Venerdì scorso a Khan Younis ci siamo svegliati con il rumore di un forte bombardamento. Il suono era vicino e terrificante. Nelle settimane precedenti, anche se Khan Younis era stata attaccata, si poteva ancora dire che le condizioni erano relativamente stabili, perché in quella parte della Striscia il tipo di bombardamento era meno intenso e non 24 ore su 24. Non più.
Il bombardamento era ormai ovunque. Scuoteva tutto. Chiunque si trovava in casa veniva buttato a terra dalla forza delle esplosioni vicine. Tutti questi bombardamenti sono avvenuti la mattina presto, tra le 5:00 e le 6:00. Alle 7:00 l’esercito di occupazione ha iniziato a chiamare i nostri cellulari. Tutti in quella zona di Khan Younis hanno ricevuto la stessa chiamata che avvisava i residenti di aree specifiche di evacuare.
“La vostra zona di residenza è ormai diventata un pericoloso campo di battaglia. È necessario evacuare immediatamente nelle aree sicure indicate dalle forze di difesa israeliane”, recita la registrazione dell’esercito. Una di queste aree era chiamata al-Mawasi, nella parte occidentale di Khan Younis, e si estendeva a sud lungo la costa fino a Rafah.
All’inizio la mia famiglia ha deciso di non trasferirsi perché non avevamo un posto che potesse ospitare una famiglia composta principalmente da donne, bambini e anziani. Eravamo in otto e vivevamo nella stessa casa: la mia famiglia, composta da quattro persone, e la famiglia di mio suocero, anch’essa composta da quattro persone. Abbiamo deciso di non andare in nessuno dei centri di accoglienza per sfollati, dove le condizioni sono così terribili che gli anziani e i fragili tra noi non sarebbero sopravvissuti. Mia madre è anziana e soffre di diabete e malattie cardiache. E’ anche cieca. Abbiamo deciso di restare
Siamo rimasti fermi in quella decisione fino alla sera di quello stesso giorno. Sono uscito in strada per vedere come la gente reagiva alle telefonate dell’esercito. Ho visto persone fare le valigie e lasciare la zona. La gente abbandonava Khan Younis in massa mentre le donne cercavano carri trainati da animali per trasportare le loro cose. I più fortunati sono riusciti a utilizzare un’auto o un camion, ma la maggior parte procedeva a piedi, trasportando borse, valigie, zaini, bombole di propano, materassi arrotolati e prodotti alimentari come la farina…
Elena Basile: “Non posso stringere mani che grondano sangue”
Solo in un giornale oggi ho visto una foto in prima pagina dell’ inferno di Gaza
Meglio morire che sopravvivere: feriti, mutilati senza ospedali e medicine senza antidolorifici senza nulla.
I dannati della terra bersaglio indiscriminato di continui bombardamenti di un Paese che non ricorda la sua storia e le sofferenze del popolo ebraico. Dimenticati dall’Occidente democratico che difende i diritti umani?
Dimenticati dalla stampa oscena che fa gerarchie tra i popoli.
Il razzismo é già tornato.
I miliziani progressisti hanno il coraggio di fronte a questa barbarie di balbettare che Israele ha il diritto di difendersi?
Vergogna.
Ormai possono avallare tutto.
La menzogna, la delegittimazione del dissenso, la condanna di un popolo intero, dei palestinesi.
Vi ricordate Madeleine Albright? Centinaia di bambini morti in Irak? ” é triste ma ne valeva la pena”.
Questa la logica: l’Occidente corrotto e gradasso può permettersi tutto.
Per spostare in suo favore gli equilibri del mondo.
E non ci riesce neanche.
Tattiche criminali che lasciano sangue e distruzione e non raggiungono gli obiettivi.
La classe di servizio: diplomatici giornalisti perfino gli accademici pronti a giustificare tutto.
Li porterei per un giorno intero a soffrire quello che la gente sta soffrendo a Gaza
Chissà forse aprirebbero gli occhi.
Disgustata dall’immoralità diffusa nella classe dirigente.
Con quanta ipocrisia coprono le nefandezze.
Fino all’ultimo, fino a un giorno prima della bara, si vendono al miglior offerente
Non posso stringere mani che grondano sangue.
*Scrittrice. Ex ambasciatrice. Post Facebook del 6 dicembre 2023
Alessandro Orsini – “Caro Bruno Vespa, l’Unione europea appoggia l’Isis occidentale”
A porta vuota.
Caro Bruno Vespa, la prossima volta che inviterà a Porta a Porta un ambasciatore piangi-piangi, ecco che cosa un giornalista obietterebbere alla lacrimuccia sulla gota.
Israele colpisce i civili a Gaza intenzionalmente.
Volete una prova certa? Eccola. Netanyahu ha appena avvertito Hezbollah che se inizierà una guerra totale trasformerà “il Libano in Gaza e Khan Yunis”.
Queste parole di Netanyahu dimostrano che Israele è uno Stato terrorista secondo la definizione suggerita dalla letteratura scientifica sul terrorismo. Israele ha una strategia di Stato basata sul massacro dei civili e la violazione sistematica del diritto umanitario e delle leggi di guerra. E’ dunque falso ciò che affermano i media dominanti in Italia secondo cui Israele uccide i bambini palestinesi perché Hamas li usa come scudi umani. Israele sta uccidendo migliaia di bambini palestinesi perché intende uccidere i bambini palestinesi. Il governo Netanyahu – che include il volgare ministro razzista Ben-Gvir, ammiratore del terrorista Baruch Goldstein, l’autore della strage contro la moschea di Hebron del 1994 – ama uccidere i bambini palestinesi, gli procura gioia. Ciò è dimostrato anche dai tanti israeliani che scendono in piazza per esultare al suono di ogni bomba che cade su Gaza: sono gli elettori di Netanyahu e Ben-Gvir. Questi video orrendi sono nella disponibilità di tutti, anche di Bruno Vespa. E’ dimostrato dai civili israleiani che, davanti alle telecamere, scandiscono queste parole: “Palestinesi, vi uccideremo tutti, uno per uno”. Ricordate quanto noi europei fummo impressionati dalle immagini di quei musulmani che festeggiavano l’attentato contro le Torri Gemelle? Ecco, adesso capirete perché.
L’Unione europea, la Casa bianca e Israele, hanno ammazzato oltre 16000 civili palestinesi.
Blocco occidentale, blocco criminale.
Ecco la dichiarazione di Netanyahu riportata dal Jerusalem Post: https://www.jpost.com/israel-news/article-777132
Non esiste nessuna differenza tra il governo d’Israele e l’Isis. L’Unione europea appoggia l’Isis occidentale.
*Post Facebook del 7 dicembre 2023
Il grido di chi fugge – Tareq Hajjaj
Quando ho lasciato la mia casa nel quartiere Shuja’iyya di Gaza City per recarmi nel vicino quartiere di Zeiytoun, sapevo che questa non sarebbe stata l’unica tappa nel viaggio di sfollamento della mia famiglia. Mi era chiaro cosa sarebbe successo dopo. Israele avrebbe approfittato di questa opportunità per porre fine alla presenza palestinese a Gaza ed espellerci nel Sinai. Questo è ciò che Israele ha sempre desiderato e che fino ad ora era stato fermato solo dal rifiuto dei leader arabi.
Questa volta, però, sembra che tutto sia chiaro e pianificato in anticipo. Questa volta c’è il pericolo reale di perdere la nostra patria, forse per sempre, e di essere costretti a rifugiarci in Egitto. La nostra sola scelta è restare e rischiare morire. Siamo costretti a lasciare le nostre case distrutte. Siamo costretti ad abbandonare i nostri ricordi sepolti sotto le macerie. Siamo costretti a lasciare andare i sogni che abbiamo costruito in quelle case.
Dopo aver lasciato il nord di Gaza per andare a sud, ci siamo stabiliti a Khan Younis, ma non mi illudevo che saremmo rimasti lì per molto tempo, anche se l’esercito la definiva una “zona sicura”. Ben presto anche Khan Younis sarebbe stata svuotata dei suoi abitanti e tutti sarebbero stati costretti a dirigersi verso Rafah, al confine con l’Egitto. E dopo che Khan Younis sarà stata svuotata dei suoi abitanti – dopo che le sue infrastrutture saranno state distrutte, dopo che i suoi edifici saranno stati rasi al suolo e dopo che coloro che sono rimasti saranno uccisi – sarà il momento in cui sarà il turno di Rafah di essere sfollata, ma questa volta sarà per andare via dalla Palestina.
In fuga da Khan Younis
Venerdì scorso a Khan Younis ci siamo svegliati con il rumore di un forte bombardamento. Il suono era vicino e terrificante. Nelle settimane precedenti, anche se Khan Younis era stata attaccata, si poteva ancora dire che le condizioni erano relativamente stabili, perché in quella parte della Striscia il tipo di bombardamento era meno intenso e non 24 ore su 24. Non più.
Il bombardamento era ormai ovunque. Scuoteva tutto. Chiunque si trovava in casa veniva buttato a terra dalla forza delle esplosioni vicine. Tutti questi bombardamenti sono avvenuti la mattina presto, tra le 5:00 e le 6:00. Alle 7:00 l’esercito di occupazione ha iniziato a chiamare i nostri cellulari. Tutti in quella zona di Khan Younis hanno ricevuto la stessa chiamata che avvisava i residenti di aree specifiche di evacuare.
“La vostra zona di residenza è ormai diventata un pericoloso campo di battaglia. È necessario evacuare immediatamente nelle aree sicure indicate dalle forze di difesa israeliane”, recita la registrazione dell’esercito. Una di queste aree era chiamata al-Mawasi, nella parte occidentale di Khan Younis, e si estendeva a sud lungo la costa fino a Rafah.
All’inizio la mia famiglia ha deciso di non trasferirsi perché non avevamo un posto che potesse ospitare una famiglia composta principalmente da donne, bambini e anziani. Eravamo in otto e vivevamo nella stessa casa: la mia famiglia, composta da quattro persone, e la famiglia di mio suocero, anch’essa composta da quattro persone. Abbiamo deciso di non andare in nessuno dei centri di accoglienza per sfollati, dove le condizioni sono così terribili che gli anziani e i fragili tra noi non sarebbero sopravvissuti. Mia madre è anziana e soffre di diabete e malattie cardiache. E’ anche cieca. Abbiamo deciso di restare
Siamo rimasti fermi in quella decisione fino alla sera di quello stesso giorno. Sono uscito in strada per vedere come la gente reagiva alle telefonate dell’esercito. Ho visto persone fare le valigie e lasciare la zona. La gente abbandonava Khan Younis in massa mentre le donne cercavano carri trainati da animali per trasportare le loro cose. I più fortunati sono riusciti a utilizzare un’auto o un camion, ma la maggior parte procedeva a piedi, trasportando borse, valigie, zaini, bombole di propano, materassi arrotolati e prodotti alimentari come la farina.
Sono tornato nella casa in cui alloggiavamo e ho detto alla mia famiglia che tutti se ne stavano andando. Rimanevano solo poche case, ancora abitate. E’ stato allora che Israele ha bombardato due case all’interno del nostro blocco residenziale. La forza delle esplosioni ha mandato in frantumi le finestre della nostra casa. Il fumo ha riempito la stanza mentre mia madre e mio figlio neonato hanno iniziato a tossire in modo incontrollabile. Siamo scesi freneticamente in strada nel tentativo di fuggire dal fumo. Era ovunque, una nebbia grigia che trasportava polvere e odore di polvere da sparo. Non potevamo vedere nulla né davanti a noi, né l’uno verso l’altro. Urlavamo i nostri nomi e cercavamo di restare uniti. Quei momenti sono stati tra i più terrificanti che abbia mai vissuto, e le esplosioni non erano nemmeno così vicine, poiché dozzine di case ci separavano dagli obiettivi bombardati.
L’edificio di quattro piani preso di mira apparteneva alla famiglia Siam. L’attacco ha ucciso oltre quindici persone, la maggior parte delle quali donne e bambini. Una donna anziana è emersa dalla devastazione, indossava gli abiti di casa, era ricoperta di polvere, una mano semi-mozzata, ma era ancora viva. Lei era in piedi e urlava.
“Salvate i miei figli!” implorava le persone per strada accorse sul posto. Nessuno ha osato entrare, per una semplice ragione: l’esercito israeliano ora prende di mira gli edifici due volte, prima con un attacco iniziale che distrugge la casa e poi con un altro per uccidere il maggior numero di persone possibile. Questa pratica è diventata così comune che le persone a Gaza sono abituate ad aspettare il secondo attacco prima di andare a cercare i sopravvissuti
La donna anziana, sanguinante, continuava a urlare, implorare e ad aggrapparsi alle persone vicino a lei. La nostra decisione di lasciare Khan Younis è stata presa quella notte. La strategia israeliana di terrorizzarci e costringerci a fuggire ha funzionato.
L’attacco era intenzionale, un modo per dirci: questo è ciò che ti accadrà se scegli di restare.
La vita a Rafah
Abbiamo impacchettato freneticamente tutto quello che potevamo portare con noi, prendendo cibo e acqua, un po’ di farina, riso e lenticchie, cose che non sono più disponibili in tutta Gaza. Abbiamo preso ciò che abbiamo preso e abbiamo dimenticato ciò che abbiamo dimenticato nella nostra frenetica evacuazione.
Uno di noi ha chiamato un amico che possedeva un camion. Nel giro di un’ora stavamo mettendo tutto dentro, non solo la mia famiglia e quella di mio suocero, ma l’intero edificio di tre piani, compresi mio fratello e mio zio, tutti stipati nel camion. Già solo quell’immagine ci spaventava, perché sapevamo che gli aerei da guerra e i droni avrebbero potuto prendere di mira qualsiasi cosa si muovesse o apparisse sospetta.
Il viaggio a Rafah è stato devastante. Innumerevoli persone camminavano a piedi, portando tutta la loro vita tra le braccia, molti cercavano di fermarci e ci imploravano di portarli con noi. Ma non c’era posto, perché eravamo già tutti stipati uno sopra l’altro con le nostre cose.
La strada principale tra Khan Younis e Rafah, Salah al-Din Street, era già stata bombardata dagli aerei da guerra israeliani venerdì mattina presto, quindi le persone in fuga da Khan Younis hanno dovuto fare spaventose deviazioni che le hanno condotte attraverso campi agricoli e strade sterrate non illuminate, camminando di notte, nell’oscurità più nera.
Mio suocero ha chiamato sua sorella, che vive nel campo profughi di Yibna, a Rafah, chiedendole se aveva una casa dove potessimo stare. Ha detto che lei stessa era fuggita da casa in un posto più sicuro dopo che un isolato residenziale vicino a lei era stato colpito da un attacco aereo che aveva causato lo sfondamento della porta di casa sua e la caduta e la rottura dei telai delle finestre, rompendo le piastrelle sottostanti. Ma non avevamo altra scelta che andare in questa casa abbandonata, o rischiare di andare nei rifugi stracolmi di Rafah.
Siamo arrivati nel paesaggio desolato di Yibna. Metà degli edifici del campo erano stati distrutti, l’altra metà dei residenti era fuggita spaventata ed era lì che saremmo rimasti. L’intera zona era desolata e sembrava che fossimo le uniche persone al mondo, intrappolate in un’esistenza infernale.
La casa in cui alloggiavamo non era più una casa. Le finestre sono state strappate dai telai. Ratti e topi riempivano la casa e la prima notte dormimmo accanto a loro. L’acqua – che eravamo riusciti a ottenere a Khan Younis dopo aver aspettato quattro ore in lunghe file –era impossibile da ottenere a causa dell’inaccessibilità delle strade bombardate, inaccessibili ai camion dei rifornimenti. Avevamo portato con noi dell’acqua potabile, ma il faticoso viaggio ci ha lasciato assetati. Abbiamo bevuto quando siamo arrivati, non sapendo che non avremmo potuto accedere ad altra acqua.
Ce ne siamo accorti il giorno dopo. Abbiamo cominciato a razionare quel poco che avevamo. Tutte le nostre famiglie dovevano condividere tre litri d’acqua. È stato un miracolo che potessi procurarmi dell’acqua bollita da utilizzare per il latte artificiale di mio figlio neonato, dopo essermi avventurato nella città di Rafah portando un litro d’acqua e un bollitore per il tè, cercando qualsiasi commerciante che avesse accesso a un fuoco per usarlo per bollire l’acqua che avevo. Ho dovuto aspettare mezz’ora affinché l’acqua bollisse, dopodiché sono tornato al punto in cui ci eravamo riparati e ho potuto versare l’acqua in un thermos per preservare quel poco di calore rimasto nell’acqua.
Ho lasciato la famiglia a Khan Younis, sorelle e fratelli. Alcuni risiedevano in zone sicure della città, vicino all’Ospedale Europeo, ma mia sorella si trovava nella zona di Qarara, uno dei primi obiettivi degli attacchi israeliani. L’ho chiamata per controllare come stesse e lei mi ha detto che adesso vive per strada. Ha lasciato Khan Younis con la sua famiglia e ha raggiunto Rafah a piedi, ma quando è arrivata e ha chiesto informazioni sui rifugi, la gente l’ha portata in una scuola stracolma che non aveva posto né per lei né per la sua famiglia. Hanno montato una tenda nella strada fuori dalla scuola.
La nostra nuova Nakba
Nel poco tempo che ho avuto per scorrere le notizie, ho letto che il blocco residenziale dove alloggiavamo a Khan Younis era stato completamente raso al suolo. Se fossimo rimasti, nessuno di noi sarebbe sopravvissuto. Recentemente ho anche sentito alla radio locale che l’Egitto potrebbe essere costretto a consentire l’ingresso di alcuni profughi palestinesi. Si trattava della stessa questione che l’Egitto considerava non negoziabile all’inizio della guerra. Ora se ne parla apertamente da parte di alcuni funzionari egiziani.
Sembra che questo sarà il nostro destino nel prossimo futuro. Dopo che avranno finito con Khan Younis e avranno ucciso tutti coloro che si rifiutano di lasciare le loro case, i carri armati israeliani volgeranno gli occhi su Rafah. Al popolo palestinese verrà ordinato di fuggire verso il confine egiziano e, con ciò, Israele cercherà di creare nuove generazioni di rifugiati.
Eccoci qui, a documentare la nostra nuova Nakba prima ancora che accada, anticipando i suoi prossimi passi nella consapevolezza che perderemo le nostre terre e le nostre case. Le case che abbiamo lasciato a Gaza sono ormai ridotte in macerie, ma per noi quelle macerie rimarranno più preziose di tutta la terra del mondo. Non troveremo conforto in qualunque terra straniera dove andremo la prossima volta. Questa è la terra che amiamo, e questa è la terra che siamo costretti a lasciare nella fretta di sfuggire alla morte.
La nostra Nakba viene raccontata da noi in tempo reale affinché il mondo intero possa vederla. Tutti possono assistere al nostro massacro e alla nostra morte collettiva. Noi, portatori di un sogno semplice, quello di vivere con dignità in una casa sulla nostra terra tra i nostri cari e le nostre famiglie. Anche questo semplice sogno è stato distrutto da Israele, per l’unico peccato dell’essere nati sotto occupazione.
(fonte e versione originale in inglese: Mondoweiss – Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org)
Elogio di Hamas o della noia di essere definito antisemita – Ronnie Kasrils*
Agli occhi della moltitudine di razzisti in Israele, i palestinesi sono “untermenschen”, inferiori agli umani, addirittura “animali“.
Non sorprende l’invettiva della portavoce del Consiglio dei Deputati Ebraico Sudafricano (SAJBD), Wendy Khan, contro la mia persona.
I sionisti, e tutti i loro sostenitori in occidente, inclusi i loro delegati locali, sono in grado di piangere soltanto per i propri simili.
Chiunque tra noi insista sul riconoscimento universale del termine “umanità” viene regolarmente etichettato come antisemita, una calunnia.
I crimini di guerra israeliani su Gaza, perpetrati con un disprezzo genocida contro l’umanità, hanno lasciato 15.000 persone in fosse comuni, oltre 6000 bambini e 4000 donne a oggi, e migliaia ancora sono sepolti sotto le macerie.
Ospedali, cliniche, scuole, moschee, centri culturali, centrali idriche ed elettriche, centri di comunicazione, tutto è stato raso al suolo insieme al 70% delle case, appartamenti e interi quartieri.
Nessuno è stato risparmiato, nemmeno i bambini nelle incubatrici, i pazienti in terapia intensiva, i chirurghi, le ambulanze e gli operatori sanitari. Anche i feriti, i malati costretti a letto e i disabili sono tra il milione di persone a cui è stato imposto di trasferirsi a sud, rischiando la vita.
Se questi esseri umani fossero stati israeliani, o in generale bianchi, Wendy Khan, insieme alla classe politica e ai media occidentali, avrebbe chiesto la fine del genocidio con ogni mezzo necessario. Nessuno avrebbe messo in dubbio la necessità di agire con un’azione militare efficace.
Ma queste persone non sono bianche, e molti di loro sono musulmani.
Agli occhi della moltitudine di razzisti in Israele, i palestinesi sono “untermenschen”, inferiori agli umani, addirittura animali. Di conseguenza l’idea che siano loro a prendere le armi contro l’oppressore, viene respinta e tacciata di perversione morale.
Implicitamente, il presupposto è che debbano accettare l’oppressione, compreso l’omicidio di massa. Questo è perverso.
Ogni morale filosofica concorda sul fatto che gli oppressi hanno pieno diritto di resistere e che, quando l’oppressione è violenta, tale diritto si estende alla difesa tramite lotta armata. Nessuno può azzardarsi a dimenticare che Nelson Mandela era stato dipinto come “terrorista”.
Le Brigate Al Qassam sono l’equivalente dell’Umkhonto We Sizwe (il braccio armato dell’ANC), e hanno lo stesso diritto di agire come ala armata di un movimento di liberazione.
Invece di avere una visione obiettiva riguardo la portata e l’intensità dell’oppressione contro il popolo palestinese, e del conseguente diritto alla resistenza armata, ci si nasconde dietro al ridicolo insulto basato sull’“odio contro gli ebrei”.
Wendy Khan, usando le stesse rozze tattiche della campagna hasbara (propaganda) israeliana, mi accusa di un presunto odio verso gli ebrei sulla base di un solo brano, tratto da un discorso di trenta minuti, completamente estrapolato dal contesto.
Il suddetto contesto riguardava una panoramica storica, sugli anni di barbarici attacchi contro il popolo di Gaza e i palestinesi che vivono sotto occupazione militare. Una seria valutazione di quanto ho affermato, mostra che le mie osservazioni sull’ingegnosità e le abilità militari di Hamas, in particolare nel raid contro i soldati israeliani della Divisione di Gaza, non erano un plauso all’uccisione di civili al festival musicale e nei loro kibbutz.
Va inoltre sottolineato che molti ufficiali militari residenti laggiù, erano sull’accurata lista dei rapimenti stilata dall’intelligence di Hamas.
In una guerra lecita contro l’oppressione, il personale militare è tra gli obiettivi ammissibili. Il mio punto è che, nella loro arroganza razzista, lo stato di Israele e il suo esercito non sono riusciti a cogliere la raffinatezza tattica della resistenza palestinese. È intenzionalmente e del tutto ridicolo travisare questo punto come “odio verso gli ebrei”.
I vietcong erano riconosciuti per la loro competenza, così come lo era l’FLN in Algeria.
Tra coloro che sono profondamente contrari alla politica dei talebani, molti riconoscono l’abilità tecnica mostrata nella loro recente disfatta degli americani.
Un esercito ragionevole e i suoi leader politici devono stare attenti a non sottovalutare il nemico e, una volta sconfitti, imparare la lezione invece di farsi accecare dall’arroganza e dalla rabbia.
La prima lezione, in guerra, è quella di non sottovalutare mai il nemico.
Qualsiasi osservatore obiettivo deve ammettere che Hamas è una forza competente, altamente disciplinata, strategica e coraggiosa.
Questi fatti devono essere riconosciuti a prescindere dalla propria visione politica personale.
Travisare il raid del 7 ottobre come fosse stato un massacro irrazionale, barbaro e insensato, cancella ogni possibilità di comprensione razionale degli eventi. Il raid aveva un duplice scopo.
Il primo era intraprendere un’azione militare contro l’IDF, e si tratta di un obiettivo militare del tutto legittimo, conforme al diritto internazionale.
Il secondo obiettivo del raid era catturare prigionieri, militari e civili. Prendere di mira i civili viola il diritto internazionale, è vero, ma non sorprende che questa azione sia stata intrapresa mentre Israele incarcera un gran numero di civili, senza processo, tra cui molti bambini e donne.
Non si può definire legittimo il diritto di Israele di rapire e detenere civili, e al contempo caratterizzare il gesto di Hamas come un atto barbaro.
Non è demoniaca la logica secondo la quale Hamas prende in ostaggio israeliani per garantirsi uno scambio (almeno questo) con i numerosi bambini e donne tra i 6.000 palestinesi imprigionati, e sottoposti a condizioni indicibili, compresa la tortura.
Sono degni di nota, nello scambio di prigionieri in corso, gli ampi sorrisi e i “batti il cinque” tra le donne ebree e i soldati di Hamas, nettamente in contrasto con ciò che donne e bambini palestinesi rivelano riguardo gli abusi e le minacce che ricevono anche all’uscita dal carcere.
Va notato che l’IDF ha già adeguato il numero di persone uccise durante il raid portandolo da 1400 a 1200. Le menzogne riguardo i 40 bambini decapitati, e donne violentate, sono state sfatate completamente. È confermata la morte, purtroppo, di un solo bambino, rimasto ucciso nel fuoco incrociato. Di questo, ovviamente, ci addoloriamo.
È noto che il numero di soldati e poliziotti uccisi si aggira intorno ai 400, si tratta di obiettivi legittimi in termini legali e morali. Restano altri 800 morti, dei quali un numero significativo è rimasto ucciso nel fuoco incrociato, molti da armi e bombe israeliane. I rapporti rivelano che alcuni soldati israeliani erano in preda al panico, poiché non addestrati adeguatamente per operare in quella modalità. Questo dice molto sulla leggendaria invincibilità dell’IDF.
Esistono filmati, sicuramente, di civili colpiti dagli aggressori, che includono i combattenti di Hamas e della Jihad Islamica, altri gruppi militari e una folla casuale di civili. E quest’ultimo punto è molto importante.
Come sudafricani sappiamo fin troppo bene come, durante la nostra lotta, un gran numero di persone si siano unite alle proteste, abbandonandosi talvolta al saccheggio e alla distruzione, persino alla morte per “necklacing” (essere bruciati vivi).
Gli organizzatori non avevano alcun controllo sulla violenza inaspettata, così come gli spettatori di una partita di calcio non possono essere ritenuti responsabili dello scoppio di una rissa, solo perché si trovavano sul posto.
I civili che hanno perso la vita nel raid sono stati uccisi da combattenti e civili provenienti da Gaza, e dall’IDF. Hamas, inoltre, non aveva idea del rave in corso, mentre i combattenti si spostavano nelle città e nei villaggi del sud di Israele.
All’evento erano presenti guardie armate, e il loro intervento potrebbe aver causato un ulteriore fuoco incrociato. Esistono prove evidenti di civili uccisi dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF), è un fatto accertato che i loro elicotteri siano arrivati al festival musicale sparando missili.
The Electronic Intifada cita un giornale israeliano, il quale afferma che diversi elicotteri hanno “svuotato la pancia” e sono tornati alla base per ricaricarsi. Un pilota dell’IDF stima che abbiano ucciso in quell’area 120 persone, e distrutto tutti i veicoli…
Traduzione di Cecilia Parodi per il Palestine Chronicle.
* Ronnie Kasrils, veterano della lotta anti-apartheid, militante del Partito Comunista, bianco, di madre ebrea, è stato ministro dell’intelligence in Sudafrica. È un attivista e autore. Articolo pubblicato sul Palestine Chronicle.
Israele. È peggio umiliare i prigionieri che ucciderli – Massimo Fini
Umiliare i vinti sembra una specialità degli occidentali o comunque di coloro che si riconoscono in questa cultura. L’altro giorno a Beit Lahia una quarantina di guerriglieri di Hamas che si erano arresi sono stati prima fatti inginocchiare e poi stesi al suolo nudi e bendati. Non è una novità.
Agli inizi della guerra contro l’Iraq, nella prigione di Abu Ghraib, le televisioni di tutto il mondo (adesso si è diventati più cauti su queste scene, anzi si cerca di sorvolare) filmarono un prigioniero iracheno, a quattro zampe, nudo, con una soldatessa americana a cavalcioni, filmarono anche l’oscena piramide con cui gli americani costrinsero i prigionieri, sempre regolarmente nudi, a formarla arrampicandosi l’uno sull’altro.
Nel 2001 dopo l’aggressione occidentale all’Afghanistan i guerriglieri talebani, prigionieri, dopo essere stati esposti alle televisioni scatenate di tutto il mondo imploravano i loro custodi: “Piuttosto uccideteci, ma non umiliateci”. E i loro custodi, che erano pur sempre degli afghani, cercavano di incoraggiarli: “Dài, si tratta solo di due minuti poi te ne torni in prigione” (si sa che nella cultura afghano-talebana è proibito raffigurare la persona umana, del Mullah Omar esiste una sola fotografia). In seguito i prigionieri furono sedati e muniti di ridicoli pannoloni per affrontare la traversata. Arrivati a Guantanamo furono messi in gabbie all’aperto illuminate dai riflettori ventiquattr’ore su ventiquattro, perciò dovevano “fare i loro bisogni” come si dice pudicamente, cioè cacare e pisciare davanti a tutti. Se c’era bisogno di spostarli li si metteva su una carriola per renderli ancora più ridicoli…
Passato, futuro e crisi del sionismo – Ilan Pappé
Prima del 7 ottobre 2023 la maggior parte della società ebraica israeliana guardava con una certa paura e apprensione alle ultime settimane di questo mese. Il discorso principale in Israele fino al 7 ottobre 2023 riguardava quale sarebbe stato il futuro di Israele. Le manifestazioni settimanali di centinaia di migliaia di israeliani facevano parte di un movimento di protesta contro il tentativo del governo di cambiare la legge costituzionale in Israele e creare un nuovo sistema politico nel quale i poteri politici avrebbero avuto il controllo totale sul sistema giudiziario e la società civile sarebbe stata sottoposta a un controllo più stretto da parte dei gruppi messianici e degli ebrei religiosi. In uno dei miei articoli avevo descritto la particolare lotta per l’identità di Israele, che è stata al centro dell’attenzione fino al 7 ottobre 2023, come una lotta tra lo Stato di Giudea e lo Stato di Israele. Lo stato della Giudea era quello stabilito in Cisgiordania dai coloni ebrei, una sorta di combinazione di giudaismo messianico, fanatismo sionista e razzismo ed era diventato una sorta di struttura di potere, assai cresciuta per prominenza e importanza negli ultimi anni soprattutto sotto il governo Netanyahu, che stava per imporre il suo modo di vivere, la sua percezione della vita, al resto di Israele ben oltre quella che chiamiamo Giudea, oltre la Cisgiordania e lo spazio ebraico in Cisgiordania. Contro questa struttura si muoveva lo ‘stato di Israele’, simboleggiato al meglio dalla città di Tel Aviv, con l’idea di un Israele pluralista, democratico, laico, soprattutto occidentale o se volete europeo, in lotta esistenziale contro lo ‘stato della Giudea’. Questo scontro sembrava essere al centro di quella che si potrebbe definire quasi una guerra civile e, se non una vera guerra civile, almeno una guerra fredda civile, sicuramente una guerra culturale tra gli ebrei israeliani.
Ma quando qualcuno poneva ai due protagonisti di questo conflitto interno israeliano la questione dell’occupazione della Cisgiordania e chiedeva se il problema non dovesse entrare nella discussione sul futuro di Israele, la risposta era “no”, l’occupazione non deve essere tirata in ballo da nessuno, l’occupazione è irrilevante per il futuro di Israele. In effetti se qualcuno cercava di introdurre l’occupazione come argomento nelle proteste settimanali contro la riforma della giustizia o la rivoluzione della giustizia come la chiamano, gli veniva detto di andarsene e di non presentarsi tra i manifestanti che sventolavano la bandiera israeliana. Sicuramente chi avesse portato la bandiera palestinese alla manifestazione sarebbe stato malmenato e cacciato dalla manifestazione per aver ricordato che forse il futuro di Israele dipende anche dalle condizioni e dalla situazione in cui si trovano i quasi due milioni di cittadini palestinesi di Israele sottoposti a un processo di criminalizzazione da parte di bande armate che terrorizzano in continuazione i cittadini palestinesi, ovunque in Israele, bande criminali tra cui molti sono ex collaboratori di Israele in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, trasferiti da quei territori dopo gli accordi di Oslo, molto ben equipaggiati con armi e assolutamente certi dell’impunità rispetto a provvedimenti di polizia o procedure giudiziarie. Come molti di voi sapranno questo comporta che i palestinesi che vivono in Israele – sto parlando di cittadini israeliani – hanno paura di uscire la sera nelle loro strade e nei loro spazi a causa della nuova realtà. Ma anche questo non doveva essere argomento della discussione in atto sul futuro di Israele. A chi avesse ricordato Gerusalemme Est e la pulizia etnica dei quartieri arabi di Gerusalemme, i manifestanti e i loro leader avrebbero risposto che non era un argomento importante ovvero, come ha detto Amira Hass, la coraggiosa giornalista di Haaretz, per quanto riguarda gli israeliani – e questo è fino al 7 ottobre 2023 – l’occupazione non esiste, il problema non esiste più, è stato risolto, c’è un’Autorità Palestinese con una presenza ebraica molto intensa negli insediamenti in Cisgiordania e nessuno deve più occuparsene. In effetti, se si guarda alle ultime quattro campagne elettorali in Israele, e ce ne sono state parecchie, come forse ricorderete, una dopo l’altra su base annuale, nessuno ha menzionato la questione palestinese. L’occupazione, chiamatela come volete, non era argomento di discussione. Agli israeliani si chiedeva di votare perché non esisteva più. Se qualcuno avesse menzionato la Striscia di Gaza, se avesse parlato ancora dell’assedio di Gaza la gente avrebbe detto “ma che stai dicendo”, anche questa era una questione che non preoccupava più nessuno. E se avesse rimarcato che in realtà l’uccisione quotidiana di palestinesi nell’ultimo anno o negli ultimi due anni, l’uccisione quotidiana di palestinesi in Cisgiordania, la costante e ricorrente invasione di Al Aqsa è qualcosa che non passerà inosservato ma queste politiche avranno ripercussioni e il fatto che la debole Autorità Palestinese non è in grado di proteggere i palestinesi dalla violenza dei coloni, dalla violenza dell’esercito israeliano e dalla violenza della polizia di frontiera israeliana non significa che non ci siano gruppi palestinesi che cercheranno di difendere i palestinesi non solo nella Striscia di Gaza ma anche in altre parti della Palestina storica, come è stato ribadito all’opinione pubblica israeliana dai politici, dal capo dell’esercito e da quello dei servizi segreti israeliani… ebbene, ancora una volta la risposta era no, non c’è nessun problema, l’unico problema è quello della riforma, per quelli che l’accettano come per quelli che la rifiutano…
Il vicolo cieco di Netanyahu – Fabio Marcelli
Nessuna persona che abbia appena la voglia di informarsi, anche in modo superficiale, poteva nutrire dubbi sul fatto che Israele avrebbe ripreso il massacro dopo qualche giorno di “riposo”. Adesso perfino l’Onu denuncia il fatto che non esistono (e mai sono esistite) zone “sicure” nella Striscia di Gaza e magari comincerà anche a interrogarsi sul perché Israele abbia spinto folle oceaniche di persone alla disperata ricerca di una speranza di salvarsi la vita a fuggire verso sud. Le complicità internazionali nel genocidio sono di un’evidenza così smaccata che non ci sarebbe bisogno di aggiungere altro. Negli Stati Uniti, per fare un solo esempio, Bernie Sanders non riesce a esprimere una condanna senza ipocrisie – si limita a invocare “pause umanitarie” – nemmeno di fronte al tentativo di omicidio di tre giovani universitari del Vermont, colpiti da una raffica di proiettili mentre camminavano, solo perché indossavano una kefia. L’Unione Europea, intanto, avverte che anche nel suo territorio “sicuro” è alto il rischio di attentati. Ma guarda, chi l’avrebbe detto? In questo articolo, il giurista Fabio Marcelli chiama la Corte Penale Internazionale a far sapere al mondo in modo finalmente chiaro se, alla luce dell’escalation delle violazioni del diritto internazionale e di quello universale alla vita, la sua esistenza abbia un qualche senso oppure no.
Eppure, al di là del genocidio in atto, scrive Marcelli, le ragioni del popolo palestinese sono destinate a prevalere. Con l’eccezione degli alleati di sempre, l’immagine internazionale di Israele (e del suo governo criminale) è sempre più macchiata di sangue, mentre il propagandistico obiettivo di annientare Hamas, organizzazione mai stata solo militare, è sempre più lontano. Anzi, sembra del tutto evidente che, non solo tra gli abitanti di Gaza ma nel mondo arabo, la cieca furia del genocidio israeliano non fa che rafforzarne un prestigio assai logorato e messo in discussione tra i Palestinesi prima di questo nerissimo autunno.
* * * *
Quella in Ucraina e quella a Gaza possono essere considerate due guerre costituenti del nuovo ordine mondiale in gestazione. È di fondamentale importanza che tali guerre si concludano al più presto, colla riaffermazione dei principi fondamentali del diritto internazionale oggi in forte crisi.
È tempo, in particolare, di fermare definitivamente il vero e proprio genocidio in corso a Gaza e in Cisgiordania contro il popolo palestinese. Con centinaia di avvocati appartenenti a decine di Paesi differenti abbiamo chiesto che venga fatta piena luce sugli eventi del 7 ottobre e che vengano puniti i massacri di civili da chiunque compiuti. La traduzione italiana di tale denuncia è sul sito del CRED e chiunque voglia aderire può farlo ancora, inviando una mail a ricercademocrazia@gmail.com, indicando la sede in caso di entità collettive, la professione esercitata in caso di cittadini, e il Foro di appartenenza in caso di avvocati.
Va sottolineato come l’imputazione di genocidio nei confronti dell’attuale governo israeliano appare ben fondata nelle norme e nella prassi internazionale. Sono oltre quindicimila le vittime civili palestinesi fin qui accertate, almeno un terzo delle quali minorenni. I bombardamenti indiscriminati effettuati dall’aviazione militare israeliana su ospedali, chiese, scuole, campi di rifugiati, abitazioni civili, a volte nei confronti di giornalisti, intellettuali e avvocati presi di mira in quanto tali colle proprie famiglie.
A questo immane massacro si sono accompagnate esplicite dichiarazioni di intenti promananti dalle massime autorità dello Stato israeliano, a cominciare dallo stesso Presidente Isaac Herzog, che hanno sostenuto la necessità di colpire il popolo palestinese di Gaza in quanto tale.
Sono presenti quindi tutti gli elementi sia soggettivi che oggettivi di gravi crimini, non solo genocidio, ma anche crimini di guerra e contro l’umanità, tutti punibili ai sensi dello Statuto della Corte penale internazionale.
Quest’ultima è di fronte a una sfida di tipo esistenziale e fondamentale. Se non svolgerà il suo ruolo, che è quello di accertare e punire tali crimini, la Corte e il suo Procuratore Khan renderanno evidente a tutto il mondo la propria sostanziale inutilità, affondando definitivamente il progetto di giustizia internazionale penale super partes e imparziale nato colla Conferenza istitutiva della Corte svoltasi a Roma nel 1998.
Tale discorso si applica anche agli eventuali crimini commessi durante la giornata del 7 ottobre da parte di forze palestinesi, riconducibili ad Hamas e altre organizzazioni. Ma, come ben messo in evidenza nella denuncia che abbiamo presentato, l’inchiesta in merito deve essere svolta in modo autonomo dalla Corte, dato che in varie occasioni la magistratura israeliana ha purtroppo dimostrato la propria inaffidabilità, insabbiando le accuse mosse nei confronti delle autorità militari israeliane in una serie di casi, come da ultimo quello dell’uccisione della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh, così come in vari altri episodi.
In linea di principio va riaffermato, al riguardo, che se è vero che il diritto internazionale consente ai popoli oppressi di ricorrere alla lotta armata per affermare il proprio diritto all’autodeterminazione, specie in caso di occupazione militare, è pure vero che tale lotta deve rispettare le norme del diritto internazionale umanitario.
Al di là del ruolo della Corte penale internazionale, e più in generale dell’accertamento e punizione dei crimini, che per i motivi detti riveste importanza fondamentale, occorre delineare una via d’uscita politica e pacifica al conflitto.
La continuazione della guerra e dei massacri, che si scontrano contro la crescente resistenza, in varie forme, delle organizzazioni e del popolo palestinese, pare al momento la scelta prevalente, irresponsabile e criminale, delle élites governative e militari israeliane. Ma tale scelta appare destinata a infrangersi anche colla crescente condanna di molti Stati e di quella parte, quantitativamente e qualitativamente preponderante, dell’umanità che non si rassegna alla disumanizzazione del mondo e della vita.
Assolutamente negativo da questo punto di vista appare il ruolo finora svolto dagli Stati Uniti e dalla maggior parte degli Stati europei, con in vergognosa pole position il governo di Giorgia Meloni, che ha finora avallato il genocidio in corso, mediante un sostegno sia militare, mediante accordi che costituiscono una violazione palese dei principi fondamentali del diritto internazionale, che politico, mediante l’intollerabile astensione sulle risoluzioni delle Nazioni Unite che chiedevano il cessate il fuoco e la fine del massacro.
In tal modo Meloni, Tajani, Crosetto, Salvini & C.si sono resi complici del genocidio in atto. Abbracciando la folle politica di Netanyahu che ha dichiarato più volte la necessità di smantellare Gaza e di annientarne la popolazione per sconfiggere militarmente Hamas e le altre organizzazioni palestinesi, costoro hanno alimentato il progetto genocida e razzista che costituisce oggi il principale ostacolo alla pace.
L’unica possibile via d’uscita deve contemplare ovviamente il ritiro completo e totale delle Forze armate israeliane dai territori palestinesi, come pure lo smantellamento delle colonie abusive e illegali esistenti su tali territori. Ma occorre anche che gli Stati o lo Stato esistenti nella regione devono essere caratterizzati da principi di laicità e garantire la piena uguaglianza di tutte le persone soggette alla loro sovranità, quale che ne sia l’etnia, religione, genere e le altre caratteristiche sociali…
Richard Silverstein : Le accuse israeliane di aggressioni sessuali da parte di Hamas ne mettono in gioco la sua credibilità. Nessuna autopsia e rifiuto irato all’ONU
Questo è un post che non voglio scrivere. Ma io devo.
Chiunque legga questo blog abbastanza a lungo conosce il mio impegno nei confronti delle vittime di stupro e abusi sessuali. Ho scritto almeno una ventina di storie del genere . Sono difficili da scrivere. Chi lo fa si carica un po’ della sofferenza della vittima; anche se non tanto quanto la vittima stessa.
Ma quando scrivo una storia del genere, devo sapere che ciò che riporto è preciso e accurato. Ovviamente le credo sempre . Non credo mai all’autore del reato. Ma la posta in gioco è comunque così alta che devi essere certo di ciò che scrivi.
Ecco perché non ho voluto affrontare il tema della violenza sessuale durante l’attacco di Hamas del 7/10. Anche se credo sempre alle vittime di stupro, i resoconti erano così confusi dalla propaganda e da quello che sembrava un oltraggio fabbricato, che non ero sicuro a chi o a cosa credere.
Lo stupro in guerra
Lo stupro durante la guerra è purtroppo un fenomeno comune. I vincitori, i carnefici, vogliono umiliare il nemico, i vinti. Abusare delle loro donne è un modo per farlo. Umilia, corrode il rispetto di sé, afferma il dominio dell’autore del reato e l’impotenza della vittima: questo è l’obiettivo dell’aggressore.
Gli storici israeliani hanno documentato che l’Haganah ha utilizzato lo stupro in questo modo durante la Nakba. Israele aveva bisogno di degradare i palestinesi attraverso la vittimizzazione delle donne. Era un modo per dimostrare che gli ebrei avrebbero preso tutto ciò a cui tenevano e non avrebbero mai permesso loro di dimenticare chi era il signore della terra. Queste erano tutte verità scomode per gli israeliani e le hanno negate per decenni finché gli storici non hanno scavato negli archivi storici e hanno trovato prove documentali a sostegno di tale affermazione.
Qualunque siano gli atti di violenza sessuale avvenuti il 7/10 (se ce ne sono stati), si tratta degli stessi atti compiuti dalle forze israeliane nel 1948. In un esempio più recente il rabbino capo dell’IDF ha detto alle truppe che, secondo la legge ebraica ,sarebbe stato consentito loro di “soddisfare i loro impulsi” violentando donne palestinesi. Era, ha affermato, un modo per rafforzare il loro morale come combattenti per la nazione.
A volte i perdenti, quelli che hanno sofferto sotto il tallone dei loro oppressori – i suoi assassini , delinquenti e piromani – hanno l’opportunità di vendicarsi. Lo fanno nello stesso modo in cui lo fanno i vincitori. Fanno soffrire al nemico parte della stessa vergogna che ha sopportato. Potrebbe essere quello che è successo il 7/10.
I soldati dell’IDF intervistati nel video affermano che mentre Hamas ha attaccato solo obiettivi dell’IDF, i civili palestinesi sono stati coinvolti in ciò che ha definito “massacri e stupri”. Inoltre, poiché i civili hanno partecipato a quei crimini, essi rappresentano tutta Gaza ; rendendoli tutti colpevoli di questi crimini. Tieni presente che la colpa collettiva è una violazione della Convenzione di Ginevra, non che questo sia importante per gli israeliani:
Poco dopo l’attacco, ho cominciato a sentire parlare di stupri e ho chiesto informazioni a una fonte della sicurezza israeliana. Ha detto che Hamas ha principalmente obiettivi militari. Gli stupri sono stati commessi, mi ha detto, da palestinesi che inseguivano i combattenti di Hamas attraverso le brecce nella recinzione.
Nei giorni scorsi ho posto la stessa domanda a una fonte della sicurezza israeliana e lui ora dice che parte della violenza sessuale è stata commessa dai combattenti di Hamas. Ma credo che la verità possa risiedere in entrambi i resoconti: i presunti stupri potrebbero essere stati commessi sia dai militanti che dai civili. Hamas, tuttavia, ha negato le accuse :
Hamas nega che i suoi combattenti utilizzino lo stupro o l’aggressione contro le donne come arma di guerra. Fare ciò, ha detto Basem Naim, funzionario di Hamas, andrebbe contro i principi islamici fondanti. Il gruppo, ha detto, considera “qualsiasi relazione o attività sessuale al di fuori del matrimonio completamente haram” – proibita dall’Islam.
“Chiunque faccia questo tipo di atto sta commettendo un’infrazione grave e sarebbe punito sia legalmente che nel Giorno del Giudizio”, ha riferito al Washington Post. “Così i nostri soldati non si avvicinerebbero a questo atto proibito”.
Sebbene ciò non confermi le sue affermazioni, rende chiaro che gli obiettivi generali di Hamas erano l’attacco a obiettivi militari e non la violenza sessuale. Inoltre, storicamente Hamas ha mantenuto un approccio disciplinato alle sue operazioni militari. È difficile credere che in questo attacco l’approccio disciplinato sia stato abbandonato dai combattenti. Quindi, anche se la dichiarazione di Naim non costituisce una prova decisiva, offre una confutazione credibile. Tieni presente inoltre che la Jihad islamica e altri gruppi hanno partecipato all’attacco; e che Hamas non aveva il controllo di ciò che faceva.
AUTOPSIE
Un altro aspetto preoccupante riguardo alle affermazioni israeliane è che le autorità non hanno eseguito autopsie su nessuna delle presunte vittime di stupro. Se lo avessero fatto, e questi atti brutali fossero confermati da prove forensi, ciò rafforzerebbe enormemente la tesi che stanno sostenendo. Non è chiaro se si sia trattato di una decisione deliberata, nel qual caso sarebbe dannosa; oppure era qualcosa che nessuno aveva pensato di fare nella confusione e nello shock dell’attacco del 7/10. Trovo difficile credere a quest’ultima spiegazione.
Detto questo, mi oppongo allo sfruttamento propagandistico di queste vittime. Mostrare questi video a leader influenti in tutto il mondo (comprese le proiezioni al Congresso degli Stati Uniti) viola una seconda volta le vittime. Le loro identità dovrebbero essere sempre protette. Rendere il loro degrado uno spettacolo pubblico è disgustoso. Ma la macchina della propaganda israeliana lo fa perché lo stupro suscita orrore.
Israele vuole che il mondo odi non solo Hamas, ma tutti a Gaza, come ha scritto il Magg. Gen. Giora Eiland nella sua rubrica su Yediot. Proprio come il riferimento all’Olocausto suscita simpatia per Israele, Israele prende di mira Hamas in quanto nazista, le accuse di violazione sessuale svolgono lo stesso ruolo. Distraggono il mondo dal genocidio di Gaza. E questo è lo scopo, non la simpatia per le vittime. Sono semplici strumenti per promuovere una narrazione israeliana di vittimizzazione.
Le donne israeliane sono state violentate secondo la narrativa israeliana, ma è importante capire questa distinzione: le donne palestinesi sono state assassinate . Anche se non esiste un rapporto sul numero di queste vittime, garantisco che sono state superiori alle 4.000 donne (e 6.000 bambini) assassinate da Israele. Mentre lo stupro è un atto atroce, l’omicidio ha un livello di grandezza completamente diverso.
ONU
Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha annunciato un’indagine sulle affermazioni israeliane, ma l’ambasciatore del paese all’ONU l’ha respinta con rabbia e ha dichiarato che Israele non coopererà.
Hamas: la foglia di fico di israele (e della stampa) – Gianni Lixi
La propaganda sionista ha cercato dalla prima ora di derubricare il 7 ottobre ad una guerra contro Hamas. E’ diventata la frase con la quale aprono praticamente tutte le testate. Se partecipi ad un dibattito o se parli con qualcuno che si documenta con le veline che la propaganda sionista passa ai telegiornali aspettati la domanda delle domande. “Ma allora non condanni Hamas,,,, non hai ancora espresso un parere su Hamas,,, ma allora non condanni gli attacchi ai civili…” Nei talk show occidentali, siano questi in America, Inghilterra o in Italia il giornalista che intervista l’interlocutore pro Palestina di turno non molla la presa.
Nello stesso momento in cui migliaia di palestinesi stanno precipitando al suolo insieme alle macerie del loro palazzo bombardato dalle bombe che l’america regala ad israele, migliaia di bambini soffocano sotto le macerie delle loro abitazioni bombardate con le stesse bombe, gli ospedali vengono essi stessi bombardati, alla popolazione vengono deliberatamente fatti mancare generi di prima necessità come acqua, farina ed energia, costituendo questo un adamantino crimine contro l’umanità, lui vuole sapere come definiresti l’attacco del 7 ottobre 2023.
Non avrei alcuna difficoltà a rispondere. Appoggio incondizionatamente la resistenza del popolo Palestinese contro il disegno sionista della sostituzione etnica e della eliminazione dalla Palestina del suo popolo. Il giornalista, che ha alle spalle uno schermo dove scorrono le immagini dei palazzi bombardati, dei bambini morti soffocati sotto le macerie, di dottori che vengono messi contro un muro con le mani in alto ed un fucile puntato contro, delle fosse comuni, quel giornalista ha il fegato di chiedere: allora è d’accordo con l’aggressione ai civili? A questo punto farei io una domanda al giornalista: ha mai invitato qualche esponente politico israeliano? La risposta è sicuramente si. Allora gli chiederei: ha mai chiesto ai politici israeliani che ha invitato come considerano gli attacchi da parte dei cecchini dell’esercito israeliano che ammazza e mutila civili palestinesi che manifestano pacificamente in prossimità delle sbarre della loro prigione a Gaza (la rete che impedisce ai Gazawi ogni spostamento). Ogni venerdì dal 2018 al 2019 civili Gazawi manifestavano pacificamente chiedendo il diritto di tornare nelle case delle loro madri e delle loro nonne, da cui furono espulsi nel 1948, quando le milizie sioniste rimossero con la forza 750.000 palestinesi dai loro villaggi per aprire la strada alla creazione di israele. Qui potete leggere il rapporto dei morti e feriti durante le manifestazioni (leggi) elaborato non da fonti palestinesi ma da un ente dell’ONU. Ed è superfluo continuare con la lunga lista delle nefandezze che israele compie sui civili palestinesi; uccisioni a sangue freddo, abbattimento di case, violenze quotidiane da parte sia dell’esercito che dalla forza paramilitare dei coloni recentemente armata dal governo, incessante occupazione di terre (qui ), profanazione di cimiteri per cancellare la memoria di un popolo, profanazione dei luoghi di culto accompagnati a percosse ed arresti, sequestro di civili imprigionati e torturati senza una formale accusa ed un regolare processo ( qui ), israele è l’unico paese al mondo che arresta i bambini (qui ), furto dell’acqua dal territorio palestinese per servire colonie illegali (qui).
Ora con la ripresa dei bombardamenti a Gaza i giornalisti sionisti (quindi quasi tutti i giornalisti della RAI) stanno dando il peggio di se. Oggi ascoltavo un servizio da un GR della RAI ed era paradossale sentire parlare la giornalista. Stanno bombardando quel che rimane di Gaza a sud, dove israele aveva fatto spostare (deportare) la popolazione. La giornalista riferisce che gli israeliani stanno cercando di “accerchiare” Khan Yunis. come se dall’altra parte ci fosse un esercito che combatte anziché una popolazione inerme, massacrata e mandata via non una volta, ma più volte dalla sua stessa terra. Si parla di un esercito super tecnologico con aerei che buttano bombe, carri armati che schiacciano tutto, navi che bombardano dal mare ma tutto questo scompare dal servizio : “Gli israeliano vogliono accerchiare Khan Yunis”. Usano parafrasi per non usare la parola “genocidio”. Usano parafrasi per non usare la parola “pulizia etnica”. Usano parafrasi per non usare “crimini contro l’umanità”.
Cari giornalisti, Hamas è la foglia di fico che israele usa per occupare terre non sue ammazzando indiscriminatamente uomini, donne, bambini e resistenti. Ed è anche la vostra foglia di fico. La perla delle perle che ci è toccato sentire è che israele sta aiutando i palestinesi a liberarsi di Hamas. Grazie ma i palestinesi ne fanno volentieri a meno del vostro aiuto. Se proprio volete aiutare i palestinesi, cessate il fuoco, cessate l’occupazione delle terre, ridategli l’acqua che gli avete rubato, se devono essere governati dalle vostre leggi lasciate che possano scegliere i governanti che quelle leggi votano. In una parola cessate l’Apartheid.
Hamas non morirà, perchè morto Hamas se ne farà un altro. Magari con un nome diverso, magari senza la componente integralista religiosa. Ma i palestinesi continueranno a resistere. Resistere contro chi gli ruba la terra e gli impedisce di respirare.
I palestinesi hanno dimostrato negli anni di poter mettere sotto scacco israele ed hanno ampiamente dimostrato di sopportare indicibili sofferenze. Queste sono due armi più potenti delle armi che l’America e l’Europa forniscono ad israele.
Richard Silverstein :I coloni israeliani non sono ebrei, ma sono terroristi. Sono idolatri pagani
Per anni ho lottato contro le azioni malvagie commesse dai coloni israeliani e dai loro sostenitori, che agiscono in nome del giudaismo. Come potevo io come ebreo avere qualcosa a che fare con loro? Come possiamo condividere la stessa religione? Ero e sono a disagio nel denunciare semplicemente i loro atti e dire “non a mio nome”. Dire che non rappresentano l’ebraismo non è sufficiente; perché per un numero significativo di ebrei israeliani e per alcuni ebrei della diaspora rappresentano l’ebraismo.
Ho deciso che non posso chiamarli ebrei. Violano ogni precetto del giudaismo che conosco. Sono ladri omicidi, razzisti, genocidi. Hanno fatto il loro letto con i suprematisti cristiani bianchi e persino con i neonazisti. Hanno fatto una parodia della sofferenza ebraica durante l’Olocausto cooptandola come difesa per l’omicidio di massa.
In breve, questi non sono ebrei. Sono idolatri pagani. Adoratori di pietre e ossa. Ovvero, l’antico Tempio, che cercano di ricostruire dopo aver distrutto la moschea di Al Aqsa, terzo luogo sacro dell’Islam, e le antiche terre degli israeliti, da tempo abitate da secoli da arabi palestinesi e da un piccolo residuo di ebrei indigeni. Adorano le ossa di questi israeliti in luoghi come la tomba di Giuseppe e la moschea di Ibrahimi. Duemila anni dopo hanno il diritto di usurpare, pulire etnicamente e uccidere in massa un altro popolo che vive in questa terra da generazioni. Un libro non è un atto di proprietà. Una rivendicazione della sovranità divina non è un atto di vendita. Non puoi rubare la proprietà di qualcuno affermando che Dio ha approvato il tuo furto. Non esiste una modifica halachica che dica: “Non rubare… a meno che Dio non dica che va bene”.
Proprio come la Bibbia si scagliava contro i templi e i riti pagani che coesistevano in mezzo o accanto alla religione israelita, così questi giudeo-pagani si sono stabiliti tra noi. Ma dobbiamo estirparli dalla nostra religione proprio come la Bibbia esigeva l’espulsione degli antichi pagani.
C’è un precedente per quello che sostengo. In passato, quando un movimento ebraico metteva in pericolo l’esistenza della più ampia comunità ebraica, le autorità rabbiniche lo scomunicavano insieme ai suoi seguaci. Agli ebrei non era più permesso associarsi con loro. Sono stati ostracizzati da tutte le istituzioni comunali. Questo fu il destino dei messianici sabbatiani , seguaci di Shabtai Tzvi, che si convertirono all’Islam e divennero membri della famiglia del califfo ottomano. Allo stesso modo i seguaci di Jacob Frank, conosciuti come Frankisti, dichiararono che il loro capo era il messia, venuto a riscattare gli ebrei. È andato così lontano che è andato nella direzione opposta e si è convertito al cristianesimo. I leader della comunità ebraica hanno stabilito che anche questo rappresentava una minaccia alla sua coerenza ed esistenza. Così anche loro furono scomunicati.
Ovviamente la maggior parte di noi non vive più in comunità che aderiscono all’halacha . Una modifica rabbinica non porta il peso dei giorni di Shabbtai Tzvi e Jacob Frank. Ma i rabbini e i leader comunali diano l’esempio. Stabiliscono uno standard morale. Definiscono l’etica per noi.
Quando la comunità e i suoi leader si rifiuteranno di definire chiaramente ciò che è accettabile e ciò che non lo è, allora il mondo penserà a questa orribile teologia-ideologia come al giusto standard del giudaismo. Se i terroristi attaccano gli ebrei, pensando erroneamente che tutti gli ebrei credano a ciò in cui credono questi mostri, perché si deve accettare ciò ? Certo noi lo sappiamo che non siamo loro. Ma perché un terrorista dovrebbe capire questa distinzione quando noi non lo diciamo chiaramente?
Possiamo prendere posizione. Potremmo etichettarli apikorsim (eretici). Potremmo separarci da loro e dire che non sono noi. Non sono ebrei. Contaminano la nostra religione e noi non lo permetteremo.
Se sei un rabbino, fai qualcosa. Di ‘qualcosa. Se appartieni a una sinagoga, chiedi al tuo rabbino di denunciarlo esplicitamente e pubblicamente in un sermone festivo, preferibilmente. I rabbini dovrebbero dire ai fedeli che non devono visitare gli insediamenti. Nemmeno le loro missioni in Israele devono farlo. Nessun incontro con i coloni. Se appartieni a un gruppo comunitario ebraico, sollecita l’azione. Non solo parole, ma azioni.
I giudeo-genocidi tra noi
Un servizio giornalistico di Haaretz ha ispirato questo post. Tra i miscredenti e i pazzi che abitano la Knesset c’è una Limor Son Har-Melech, una vera “donna di valore” in Israele. Ecco una serie di messaggi in un gruppo WhatsApp di giornalisti. Includevano:
«Certo che è permesso spazzare via Hawara. È un villaggio pieno di terroristi che sostengono il terrorismo e marciano con gioia dopo gli attacchi”.
Ben Shahar accusa i residenti palestinesi della città di Hawara, in Cisgiordania, di “incitare [al terrorismo] nelle moschee il venerdì, e nelle loro scuole allevano [bambini] come martiri”, aggiungendo che “tutte le case del villaggio dovrebbero essere distrutte. È permesso, è etico, è legittimo… Ecco come si fa il lavoro”.
Anche i luoghi di culto musulmani erano focolai di “odio” che bisogna eliminare:
Ben Shahar giustifica anche la distruzione dei luoghi sacri della città palestinese, come moschee e luoghi di preghiera. “Una moschea non è un luogo sacro se i suoi insegnamenti sono di uccidere gli ebrei”, spiega Ben Shahar. “Dobbiamo esaminare rapidamente tutte le moschee in Israele prima del Ramadan e chiudere tutte quelle che incitano al terrorismo e all’assassinio di ebrei”.
Certo non ci sono moschee palestinesi che insegnano a uccidere gli ebrei. Per i coloni sono i focolai dell’odio. E dovrebbero essere estirpati.
Ben Shahar ha sottolineato che “ogni strada, ogni vicolo, ogni villaggio e ogni quartiere che decide di essere un nemico del popolo di Israele ne subirà le conseguenze e [allora] ci sarà silenzio”.
Naturalmente, non ci sarà silenzio se mai Israele avesse provato questa strategia. Non solo i palestinesi avrebbero organizzato una resistenza armata, ma anche i loro alleati nel mondo musulmano si sarebbero uniti alla lotta. E se qualcuno sostiene che gli Accordi di Abramo abbiano distrutto qualsiasi legame di solidarietà con il popolo palestinese, aspetta che questi teppisti giudeo inizino questa campagna di genocidio. Unirà gli arabi musulmani come non sono stati uniti per decenni, se non mai.
Quindi questi genocidi avranno una vera guerra di Gog e Magog tra ebrei e musulmani. Una battaglia finale all’ultimo sangue. Nessuno può vincere perché tutto sarà distrutto. Significherà l’armizzazione della religione che porterà alla morte dell’umanità in Medio Oriente, se non dell’intero pianeta.
I messaggi di WhatsApp sopra sono più che parole di incitamento. Sono parole che portano direttamente ai fatti. La stazione radiofonica di stato del Ruanda ha trasmesso un simile incitamento agghiacciante nei mesi che hanno preceduto il massacro genocida di 800.000 Tutsi. È successo lì. Può succedere qui. Può e accadrà in Israele. A meno che non facciamo qualcosa di decisivo come ebrei per fermarlo.
L’intelligenza artificiale e la guerra di Israele – Federico Giusti
Da anni sappiamo dell’uso duale di molte tecnologie, in ambito civile e militare per cui è assai difficile operare una netta superazione e le stesse argomentazioni etiche e morali si piegano sovente alle ragioni del profitto e della guerra.
In Israele il ricorso alla intelligenza artificiale è cosa risaputa, è operativo il sistema Habsora (“Il Vangelo” a conferma dell’utilizzo di terminologie religiose a fini di guerra e a giustificazione della stessa), “un software che “permette l’uso di strumenti automatici per produrre bersagli a ritmo rapido. migliorare l’intelligenza (…) con l’aiuto dell’intelligenza artificiale”.
Israele ha usato bombe a fragmentazione controllate a distanza da un “dispositivo elettronico”, che esplodono ad un’altezza di 15/20 metri prima di raggiungere il suolo e bombe al fosforo.
Siamo davanti a una nuova tipologia di guerra che non distingue più obiettivi militari da quelli civili e provoca un elevato numero di morti tra la popolazione oltre alla sistematica distruzione di infrastrutture, di scuole, ospedali e case.
Gli obiettivi colpiti includono residenze private, edifici pubblici, infrastrutture e grattacieli definiti dall’esercito israeliano “obiettivi di potere” (“matarot otzem“).
Gli aerei e gli strumenti di guerra a guida autonoma sono oggetto di studio e di ricerca da anni in Israele che oggi può vantare una ampia produzione industriale e militare (anche con joint venture con aziende europee e statunitense da spendere nel mercato globale degli argomenti, la guerra contro Gaza è stato un banco di prova per queste nuovi e micidiali sistemi di arma. I veicoli possono elaborare i dati dei sensori IoT e colpire molteplici obiettivi in tempi reali. E ci riferiamo a tutti i sistemi di arma oggi in dotazione all’esercito di Israele.
Una autentica carneficina di civili prodotta da quella che alcuni esperti hanno definito come ‘fabbrica di omicidi di massa’” permettendo in tempi reali di individuare e colpire edifici civili ove si sospetta possa abitare anche un singolo membro della Resistenza palestinese.
The Guardian ha denunciato un database che contava tra i 30mila e i 40mila sospetti militanti individuati dopo anni di investigazione dell’intelligence israeliana. Sistemi informatici come il Vangelo avrebbero “svolto un ruolo fondamentale nella creazione di elenchi di individui autorizzati a essere colpiti”. E comprendiamo bene come alcuni prodotti informatici israeliani siano stati concepiti per un uso duale, per dotare l’esercito di un sistema di arma tecnologicamente avanzato e di elevata ferocia distruttiva e dall’altra parte commercializzare il prodotto ad uso civile concludendo affari con innumerevoli aziende e paesi occidentali per un sistema avanzato di video sorveglianza.
Notizie ignote ai media occidentali ma note e diffuse da almeno dieci anni dalla Rete italiana pace e disarmo con la campagna “Stop Killer Robots” per regolamentare le armi autonome. Il quotidiano inglese The Guardian dichiara che “il comando militare israeliano ha consapevolmente approvato l’uccisione di centinaia di civili palestinesi, nel tentativo di assassinare un capo di Hamas”.
“Il Vangelo”, secondo fonti d’intelligence, ad aver permesso a Israele di attaccare nei primi 35 giorni di guerra oltre 15 mila obiettivi a Gaza, dieci volte più del 2021. Questo perché il sistema di IA elabora enormi quantità di dati che “decine di migliaia di funzionari dei servizi segreti non sono riusciti a elaborare” e raccomanda di bombardare i siti in tempo reale.
Dietro ai veti di Stati Uniti e alla compiacente astensione della Gran Bretagna si nascondono anche gli interessi industriali e militari di questi paesi
fonti
L’esperto: Israele a Gaza ha usato armi proibite – La Luce
Difesa di Israele | (israeldefense.co.il)
“Vangelo” secondo l’idf: l’intelligenza artificiale valuta i target da colpire Il Fatto Quotidiano del 10 Dicembre 2023
COSA SIGNIFICA VIVERE SOTTO L’OCCUPAZIONE DI UNO STATO COLONIALISTA?
COSA SIGNIFICA ESSERE ANTISIONISTI? – Enrico Semprini
Leggendo i commenti sulla attuale situazione in Palestina, ci si rende conto che tutte e tutti i commentatori parlano di questa realtà come se si fossero svegliati ieri e si stupissero di quanto è accaduto il 7 di ottobre come se fosse un fenomeno senza spiegazione alcuna, se non nella crudeltà di Hamas.
Si analizzano i fatti come eventi al di fuori della storia oppure sono scuse per fare ricostruzioni più o meno fantasiose dei fatti, sommarie, che non rendono l’idea di cosa significa “essere palestinesi”, nascere e vivere in un territorio in cui i diritti sono costantemente negati, in cui la terra su cui vivo oggi c’è ma domani forse no, perché qualcun altro prenderà il posto mio e della mia famiglia.
Una lettura dei fatti è davvero una deformazione fantasiosa della realtà: non c’è una guerra in atto in Palestina, perché una guerra necessita del fronteggiarsi di due eserciti. Il problema è che i palestinesi non sono dotati di esercito. Le uniche cose esistenti sono cellule di resistenza armata clandestina.
Per fare capire la quotidianità di questa situazione si è pensato di ricorrere ad una vecchia testimonianza in cui l’osservatore cerca di fare una relazione, una fotografia in prosa, di quello che vide nell’agosto del 1982, quattro anni e mezzo dopo l’inizio della Intifada.
Prima di questo è però necessario fare alcune premesse.
Chi scrive sostiene di essere antisionista. Cosa significa questo? Il Sionismo si fonda sulla base della legge del ritorno che recita:
<<Gli ebrei che fanno ritorno in Israele si chiamano olim: oleh al maschile e olah al femminile. A poter presentare la domanda è appunto ogni ebreo che, per la legge, viene definito così: “una persona nata da madre ebrea, o che si è convertito successivamente all’ebraismo, e non è appartenente a un’altra religione.>>
Dunque se chi scrive si convertisse alla religione ebraica, come ogni ebreo del mondo, avrebbe diritto ad emigrare in Israele e ad ottenere immediatamente la cittadinanza. A stabilirlo è la Legge del Ritorno del 1950 e successive modificazioni. Tale legge garantisce la cittadinanza israeliana ad ogni persona di discendenza ebraica del mondo, purché si trasferisca in Israele con l’intenzione di viverci e di rimanervi ed a condizione, se ancora in età, di compiere il servizio militare, della durata di tre anni per i maschi e di due per le femmine.
Se decidessi di fare questo passo, lo farei per sacre convinzioni o ne avrei dei vantaggi materiali?
<<Chi decide di ricominciare la propria vita in Israele ottiene alcuni benefici economici e agevolazioni, come si legge anche sul sito dell’Agenzia Ebraica, diversi a seconda che si tratti di una persona singola o di una famiglia. Ci sono un contributo per l’alloggio, agevolazioni per comprare casa e auto e per importare i propri beni. Ogni nucleo familiare poi riceve un sussidio in base alla composizione: una coppia senza figli, ad esempio, 30.100 shekel, l’equivalente di 6,6 mila euro all’anno (i dati sono del 2009).>>
Tutto questo da cosa è giustificato? Dall’antisemitismo europeo plurimillenario di matrice cristiana, dal nazismo tedesco e dal fascismo italiano. Infatti a giustificazione della legge del ritorno e del Sionismo, viene sottolineata la necessità storica di garantire la sopravvivenza del popolo ebraico, in un mondo che ha conosciuto forme durature e micidiali di antisemitismo. Anche qui viene richiamata la Convenzione Onu del ’66 che permette forme di trattamento preferenziale a favore di gruppi storicamente oggetto di discriminazione o persecuzione.
Tutti gli antifascisti europei sono dunque portati ad essere antisionisti, perché ripudiando il razzismo e dunque anche il razzismo antiebraico di ogni matrice, ritengono assurdo che debbano essere discriminati gli ebrei e che debbano andare in Israele per vivere e sopravvivere.
Ripudiano i crimini passati e rifiutano l’idea che ne debbano essere commessi dei nuovi in nome delle responsabilità storiche dei propri antenati europei. La lotta antifascista fa il paio con la lotta antisionista.
Gli antifascisti e antisionisti ritengono, pertanto, che la ribellione del popolo palestinese contro l’idea che sia stato fondato uno stato con caratteristiche coloniali in Palestina come conseguenza dell’antisemitismo europeo, sia logica e condivisibile fin dalle origini. E’ una idea completamente laica e priva di ogni connotazione religiosa: è semplicemente una idea dettata dal buon senso politico e da una precisa presa di posizione storica.
Cerchiamo di capire cosa sia un paese che modifica continuamente le sue frontiere prendendo in prestito un pezzo di analisi di Frederick Jackson Turner, considerato lo storico americano che diede inquadramento teorico alla cosiddetta “ideologia della frontiera”.
Abbiamo sostituito a “Stati Uniti” il soggetto “Israele” ed alle “nazioni indiane” “i territori palestinesi”:
<<Il movimento espansionista continuò verso le regioni di pertinenza indiscussa palestinese a scapito delle popolazioni native. La spinta verso la Grande Israele si compì tra il 1948 e i giorni attuali con l’acquisizione progressiva e continua di territorio. L’espansionismo si basava su interessi economici, soprattutto di tipo agricolo e commerciale, e su motivazioni ideali, legate alla convinzione che fosse necessario ampliare e rafforzare il paese per garantirne la sopravvivenza e quindi consentire la realizzazione della sua missione nella storia. La combinazione di questi due elementi permise di elaborare un canovaccio ideologico condiviso, che costituì il principale collante che permise di tenere unita la classe dirigente israeliana. L’espansione delle frontiere, supportata in maniera determinante dal governo centrale, fu accompagnata lungo il novecento da un flusso di colonizzazione costante. La corsa all’occupazione territoriale avrebbe fornito il riferimento per l’elaborazione di un epos nazionale che nel Novecento avrebbe avuto fortuna di massa nella apologia di uno stato che era stato fondato, per la vulgata, a causa del genocidio nazista. Un’ideologia della frontiera, concepita come linea di contatto tra il mondo civile e la natura selvaggia, caratterizzò il discorso pubblico in Israele nel corso del XX secolo. Era sulla frontiera che si formava l’identità democratica del nuovo cittadino israeliano.>>
A questo continuo espansionismo, dopo il rifiuto del 1948 da parte della Lega Araba, seguì una costante resistenza da parte dei nativi palestinesi.
Negli ultimi due decenni del ‘900 diventò famosa nel mondo l’ondata di resistenza palestinese chiamata Intifada.
Cosa è stata l’Intifada? In breve:
La prima Intifada (anche semplicemente “intifada“, che in arabo significa “rivolta”) fu una sollevazione palestinese di massa contro il dominio israeliano che iniziò nel campo profughi di Jabaliya nel 1987 e presto si estese attraverso Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est.
L’8 dicembre un camion delle forze di difesa israeliane (IDF), cioè l’esercito di occupazione, colpì due furgoni che trasportavano operai di Gaza a Jabalya, un campo profughi che al tempo ospitava
60.000 persone. Uccise all’istante quattro di loro. Corse veloce la voce che lo scontro non era stato
un incidente, ma una vendetta in nome di un israeliano accoltellato a morte alcuni giorni prima nel mercato di Gaza. Quella sera, scoppiò una rivolta a Jabalya durante la quale centinaia di persone bruciarono pneumatici ed attaccarono le forze dell’esercito di occupazione di turno nella zona. La rivolta si espanse ad altri campi profughi palestinesi ed infine a Gerusalemme. Il 22 dicembre
il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite condannò Israele per avere violato la convenzione di Ginevra a causa del numero di morti palestinesi nelle prime poche settimane di Intifada.
L’azione palestinese si espresse in un gran numero di forme, incluse la disobbedienza civile, gli scioperi generali, il boicottaggio di prodotti israeliani, i graffiti e le barricate, ma furono i lanci di pietre da parte dei giovani contro le forze di difesa israeliane (IDF) che portarono all’Intifada notorietà internazionale.[3]
Durante il corso della prima Intifada, 1.162 palestinesi (fra cui 241 bambini, alcuni dei quali presero parte attiva alla sollevazione) erano stati uccisi da israeliani e 160 israeliani (5 dei quali bambini) erano stati uccisi da palestinesi. La durata è stata di circa sei anni.
L’Intifada non fu mai uno sforzo militare né nel senso convenzionale né nel senso di guerriglia. L’OLP (che aveva un controllo limitato sulla situazione) non si aspettò mai che la rivolta facesse conquiste dirette a discapito dello Stato di Israele, in quanto era un movimento di massa e non una loro impresa. In ogni caso, l’Intifada riuscì a portare ad alcuni risultati che i Palestinesi consideravano positivi:
- Combattendo direttamente gli israeliani, piuttosto che confidando nell’autorità o nell’assistenza degli stati arabi confinanti, i palestinesi riuscirono a rinsaldare la propria identità nazionale indipendente, degna di auto-determinarsi. Questo periodo segnò la fine dell’abitudine israeliana di riferirsi ai palestinesi come ai “siriani del Sud” ed in gran parte pose fine alla discussione israeliana di una “soluzione giordana”
- Le brusche contromisure israeliane, in particolare durante i primi anni dell’intifada, portarono al ritorno dell’attenzione internazionale verso la situazione dei palestinesi, come prigionieri nella propria terra. Il fatto che 159 bambini palestinesi sotto i 16 anni, molti dei quali colpiti mentre tiravano sassi a soldati delle IDF, fossero stati uccisi, era particolarmente allarmante per gli osservatori internazionali. Il conflitto ebbe successo nel riportare la questione palestinese sull’agenda internazionale, in particolare all’ONU, ma anche in Europa e negli Stati Uniti, come anche negli Stati arabi. L’Europa divenne un importante contribuente economico per la
nascente Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e l’assistenza ed il supporto americani verso Israele divennero – almeno in apparenza – più soggetti a condizioni di prima.
- L’intifada causò anche una dura battuta d’arresto all’economia di La Banca
d’Israele calcolò che fosse costata al paese $650 milioni in esportazioni mancate, in gran parte a causa della riuscita di boicottaggi palestinesi ed alla creazione di micro-industrie. L’impatto sul settore dei servizi, inclusa l’importante industria turistica israeliana, fu notevolmente pesante.
- La rivolta può essere collegata alla conferenza di Madrid del 1991 e quindi al ritorno dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) dal proprio esilio tunisino. Nonostante il fallimento delle trattative nell’adempiere il loro potenziale, prima dell’Intifada c’erano dubbi su una futura esistenza di uno Stato palestinese. Dopo gli accordi di Oslo, un qualche tipo di Palestina indipendente, prima o poi, sembrava una cosa piuttosto certa.
A trenta anni di distanza dagli accordi di Oslo, firmati il 13 settembre 1993, la rivista Jadaliyya il 13 settembre 2023 ha intervistato il condirettore della rivista e analista Mouin Rabbani. Citiamo di seguito solo qualche stralcio:
<<Qual è stata la tua reazione quando hai saputo per la prima volta degli Accordi di Oslo?
…non mi sono mai fatto illusioni su Oslo e fin dall’inizio lo ho visto come un accordo inteso a ristrutturare e consolidare il dominio israeliano sui palestinesi piuttosto che a porvi fine, allo stesso tempo non sono riuscito ad anticipare la portata della catastrofe che ha prodotto. Le cose sono andate molto peggio di quanto i critici più accaniti di Oslo avrebbero potuto immaginare, in particolare nella Striscia di Gaza e nella Valle del Giordano. …
La Dichiarazione di Principi sugli Accordi di Autogoverno Provvisori, come viene formalmente chiamato l’Accordo di Oslo, è lungo solo poche pagine ed è in gran parte privo di gergo tecnico, e vale la pena leggerlo per coloro che non lo hanno fatto. Non contiene un solo riferimento a “occupazione”, “autodeterminazione”, “Stato” o qualcosa del genere. Piuttosto, i palestinesi dovevano esercitare un’autonomia limitata, all’interno di aree limitate dei territori occupati (esclusa Gerusalemme Est), da cui le forze israeliane si sarebbero “ridispiegate” anziché ritirarsi. Non avendo termini di riferimento chiari per quello che chiama un accordo sullo “status permanente”, né chiarezza sulla sua sostanza o forma, né meccanismi significativi di risoluzione delle controversie, Oslo in pratica ha trasformato i territori occupati in territori contesi. In questo quadro, le rivendicazioni israeliane e i diritti palestinesi dovevano essere trattati come ugualmente validi e subordinare l’intero processo a negoziati bilaterali significava che Israele acquisiva potere di veto sui diritti dei palestinesi. Come se non bastasse, il processo sarebbe stato supervisionato dagli Stati Uniti, per decenni alleati strategici e sponsor geopolitici di Israele, e che ufficialmente designavano l’OLP come un’organizzazione terroristica proscritta.>>
Fatte tutte queste premesse di inquadramento storico, cerchiamo di capire alcune cose attraverso la testimonianza che andiamo a riportare:
- il governo israeliano non ha mai riconosciuto legittimità alle organizzazioni politiche palestinesi, non solamente ad Hamas. Lo dimostra questa testimonianza che si colloca in anni in cui la Palestina si caratterizzava per un alto tasso di laicità della sue organizzazioni sociali e politiche;
- un occupante non è soggetto a nessuna legittimità per deliberare nei confronti delle organizzazioni politiche di cui si dotano le popolazioni occupate: se lo fa è solo sulla base dei rapporti di forza e della violenza che è in grado di esercitare nei confronti delle popolazioni dei territori occupati e sempre in barba ad ogni legittimità basata su convenzioni
Testimonianza di viaggio in Palestina: anno 1992.
UN POPOLO SOTTO SEQUESTRO
Eravamo nella corriera che da Amman (Giordania) porta al ponte che separa la Palestina dalla Giordania. Il nostro era un pullman composto quasi esclusivamente da occidentali e non possiamo lamentarci piu di tanto del trattamento riservatoci (passaggio sotto il metal-detector e perquisizione del bagaglio).
La scena sconcertante, appunto la prima immagine dello stato israeliano, la abbiamo vista nei confronti di un altro pullman. Dall’abbigliamento dei passeggeri era facile dedurre che erano cittadini di paesi arabi (parecchi di loro sicuramente palestinesi). Il pullman era carico di bagagli, specie nella zona superiore (portapacchi) in cui erano stipate diverse decine di_ valige, pacchi,
borsoni. Bene: i militari israeliani sono saliti sopra il pullman ed hanno letteralmente scaraventato giù dall’alto del pullman (cioè da almeno tre metri e mezzo di altezza) valige, pacchi e quant’altro c’era (alcuni pacchi a calci). Solo un decina sono stati fatti scendere su un apposito scivolo. Tutto ciò mentre i passeggeri erano costretti ad osservare impotenti chiusi all’interno del pullman. Sul nostro pullman alcuni passeggeri ridevano alla vista di questo spettacolo, forse percependo piu l’insensatezza della scena che la sua drammaticità.
2a immagine: chilometri di frontiera.
Dal primo controllo al secondo, nei pressi del ponte, dopo che i nostri passaporti sono già stati verificati, facciamo diversi chilometri in una zona semidesertica, tutta cosparsa di reticolati e di zone assolutamente brulle, dopodichè nei pressi del ponte (che sarà si e no di cento- centocinquanta metri) effettuiamo una nuova fermata alla quale un militare armato sale e verifica nuovamente i passaporti. P assato il ponte e fatti altri chilometri di strada, arriviamo al posto di frontiera israeliano. I nostri bagagli vengono perquisiti, ci viene chiesto quanta valuta portiamo con noi, dopo che siamo passati attraverso il metal-detector. Abbandonata la corriera per un taxi, ci avviamo verso la Pales1tina. Ma la”zona di frontiera”, in cui si nota il passaggio ai lati di diversi mezzi militari, non si conclude che dopo altra strada ed un altro posto di blocco in cui il taxista scende ed apre il baule per permettere un controllo ai bagagli che stavolta non viene fatto. Credo che, valutando ad occhio, la zona militarizzata di frontiera non sia inferiore ai sei-sette chilometri (ma tale valutazione può essere sia cauta che eccessiva).
Sulla strada per Gerusalemme incrociamo un altro posto di blocco che ci ferma per alcuni istanti senza controllarci.
GERUSALEMME.
La presenza dei soldati israeliani è costante e capillare. L’unica differenza tra la zona palestinese e la zona israeliana è che nella parte palestinese, in cui i militari debbono avere un atteggiamento più aggressivo ed arrogante, non sono presenti donne-soldato.
Un compagno palestinese ci fa notare come diverse zone di Gerusalemme siano protette, nella parte superiore delle strade, da reti metalliche tese tra una casa e l’a1tra, in modo da impedire che dai tetti si possano tirare oggetti sui militari occupanti.
Davanti al”muro del pianto” (luogo di preghiera ebraico) oggi esiste una spianata: è stata ottenuta abbattendo coi bulldozer le case dei palestinesi.
La nostra guida ci fa notare un balcone completamente protetto da recinzioni metalliche: è una casa palestinese “di confine” tra la zona araba e la zona israeliana. Questa volta le reti alle finestre le hanno messe i palestinesi, perché in passato i “coloni” (immigrati di religione ebraica da altri paesi ed automaticamente cittadini israeliani) avevano lanciato una bottiglia incendiaria (una
molotov) nella finestra che, entrando in casa ed incendiandola ha fatto morire una donna e la figlia di tre anni.
Il compagno che ci fa da guida ha già scontato diciassette anni di carcere. Non per questo ha smesso di lottare. Dorme fuori in questi giorni (siamo attorno al dieci agosto) perchè c’è una nuova ondata di arresti di palestinesi. Poi ne spiegheremo le ragioni.
Vicino all’ostello in cui siamo alloggiati vi è la casa di un pezzo grosso israeliano (un compagno italiano mi dice che e la casa di Shamir). Davanti ad essa stazionano giorno e notte quattro o cinque militari che, a turno con altri, la sorvegliano. Sono, come tutti i militari di qui del resto, armati di tutto punto: imbracciano-fucili-mitragliatori, pistole, coltelli, un lancia-lacrimogeni e quant’altro di peggio si pub immaginare.
Un giorno assistiamo alla perquisizione di un palestinese. Ci sono sette o otto militari attorno a lui. Viene fatto mettere mani al muro, perquisito e gli viene richiesta la carta di identità. Nel frattempo deve restare con le mani al muro. Controllano alla centrale.
Le carte di identità palestinesi sono di due differenti colori: arancioni o verdi. L’arancione e la carta normale, la verde e dei confinati. Infatti chi ha la carta verde non può muoversi dalla sua città. Per avere la carta verde (che non e certo un’ambizione) non c’è bisogno di fare grandi cose: basta far parte (o meglio che gli israeliani, i sionisti pensino che un palestinese fa parte) di un’organizzazione politica, poiché i palestinesi, anche se abitano nei territori occupati cioe non is r a eliani anche dal punto di vista del diritto internazionale vigente, non hanno diritti politici, cioè non possono costituirsi in organizzazione politica di qualsiasi genere essa sia.
L’elenco dei diritti negati non ha praticamente fine.
Non c’è diritto di manifestazione: abbiamo assistito ad un tentativo di manifestazione a Gerusalemme da parte di un gruppo di donne che avevano steso uno striscione con scritto “Gerusalemme è la capitale della Palestina” (ciò significa che gli israeliani non devono rivendicarne il possesso). Bene: dopo un centinaio di metri del cammino del corteo i militari israeliani hanno iniziato a sparare in alto e a rincorrere le manifestanti disperdendole.
Naturalmente non hanno diritto di affissione. Ogni muro di Gerusalemme è pesantemente imbrattato da croci di vernice nera: sono le cancellature degli israeliani rispetto agli slogan che i palestinesi, giorno dopo giorno, instancabilmente rinnovano sui muri.
Non hanno diritto allo studio.
Da quando e iniziata l’Intifada (la ribellione popolare) quattro anni e mezzo fa, le università e le scuole palestinesi sono state chiuse. I palestinesi hanno reagito strutturando delle forme di educazione popolare in cui utilizzano i luoghi di culto per far lezione ai bambini, oppure appartamenti, ex- alberghi e quant’altro per poter continuare lo studio universitario. Nonostante tali difficilissime condizioni la percentuale di laureati tra i palestinesi è tuttora superiore a quella degli israeliani. Infatti occorre sfatare uno dei miti che vengono propagandati dai nostri mass-media (radio, giornali, televisione, ecc.) secondo i quali gli “arabi” sono popolazioni rozze, ignoranti e retrograde. Io ho parlato con tantissime persone che sapevano almeno tre lingue. Certo mi si può rimproverare di aver conosciuto soprattutto persone impegnate politicamente, il che non è del tutto vero. Ma anche fosse, quale organizzazione politica occidentale può vantarsi di avere tra i suoi aderenti decine di persone che conoscono più lingue? Vi assicuro che in più di un’occasione ho pensato che il popolo italiano fosse un popolo rozzo ed ignorante se paragonato a quello palestinese. Poi mi sono moderato, perché so che qualsiasi tipo di generalizzazione è assurdo e stupido.
Torniamo ai fatti.
Per parecchi giorni non abbiamo potuto uscire da Gerusalemme perché le zone che volevamo visitare erano sotto coprifuoco. Nel frattempo giungono notizie dall’Italia sull’arrivo dei
profughi albanesi. Immaginiamo il trattamento che gli sarà riservato.
Il comportamento del nostro governo sarà ben diverso da quello Giordano: infatti pochi giorni prima avevamo appreso che in Giordania nella sola Amman vi erano alcune centinaia di migliaia di profughi Iracheni (150.000 secondo le stime ufficiali, 400.000 secondo quelle ufficiose) eppure il governo Giordano non aveva adottato nessun procedimento di espulsione. Ma si sa: i più civili siamo noi!
Superato il periodo dei coprifuoco, i compagni riescono ad organizzarci un giro affinché ci rendiamo completamente canto della situazione.
Prima di passare a questo voglio annotare una cosa curiosa: in Palestina ci sono tantissimi stranieri, spesso di sinistra o pacifisti o curiosi. Abbiamo incontrato dei tedeschi, dei danesi, dei belgi, dei baschi (felice incontro perché parlando con i palestinesi dicevano che si riconoscono quando ridono di gusto tra loro, mentre gli altri stranieri spesso sono seri ed immusoniti: commentavano che i popoli in lotta che non sanno se domani vivranno o no, sentono con maggiore intensità la forza della vita!), un canadese, degli olandesi, altri italiani, degli statunitensi, ecc. Diversi gruppi studiano la realtà sociale, altri portano aiuti ai palestinesi, altri ancora cercano semplicemente di farsi un’idea della situazione.
Dicevo: ci spostiamo ed andiamo a Ramallah, una cittadina vicina a Gerusalemme. All’università, che è in realtà un ex-albergo adattato alla meno peggio, incontriamo tantissimi studenti e studentesse. La realtà dell’università è, apparentemente, poco diversa da quella che incontreremmo in una qualsiasi università delle nostre parti. Si possono vedere giovani seduti in diversi posti a discutere o a studiare o a ridere assieme. Non esiste alcuna separazione tra i sessi. Le aule sono strapiene di gente, proprio perché ricavate da un edificio non costruito a quello scopo.
La differenza_rispetto alle nostre università, è nel modo in cui questi giovani la vivono. Per la maggior parte di loro, studio ed attività politica sono inestricabilmente connessi. Lottano per il diritto allo studio giorno per giorno, lavorando e studiando tra grandi difficoltà a causa della carenza di libri di testo, di laboratori, di possibilità di spostamento, di soldi che non ci sono. Ci chiedono di aiutarli, di far sapere nelle nostre scuole, nelle nostre università che in Palestina ad intere generazioni di persone si cerca di negare il diritto allo studio.
Ci ricordano che la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani sancisce che: “ognuno ha diritto all’istruzione”. Ci invitano a far pressione sui nostri governi affinché inducano Israele a non rinnovare l’ordine militare di chiusura delle università che è stato finora puntualmente rinnovato di tre mesi in tre mesi (ancora uno dei diversi metodi punitivi generalizzati adottati contro i palestinesi).
Ma andiamo avanti.
Abbiamo visitato un centro giuridico per i diritti umani, centro che e in contatto con Amnesty International ed altri gruppi internazionali. E’ composto da uno staff internazionale di avvocati che si occupano della situazione dei prigionieri e del diritto alla riunificazione delle famiglie. Intervistiamo uno dei membri: ci parla della politica dell’esercito israeliano nei confronti delle manifestazioni, dei proiettili di gamma, delle detenzioni.
Teniamo canto che in Palestina, occupata da decenni dagli Israeliani, e vietata qualsiasi manifestazione. I militari hanno un regolamento secondo il quale per disperdere una manifestazione, dovrebbero prima invitare lo scioglimento col megafono, poi sparare in aria, se ancora non si scioglie sparare sotto il ginocchio, poi sparare addosso. Generalmente viene eseguito direttamente l’ultimo passaggio, tanto è vero che la maggior parte dei morti e dei feriti erano colpiti alla testa.
I proiettili hanno subito una metamorfosi dall’inizio dell’intifada ad oggi. Inizialmente erano di gomma, poi e stata rinforzata da un’anima d’acciaio, ora vi è un proiettile di acciaio ricoperto da un sottile strato di plastica.
Un particolare importante: la polizia e l’esercito israeliani sono tra gli unici al mondo a non utilizzare gli scudi, che in Corea vengono usati con efficacia non solo per proteggersi dai lanci di sassi ma addirittura dalle bottiglie molotov. Inoltre pur essendo produttori di avanzatissimi idranti anti-sommossa di cui sono esportatori, gli israeliani non li utilizzano qui (teniamo conto che sono tra i mezzi meno cruenti utilizzabili contro le folle). Questa e chiaramente fatto per rendere la repressione più dura, dato che i militari, in questo modo, sono più esposti a rischi negli scontri.
In effetti la repressione è durissima.
Pensiamo al fatto che qualsiasi palestinese può essere incarcerato anche senza motivo edetenuto per sei mesi senza che abbia commesso nessun reato. La chiamano “detenzione amministrativa”:. Inoltre chiunque venga incarcerato, non ha diritto di vedere neppure il proprio avvocato per i primi diciotto giorni.
Ma c’è di peggio.
I palestinesi, a causa della penuria di carceri (pensiamo che da quattro anni a questa parte sono decine di migliaia le persone che hanno subito periodi più o meno lunghi di detenzione), sono detenuti in campi come quello di Ansar 3. Ansar 3 e una tendopoli messa in piedi in mezzo al deserto nella quale si tenta di distruggere il desiderio di lottare per la libertà del popolo palestinese.
Ma vedendo che la detenzione ha molto spesso l’effetto di rendere più forte la ribellione nell’animo degli ex-detenuti, l’attuale politica da parte israeliana e quella di rendere i palestinesi inabili alla lotta. Questa significa che agli arrestati si spara alle gambe, in modo da renderli incapaci di camminare almeno per qualche anno se non per tutta la vita.
A Gerusalemme abbiamo visitato un’ospedale arabo, nel quale erano ricoverati ragazzi di quattordici-quindici anni paraplegici (le gambe paralizzate) o tetraplegici (tutti gli arti, gambe e braccia paralizzati) in seguito alle ferite riportate. Un ragazzo di quindici anni ha delle lesioni interne talmente gravi che deve stare tutto il giorno a pancia in giù forse per tutta la vita. Conosciamo un uomo di 38 anni che ha moglie e quattro figli (erano li a trovarlo): era l’unico che lavorava in famiglia. Ora ha le gambe paralizzate per sempre e non ha la possibilità di mantenere la sua stessa famiglia (i bambini sono piccoli). Un uomo anziano, ricoverato, ci racconta che il popolo palestinese ha conosciuto decine di occupazioni, Egiziana, Siriana, Persiana, Inglese ma non ha mai smesso di lottare. Non smetteranno neppure stavolta!
Vi assicuro che e difficile non rimanere senza parole di fronte a simili testimonianze ed alla presenza di simili drammi.
Ma torniamo al centro per i diritti umani.
Il nostro interlocutore ci da l’idea di un’altra questione altrettanto_inumana: il problema della divisione delle famiglie. Infatti i matrimoni tra palestinesi che si sposano con altri palestinesi residenti al di fuori del territorio occupato, per esempio in Giordania o in Siria ecc., non vengono riconosciuti, talché non possono acquisire la cittadinanza nè risiedere assieme alla propria moglie/marito se non andandosene
dalla Palestina (e questo e, per l’appunto, lo scopo degli israeliani: che i palestinesi se ne vadano).
E questo non è l’unico motivo di divisone delle famiglie.
Un altro esempio ci e stato fornito durante una visita a Betlemme. La compagna che ci faceva da guida, ci ha parlato del suo caso personale. Durante il periodo in cui vennero occupati i territori Palestinesi che abbiamo visitato in questi giorni, il padre di questa nostra amica era in Kuwait a lavorare, assieme a lui stava la madre ed i suoi fratelli erano via per motivi di studio.
Gli Israeliani fecero un censimento poco dopo l’occupazione e tutti gli assenti erano considerati da quel momento stranieri. Lei è cresciuta dai nonni e da allora può vedere i suoi genitori ed i fratelli solo per brevi periodi nei quali lei o loro possono viaggiare.
Continuiamo da Betlemme il nostro racconto.
Innanzi tutto l’arrivo. I taxi fermano nella piazza principale di Betlemme. In tale piazza vi è da un lato la chiesa della natività e dall’altro la stazione di polizia, un edificio recintato da reticolati e con camion e jeep parcheggiati fuori. Il tutto condito con militari superarmati, come sempre.
Andiamo all’uffico stampa palestinese. La prima notizia e che durante gli scontri che vi sono stati la sera precedente nella striscia di Gaza è morto un ragazzo di quattordici anni.
Li incontriamo la compagna che ci farà da guida, della quale già si e accennato qualcosa più sopra. Ci porta in giro per Betlemme, ci mostra le piazze in cui sono avvenuti diversi scontri e ci racconta che uno dei luoghi di ritrovo per i manifestanti e il mercato, il suk in arabo, dal quale sono partite diverse manifestazioni. Passando per la chiesa della natività le chiediamo che ruolo svolgono i religiosi rispetto alla repressione. Ci spiega che qui i frati vengono quasi tutti da altri paesi e preferiscono non intromettersi nel conflitto israelo- palestinese. Comunque, quando qualcuno lo ha fatto, è sempre stato in difesa dei palestinesi.
Poi mangiamo insieme. Le diciamo che ci farebbe piacere offrirle almeno il pranzo (non dimentichiamo che ci sta dedicando il suo tempo gratuitamente e che per qualsiasi palestinese la situazione economica è difficile). Ci risponde che il tempo che ci dedica deriva da una sua precisa scelta politica e che per lei far capire a degli occidentali la reale situazione del suo popolo, e già pagante e non vuole accettare, per questa scelta, qualcosa che può far pensare ad un vantaggio personale. Solo il fatto che le diciamo che per noi sarebbe motivo di gioia esprimere in questa maniera semplice e banale la nostra gratitudine, la convince.
Il pomeriggio visitiamo la casa di un martire. Sono presenti le sorelle, i fratelli,
ed i genitori del martire stesso: era un bambino di dodici anni. Ci mostrano le foto del ragazzo ed assistiamo al drammatico resoconto del giorno in cui è stato assassinato. Cerchiamo, in qualche modo·di sostenere un dialogo insostenibile, facendo capire che tentiamo di comprendere la loro realtà e che in Italia abbiamo dato vita a diverse iniziative a sostegno della lotta del popolo palestinese, dal boicottaggio dei prodotti israeliani, alle manifestazioni pubbliche per sensibilizzare la popolazione italiana, alle adozioni a distanza, al lancio di proposte di solidarieta nel meeting internazionale di Venezia,·allo sciopero generale contra l’intervento nella guerra del golfo, ecc. E’ difficile far capire quanta indifferenza e quanta ignoranza esista per i problemi che sono “fuori da casa nostra” in Italia ed in Europa e come tuttavia vi siano migliaia di giovani e non giovani che tentano di
mantenere viva questa sensibilità anche, specie tra i compagni, correndo rischi in prima persona. Purtroppo realtà come quella di questa famiglia non sono rare in Palestina. La maggior parte dei morti ammazzati e compresa nella fascia d’eta che va dai 14 ai 21 anni.
Nella stessa città, per esempio, abbiamo visitato la casa di un altro martire: era un ragazzo di sedici anni. Facendo il barista aiutava la famiglia a mantenersi in quanto il padre e invalido. Ci hanno mostrato le foto di quando era all’ospedale: era stato colpito alla testa e le immagini sono inenarrabili. Il fratello di questo ragazzo ha subito un grave trauma cranico da piccolo a causa di un incidente d’auto. Ora avrebbe bisogno di assistenza psicologica in un centro di riabilitazione specializzato, ma i suoi genitori non hanno sufficiente denaro per mandarlo.
La sera dormiamo a Betlemme a casa di un compagno. A proposito: abbiamo anche rnangiato a casa sua ed a casa di altri compagni. E’ rnolto buona la cucina palestinese. Per quanto mi riguarda in 13 giorni sono ingrassato due chili. E’ a base di pane condito a discrezione del commensale: si può mangiare con carne di pollo o di pecora, maionesi e salse di diversi tipi, verdure o formaggi e talvolta burro e miele.
Ancora a proposito della cultura dei palestinesi: le due sorelle del martire conoscono l’una due, l’altra tre lingue oltre l’arabo (italiano compreso).
Il giorno dopo la nostra accompagnatrice ci presenta suo figlio, un bambino di due anni e mezzo, che lei terrà in braccio praticamente tutto il giorno. Durante il giorno saranno diverse le occasioni in cui potremo assistere alle dimostrazioni del profondo, vigile affetto che la nostra compagna dedicherà al suo bambino. Diverse volte mi sono chiesto quali siano le domande che una madre come lei può porsi sul futuro del suo bambino, che cresce in una realtà cosi violenta.
Ma proseguiamo.
Siamo andati in un villaggio, un campo, come lo chiamano qui. Si chiarna Deshacamp. E’ a pochi chilometri da Betlemme. In pratica è un paese di ottomila abitanti, ma è difficile capire cosa lo differenzia da un campo di concentramento. Tutt’attorno infatti è circondato da una rete metallica alta 5 o 6 metri. Nella parte che dà sulla strada sono state applicate delle onduline (alla rete metallica) in modo che dal campo sia impossibile vedere la strada. Questo per impedire ai bambini di vedere le automobili dei coloni e lanciare sassi contro di esse. L’entrata e ostruita da un grosso cancello girevole al quale si può accedere uno per volta. Questo è fatto per impedire ai palestinesi di fuggire velocemente sia entrando che uscendo dal campo.
Inoltre il cancello stesso può essere bloccato in modo da chiudere dentro tutti gli abitanti (come e già successo). Di notte nei pressi dei cancelli (sono due le entrate) vengono accesi dei fari che illuminano gli spiazzi antistanti, in modo da poter controllare da lontano tutti i movimenti attorno agli accessi al campo. Attorno al campo vi sono quattro accampamenti militari, dei quali due nelle immediate vicinanze e due più lontani su delle alture (forse più postazioni di vedetta che veri e propri accampamenti questi ultimi). Ogni ora i militari israeliani passano a fare la ronda. E’ una di queste ronde che un giorno ha fermato un ragazzo del paese e l’ha interrogato chiedendogli cosa pensasse dell’Intifada (la rivolta). Lui si alzò la maglietta mostrando ai militari uno stomaco artificiale applicatogli esternamente al corpo per i danni che aveva subito agli organi interni a causa di proiettili israeliani: <<ecco cosa penso dell’Intifada!>> disse. Un militare, sentendosi insultato?, lo spinse a terra e gli strappò dall’addome l’apparecchio innestato, riaprendo la ferita all’addome stesso. Solo l’intervento del paese lo salvo: giunse in tempo all’ospedale, dove l’apparecchio gli fu ricollegato. E’ la madre di questo ragazzo che ci racconta tutto ciò. E’ morto circa un anno fa. Chiamavano suo figlio il “martire vivente”, perché tutto il paese era convinto fosse morto al memento della prima ferita, tanto era malridotto. Fu portato negli Stati Uniti e venne salvato. Aveva ripreso una vita pressoché normale, guidava l’automobile, studiava, partecipava ad un gruppo canoro nel villaggio. Dopo l’operazione aveva rilasciato un’intervista ad una radio in cui dichiarava di sostenere l’Intifada. Dopo un anno dal trapianto sono sorte delle complicazioni che lo hanno portato definitivamente alla morte, perché
all’ospedale di Gerusalemme non sono dotati di un’attrezzatura abbastanza complessa da poter affrontare simili problemi. Difficile pensare che l’episodio di cui sopra non abbia inciso in questo decorso. Il giorno del funerale tutto il paese ha manifestato nonostante il coprifuoco, cioe rischiando in massa la vita (e non sarebbe la prima volta che muoiono palestinesi ai funerali dei loro compagni).
Abbiamo poi visitato una clinica dentistica all’interno del campo. Veramente ben organizzata. Un anno fa era stata incendiata e completamente distrutta. Prima potevano svolgere un servizio gratuito. Ora debbono far pagare qualcosa anche se tendono a mantenere prezzi politici. Da quando l’hanno ricostruita montano la guardia giorno e notte ed hanno montato inferriate alle finestre per impedire il ripetersi di atti di vandalismo.
Un aneddoto significativo.
Durante una discussione con altri palestinesi, ad un certo punto volevo parlare dei coloni israeliani e, non ricordando la traduzione in inglese delle parole “coloni israeliani”, ho tradotto sbrigativamente con “giudei”. Subito la compagna che era nostra guida, mi ha interrotto e precisato che non si dice “giudei” ma “sionisti”. E’ una precisazione importante, perché la parola “giudeo” ha un connotato razzista poiché e sempre stata usata dai fascisti e dai nazisti. Infatti il termine politicamente e storicamente esatto e “sionisti” e più avanti ne spiegherò ampiamente le ragioni.
Ho sottolineato questo fatto perché una volta di più dimostra l’altissimo livello di cultura politica del popolo palestinese. Anche altre sono le testimonianze che avvalorano questa valutazione. Per esempio Besan.
Besan e un Centre di studi economici allestito dalla sinistra palestinese, per studiare e programmare scientificamente lo sviluppo della loro economia. Inoltre studiano l’impatto che gli slogan che vengono lanciati e poi applicati nell’agire politico, possono avere sul piano economico (pensiamo a quelli sul boicottaggio dei prodotti israeliani, per esempio).
Intervistando il presidente di questo Centre, abbiamo imparato diverse cose riguardo le difficoltà in cui si trova il popolo palestinese. A causa della guerra nel golfo, per iniziare, tutti i palestinesi che risiedevano in Kuwait per lavoro sono stati o ammazzati oppure hanno dovuto fuggire. Quindi le rimesse in denaro che giungevano in Palestina sono cessate. I lavoratori palestinesi che precedentemente lavoravano in Israele invece, si sono visti, man mano che proseguiva l’intifada, negare i permessi di entrata in “territorio israeliano”. Con la guerra nel golfo in pratica più nessun palestinese lavora in Israele. Inoltre la depressione economica generalizzata del medio-oriente attuale, ha ridotto tutte le rimesse palestinesi dall’estero. Questo ha significato rendere la vita in Palestina particolarmente difficile dal punto di vista economico. Si aggiunga a questo il fatto che gli israeliani negano ai palestinesi i permessi per impiantare qualsiasi forma di impresa che superi il livello artigianale (quindi non possono sviluppare un’industria autonoma) ed esercitano un controllo sulle risorse idriche (sull’acqua) che rende difficile l’agricoltura.
Un esempio può far capire cosa significhi il controllo dell’acqua: la disponibilità di acqua per uso domestico è, per le famiglie palestinesi, 10-15 volte meno di quella utilizzabile dalle famiglie israeliane.
Altro fatto sconcertante è che per i palestinesi esportare merci è quasi impossibile, se non per i gruppi finanziari più grossi, anche perché debbono pagare praticamente sempre due dogane: la prima per portare le merci in Israele, poi all’estero.
In presenza di questa situazione, si e generata la necessità impellente di sviluppare una loro economia indipendente.
Su questo terreno i compagni si stanno muovendo già da anni e da anni hanno costruito forme di produzione su base cooperativa. Tali cooperative, in questa fase, stanno assumendo moltissima importanza poiché tendono a trasformarsi, da piccoli gruppi di sette-otto persone che si dedicano, per esempio, all’allevamento dei polli o alla conservazione dei cibi, in realtà più grandi che contribuiscono fortemente ad impiegare la manodopera di interi villaggi. Ora il problema che si pone questo centro di ricerca e di studio, è l’elaborazione di un modello organico di sviluppo di tali realtà che possa contribuire a creare una circolazione di merci interna tale da garantire un certo tenore di vita medio al popolo palestinese. Ma il loro intervento non si limita a valutazioni di carattere scientifico-economico. Si preoccupano anche di stimolare la gestione popolare di tali iniziative, incentivando l’acquisizione di conoscenze a cerchie di persone sempre più vaste e stimolando la cultura della partecipazione, cercando di far conoscere in particolare le strutture che da questo punto di vista sono più avanzate. Niente male per una di quelle popolazioni che i mass-media ci dipingono come appartenenti all’ignorante, rozzo, retrogrado mondo arabo, no?
Dobbiamo aggiungere ancora qualcosa che testimonia dell’alto grado di cultura sociale e politica di questo popolo.
Riguarda il ruolo delle donne nell’intifada. Tale ruolo e fondamentale e riguarda i più diversi settori della vita sociale. Le donne fanno parte di diverse organizzazioni, esse stesse gestiscono proprie organizzazioni e si occupano, per esempio, della costruzione e gestione degli asili, di cooperative e di politica. Certo si pongono anche il problema della liberazione della donna (specie le compagne) ma il tutto e tatticamente subordinato alla unita d’azione per la lotta di liberazione.
Abbiamo visto diversi asili: qui ci si occupa di organizzare incontri con le famiglie per gestire tali realtà nel modo più comu nitario possibile. Il prezzo di accesso ad essi e politico, per quanto si può, talvolta simbolico.
Inoltre gli incontri con le famiglie rappresentano molto spesso una possibilita per le donne di incontrarsi e di parlare dei loro problemi.
Svolgono, naturalmente, corsi di pedagogia infantile per le insegnanti.
Ma torniarno a Betlemme.
Qui vediamo coi nostri occhi per la prima volta, una cosa di cui finora avevamo solo sentito parlare: la distruzione e lo sbarramento della casa di un arrestato. In questo caso e,
ancora una volta, uno dei figli che e stato arrestato. Non contenti di questo, gli israeliani sono venuti nella sua abitazione ed hanno sbarrato le porte di casa e le finestre, vietando l’utilizzo della casa stessa a tutti i mernbri della farniglia. Vista la situazione senza uscita ed avendo bambini piccoli che possono soffrire piu facilmente il freddd invernale, scelsero di costruire una casa nuova. Fatto sta che quando gia avevano fatto le fondamenta e costruito i piloni di cemento armato, sono arrivati gli israeliani che con una ruspa hanno deciso di aiutarli a demolire”quell’edificio pericolante”.
Ora dormono in sedici in una tenda ed in una cantina della loro vecchia casa (sono due famiglie). La madre del prigioniero rivolgendosi a noi ci ha chiesto:<<ma in Europa se uno commette un crimine puniscono anche tutta la sua farniglia? >>.
E neppure questo e un caso isolato. In certi paesi per radere al suolo la casa di
una sola farniglia, gli israeliani hanno usato cariche cosi potenti che hanno distrutto fino ad otto case in un solo colpo.
In un’altra citta, simile per struttura architettonica a Gerusalernme, dopo aver visitato una clinica (i palestinesi hanno una rete sanitaria nazionale autogestita, purtroppo i medici stessi sono spesso oggetto di arresti), abbiamo visto case con le porte murate e strade intere sbarrate con grossi bidoni pieni di cementa arnrnonticchiati uno sull’a1tro per diversi metri di altezza.
A Jenin, un paese di dodicimila abitanti, vi sono ventisette vie della citta ostruite in questo modo.
Ma prima di addentrarci nella complessa realta di Jenin, è bene che spieghiamo la ragione per cui in zone come questa la realtà sociale e cosl violentemente esplosiva.
Per farlo dobbiamo tornare all’ultima sera passata a Gerusalemme ed a una conferenza a cui abbiamo partecipato e nella quale ‘parlava un leader della sinistra palestinese.
Sono rimasto affascinato dalla abilità di questo oratore che era in gradi dare precise valutazioni della situazione internazionale in tutta la sua complessità, in maniera semplice e chiara.
Ci ha fatto un notevole inquadramento generale della situazione internazionale e della proposta di “conferenza internazionale di pace” portata avanti dagli americani. Io non intendo riassumere l’intera conferenza, che ha toccata una vastità ed una varietà di temi che è impossibile ricordare a memoria; tuttavia voglio dare un’idea approssimativa di ciò che è stato detto.
Negli ultimi anni la situazione internazionale (nel 1992) è profondamente mutata.
L’Unione Sovietica (esisteva ancora al tempo, ora non più) non svolge più nessuna funzione di deterrenza nella leadership mondiale degli Stati Uniti e questo è emerso chiaramente durante il periodo della guerra del Golfo.
L’Europa in genere ha espresso, tramite le vocche dei vari ministri degli esteri, che è nella impossibilità di impostare una politica estera diversa da quella statunitense.
I paesi arabi, specie dopo la guerra del golfo, sono tutti più o meno allineati alla strategia statunitense.
Il governo israeliano del resto, comprende come questo sia il momento propizio per darsi un’immagine di governo disposto al dialogo, nulla di più.
I palestinesi si trovano di fatto in uno dei periodi di maggior isolamento politico internazionale che abbiano mai conosciuto, letteralmente soli contro il gioco internazionale che cospira contro di loro. Anche l’opinione pubblica internazionale è contro di loro, specie grazie alla propaganda anti-araba durante la guerra, tenendo conto che l’O.L.P. (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) nel suo complesso ha appoggiato Saddam (se non altro perché non si accettano ingerenze occidentali nei territori arabi).
Ora gli americani esordiscono con questa conferenza di “pace”, che in realtà è una “conferenza di oppressione”.
Infatti:
come primo obiettivo stanno esplicitamente cercando di distruggere la rappresentativita dell’OLP. Baker (ministro degli esteri U.S.A. dell’epoca) infatti e andato piu volte in Palestina dicendo di lavorare per una nuova rappresentanza palestinese, nei fatti tentando di accantonare l’OLP (l’OLP e l’organizzazione generale dei palestinesi che raggruppa le forze piu diverse).
Poi: come viene organizzata la conferenza.
- I palestinesi hanno chiesto di essere rappresentati dall’OLP; gli israeliani non vogliono accettare la partecipazione dell’OLP.
Infatti l’OLP non partecipera.
- I palestinesi chiedevano di aprire la conferenza sotto l’egida dell’ONU, cioe di rendere realmente internazionale la conferenza stessa.
Gli israeliani (che da questo momenta definirò sionisti) chiedevano una conferenza regionale cioe del Mondo Arabo più Israele più gli Stati Uniti.
La seconda proposta è quella che passerà.
- I palestinesi chiedevano due tavoli di trattativa: uno per il problema arabo-israeliano, un altro per il problema israelo-palestinese.
I sionisti accettavano solo una conferenza di “pace” arabo-israeliana (non dimentichiamo che tra molti paesi arabi ed Israele non è mai stato stipulato un armistizio di pace e che quindi sono formalmente in guerra, anche se è una guerra non guerreggiata).
Naturalmente la conferenza sara Arabo-Sionista (Israeliana).
- I palestinesi chiedevano una delegazione
I sionisti non volevano nemmeno vedere una targhetta con scritto “Palestina”. Infatti i palestinesi potranno avere una delegazione solo se accetteranno di ag- gregarsi alla Giordania.
- I palestinesi chiedevano che alla conferenza venissero discusse tutte le risoluzioni dell’ONU (quindi anche quelle che riguardano i loro diritti).
I sionisti accettavano di discuterne soltanto due sullo stato di Israele.
E saranno quelle due risoluzioni le uniche ad essere discusse.
- I palestinesi chiedevano che alla conferenza si parlasse della creazione dello stato palestinese.
I sionisti rifiutavano di parlarne ora e volevano rimandare la discussione di
questo a dopo la conferenza. Per ora accettano di parlare solo di autonomia dei territori occupati (cioe piu o meno tutto come ora, il che non prelude necessariamente alla creazione di uno stato palestinese.
Anche in questo caso passa la posizione sionista.
- I palestinesi chiedevano che cessassero le attivita militari e la creazione di nuovi insediamenti sionisti in teritorio palestinese (infatti i sionisti si impossessano di territori palestinesi costruendo interi quartieri nuovi) durante il periodo della conferenza.
I sionisti non volevano sospendere nessuna di queste attivita.
Tali attivita non saranno sospese.
- D) Inoltre Shamir, ministro israeliano, voleva controllare la lista dei palestinesi che dovrebbero partecipare alla conferenza prima della stessa (per escludere gli indesiderati?).
Questo per dare la liberta ai palestinesi di scegliere i loro rappresentanti… nella misura in cui vanno bene ai loro nemici!
Visto l’aria che tira, e possibile che passi anche questa angheria.
E’ evidente che in queste condizioni il popolo palestinese si sente umiliato, preso in giro, negato nelle sue legittime aspirazioni.
Quindi la reazione è un incremento della ribellione.
Jenin, per l’appunto, e una delle cittadine piu “calde” da questo punto di vista. Operano in Jenin due organizzazioni guerrigliere: le Pantere Nere e le Aquile Rosse. In questa citta siamo andati a trovare una signora che ha alcuni figli, tre dei quali fanno parte di queste organizzazioni: hanno 15, 16 e 18 anni. Non dormono in casa naturalmente e quando e fortunata la signora vede i suoi figli per strada e scambia con loro poche parole. Attualmente uno di loro e detenuto. Lo va a trovare ogni volta che puo,ma non sempre glielo lasciano vedere e se lo vede e solo per cinque minuti. Non riesce piu a parlare perche le viene da piangere ed e la figlia che continua. Dice che sulle braccia del fratello si notano i segni delle sigarette spente su di lui durante gli interrogatori. Poco più avanti entriamo in un’altra casa: qui la signora ha un figlio morto da poco e un altro clandestino. Dice che non stroncheranno la lotta del popolo palestinese e che fara un altro figlio. Infatti una delle parole d’ordine per le donne palestinesi e di dare figli al popolo per non essere cancellati dalla faccia della terra. E le donne palestinesi accettano di buon grado le gravidanze (anche se esistono i consultori e conoscono gli anticoncezionali, che pero non vengono utilizzati se non dopo il primo figlio), reagiscono alle sofferenze ed alla durezza delle condizioni in cui vivono con coraggio e continuano a lottare e ad amare i loro uomini ed i loro figli.
In questa casa c’e un bambino piccolo. Gli chiedono cosa vuole fare da grande. Risponde che vorra far parte delle Aquile Rosse. Lascio immaginare a voi quale puo essere l’infanzia che fa dire ad un bambino di quattro anni (e questa la sua eta) che il sogno per il suo futuro e di far parte di un’organizzazione armata.
Il compagno che ci fa da guida a Jenin, lavora in una clinica di base del sistema sanitario palestinese.
Ci sono problemi a farci girare per la citta perche la repressione e enorme.
La sera saremo ospiti a casa sua. E’ un ragazzo simpatico col quale sara facile fare amicizia. In casa incontriamo anche suo fratello che e stato detenuto per oltre due anni. La sera siamo circondati da amici, da compagni coi quali rimaniamo a discutere fino a tarda ora. Iniziamo a dormire verso la mezzanotte e mezzo. Dopo circa un’ora, all’una e trenta, sentiamo dei rumori in casa (dormivamo sul terrazzo superiore).
Il nostro compagno, che dormiva accanto a me, mi dice che sono i militari israeliani che lo sono venuti ad arrestare. Ci dice di non muoverci e scende in casa perche ha sentito che chiamavano il suo nome. Poco dopo vediamo salire un militare con una torcia elettrica. Ce la punta in viso e fa qualche domanda in inglese. Io tento una risposta ma a quel punto, convintosi che siamo stranieri scende e se ne va con gli altri.
Il nostro compagno ci spiegherà che erano in quattordici e, dopa aver circondato la casa, sono entrati in due. Hanno tentato di perquisire i nostri bagagli ma la madre della nostra guida li ha dissuasi dicendo che ci avrebbe chiamato se lo avessero fatto (stanno particolarmente attenti a non creare fastidi agli stranieri). Il nostro compagno dice che forse non lo hanno arrestato proprio
perche noi stranieri eravamo presenti. E’ convinto che abbiano arrestato uno dei ragazzi che erano stati assieme a noi la sera precedente: il giorno dopo impareremo che aveva ragione.
Era il suo migliore amico.
Ride nervosamente poco dopo e scherza per tranquillizzare la madre che piange. Ma
poi camminera nervosamente su e giu per il terrazzo senza pater dormire fino alla quattro e mezzo del mattino.
Non ho altro da aggiungere, se non che mi e sernbrato di staccarmi dalla mia terra e dalla mia gente quando sono partito e che non riesco a dimenticare nessuno dei volti che ho conosciuto, compreso quello di un bambino che mi chiedeva insistentemente di fargli una foto a Deshacamp: il suo sguardo era pieno di furbizia e di voglia di vivere.
Cerchiamo ora di capire cosa ha portato al 7 ottobre grazie ad un reportage del 21 agosto scorso.
Dopo gli accordi di Oslo del 20 agosto del 1993, si giunge al Protocollo di Parigi che è stato formalizzato nell’aprile 1994. Questo documento non solo stabilì i legami economici tra Israele e la neonata Autorità Palestinese (AP), ma definì anche le linee guida per le loro relazioni future.
Il protocollo stabiliva un quadro doganale e fiscale che abbracciava tutta la Grande Israele, facilitando la libera circolazione di beni, persone, idee e attività finanziarie tra Israele e i territori della Cisgiordania e della Striscia di Gaza sotto il governo palestinese.
L’accordo prevedeva che Israele continuasse ad amministrare le tasse e le dogane ai confini esterni di questo quadro, mantenendo il diritto esclusivo di emettere la propria moneta, lo shekel, che sarebbe stata considerata a corso legale in questi territori. Inoltre, la gestione dell’economia interna palestinese veniva affidata alle autorità palestinesi. Tutto questo, in linea teorica.
Il Protocollo di Parigi, al momento della sua firma, rappresentava un risultato significativo ed è rimasto inalterato fino ad oggi, nonostante le sue lacune e le successive modifiche.
E’ un vantaggio o un danno?
Quando si esaminano i rapporti pubblicati dagli organismi internazionali, concepiti per garantire risorse e sostegno all’Autorità palestinese, le prospettive economiche appaiono costantemente negative. Che si legga un solo rapporto o più di uno, la situazione economica è sempre negativa.
«La prevista stretta integrazione commerciale e finanziaria tra Israele e i territori palestinesi avrebbe dovuto portare a una graduale convergenza dei redditi, implicando una crescita dei redditi pro- capite palestinesi superiore a quella registrata. Le condizioni per tale crescita, però, non si sono realizzate e la convergenza dei redditi non si è verificata», ha dichiarato il Fondo Monetario Internazionale in un rapporto dello scorso aprile.
Ciò è in gran parte attribuibile alle politiche rigide e costrittive di Israele. Un economista della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD) ha previsto una perdita economica di 50 miliardi di dollari per l’Autorità palestinese a causa delle restrizioni imposte da Israele negli ultimi due decenni. Al contrario, i profitti ottenuti dall’economia israeliana grazie agli insediamenti in Cisgiordania, secondo lo stesso rapporto, ammontano a ben 630 miliardi di dollari, più del doppio della produzione interna annuale di Israele.
…È sorprendente che questi incontri non abbiano prodotto nulla di sostanziale in termini di risultati concreti. La grande visione di creare reti elettriche transfrontaliere è rimasta irrealizzata, gli sforzi congiunti per sviluppare siti turistici comuni sono rimasti inafferrabili, gli ambiziosi piani per strade e ferrovie transfrontaliere hanno continuato a persistere come aspirazioni irrealizzate e persino gli sforzi di collaborazione per affrontare la crescente crisi idrica hanno incontrato una fine prematura.
…Tra Cisgiordania e Gaza
Quando furono stipulati gli accordi di Oslo, non c’era un divario economico significativo tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Nel 1994, il reddito nazionale medio pro capite in Cisgiordania (esclusi gli insediamenti israeliani e Gerusalemme Est) era di 1.370 dollari, mentre nella Striscia di Gaza era di 1.260 dollari. Il divario era solo del 9%.
All’apice della Seconda Intifada, nel 2002, il reddito pro capite di un residente palestinese in Cisgiordania era già superiore del 30% rispetto a quello della controparte di Gaza. Da allora, il reddito pro capite a Gaza è cresciuto del 45%, mentre in Cisgiordania è aumentato del 380%. In realtà, si tratta ora di due economie distinte con pochissimi legami tra loro, fatta eccezione per gli stipendi dei lavoratori del settore pubblico-civile nella Striscia, che sono ancora pagati dalle casse dell’AP a Ramallah.
La situazione economica di Gaza è disastrosa. Quasi il 40% della forza lavoro è senza lavoro e il salario medio locale è di 1.200 NIS al mese (312 dollari). Gli aiuti dei Paesi donatori vengono inghiottiti nel labirinto finanziario della burocrazia di Hamas. Le esportazioni attraverso i porti israeliani incontrano ostacoli burocratici e di sicurezza. Gli investimenti in infrastrutture cruciali sono ben al di sotto del necessario.
L’approvvigionamento energetico è intermittente, l’acqua è inquinata, la densità abitativa nei campi profughi aumenta di anno in anno e l’accesso ai servizi sanitari e scolastici fondamentali è tutt’altro che adeguato. La morsa della povertà si rifiuta di allentarsi.
Nei fatti gli accordi non vennero mai rispettati: da entrambe le parti c’erano obiezioni, ma lo stato israeliano aveva la forza per imporre cambiamenti sostanziali e nei fatti, dopo la firma degli accordi, l’espansione degli insediamenti israeliani accelerò di cinque volte rispetto alla normale crescita, ingenerando frustrazione tra i palestinesi ed una generale sfiducia sugli accordi e sulle intenzioni israeliane.
Come è da attendersi, viste le premesse del sionismo, esisteva una parte probabilmente maggioritaria della popolazione israeliana che era totalmente contro gli accordi di Oslo, poiché riteneva che questi andassero contro il progetto della Grande Israele, cioè della dominazione totale della Palestina.
E’ per questo che, quando si è di fronte ad una occupazione coloniale, si deve sempre parlare di ribellione. Questo è stato il 7 di ottobre, la ribellione di una popolazione esasperata da povertà, miseria, detenzioni amministrative attuate dallo stato occupante, distruzioni di case, occupazione di nuovo territorio, impossibilità di coltivare i propri campi e talvolta di poter usufruire dell’acqua potabile.
Il fatto stesso che si sia in un contesto coloniale non permette all’occupato di dotarsi di nessun esercito regolare: è per questo che non è possibile parlare di una situazione di guerra.
L’unica similitudine consiste negli atti di guerriglia che si sono verificati in tutti i territori caratterizzati da occupazioni coloniali, spesso assai poco legittimi agli occhi dei paesi colonizzatori. Di conseguenza è completamente illegittimo tutto ciò che sta facendo lo stato di Israele.
E’ lecito parlare della opportunità tattica e magari anche dei metodi?
Forse solo coloro che hanno fatto qualcosa di veramente significativo per far cessare tutto quello che è stato descritto fino ad ora potrebbero essere nella condizione di parlarne.
Tutti gli altri dovrebbero tacere e condannare senza commenti il genocidio della popolazione.
Esiste solo un modo per cessare di far morire i civili: quello di cessare i bombardamenti, ora, subito, immediatamente!
Bisogna cominciare a costruire le basi per la dignità e l’esistenza stessa del popolo palestinese!