«L’ospedale della lingua italiana» di Roberto Nobile
«Dove le parole usurpate dalle omologhe americane trovano cura e conforto»
di Luca Cumbo
Roberto Nobile è siciliano, vive a Roma, è attore e scrittore. Ha lavorato in Italia e all’estero con registi come Nanni Moretti, Ken Loach, Kiarostami, Tornatore, Luchetti. Ha vinto il premio Amidei per la sceneggiatura con il film «Le amiche del cuore» di Michele Placido nel 1995, ha pubblicato romanzi e ha scritto per il teatro; ultimamente ha prestato la voce allo scrittore Vincenzo Rabito nel documentario «Terramatta», premiato a Venezia.
Il suo «L’ospedale della lingua italiana» (pubblicato dalla piccola ma vivace casa editrice Sicilia Punto L; per contattarla: info@sicilialibertaria.it) è concepito come un piccolo dizionario di parole italiane di uso comune che sono state soppiantate dalle omologhe americane specie e soprattutto quando vengono usate in ambito commerciale, pubblicitario, e giornalistico (giorno = day come in family day ecc. fino al vaffanculo day, quest’ ultimo con evidente sfottò proprio di quest’abitudine linguistica ormai invalsa fra i giornalisti).
Precede il dizionario vero e proprio, un’introduzione e un “tema d’italiano” – finto ma verosimile anche nella sua esagerazione – di una ragazzina delle scuole medie, che è una sorta di piccolo compendio del vocabolario americanizzato dei nativi digitali, insulso e patetico (ma alla fine si sorride comunque).
Ciascuna voce («amore», «economia», «giorno» ecc.) è per così dire ricoverata in questo ospedale della lingua perduta, e si analizzano scherzosamente, a volte in modo leggero altre in maniera più pungente e sarcastica, gli omologhi americani che hanno oscurato l’uso corrente di questi termini, per i quali si è reso necessario appunto il ricovero.
A conclusione di ogni voce, ci sono delle sezioni npa (cioè non contenenti parole americane) di scrittori, poeti, anonimi, di ogni tempo, in ottima lingua italiana (vedi il ritratto di Bearzot di Gianni Brera che conclude la voce «allenatore» a pagina 17).
In qualche pagina ci sono anche elenchi di espressioni, le cui numerosissime varianti hanno invaso il linguaggio corrente: vedi trainer (personal trainer ecc.) e soprattutto l’incredibile numero di sigle (spesso di figure professionali, specie dentro le aziende) composte con il termine manager (alle pagine 40-41).
«L’ospedale della lingua italiana» – ovvero «Dove le parole usurpate dalle omologhe americane trovano cura e conforto» – è un libro intelligente, godibile, con un sottofondo ovviamente amaro, e che ha un evidente intento didattico anche se non in senso accademico professorale. L’impressione che si ha leggendolo è che l’autore, più che comporre un pamphlet al vetriolo, abbia voluto soprattutto ironizzare intelligentemente sulla stupidità della cultura italiana (popolare e non) degli ultimi decenni che ha permesso che la nostra lingua fosse travolta, senza misura e ritegno alcuni, da una valanga di espressioni straniere che rischiano di soffocarla e renderla ammalata per molto tempo ancora se non di decretarne la fine stessa…
Chi, come chi scrive, ha avuto la possibilità di vedere e ascoltare Roberto Nobile mentre legge alcuni brani da «I ministri dal cielo» (*) di Lorenzo Barbera e ne ha potuto gustare l’ironia sicula pensa che questo testo meriterebbe di essere messo in scena, sotto una nuova veste, perché è pieno di potenziali gag e spunti – di qualità e sostanza – che potrebbero essere trasformati in monologhi o dialoghi comici, e che si snodano scherzosamente a volte in modo leggero altre invece in modo più pungente e sarcastico lungo le “corsie” dell’ospedale della lingua italiana.
(*) «I ministri dal cielo» di Lorenzo Barbera è un libro importante per chi non vuol perdere la memoria. Su Terremoti, ministri, intuizioni pericolose trovate una mia recensione. (db)
in questo articolo non si cita quella espressione che in questi ultimi anni ritengo l’anglofonizzazzione più imbarazzante e deprimente: il ‘may day’ il ‘primo maggio’: non si può!; un’altra parola, italiana, che invece è usata in questo articolo ma che comporta una altrettanta colonizzazione culturale è a proposito della lingua americana, non esiste, esiste l’anglostatunitense, l’anglocanadese. l’articolo e il contenuto comunque mi piacciono.
mi è partita una z di troppo in anglofonizzazione, ma si sa noi siculi abbondiamo nelle doppie
E’ una nota piena di potenziali gag e spunti. Gag. GAG? GAAAGGG?
1) nota positiva: non è scritto “gags” visto che è plurale.
2) nota negativa: in italiano si dice “battute”, mio caro, battute, non gag.
E’ che siamo ridotti a dare il cervello in outsourcing, ehm, in approvvigionamento esterno
Mi scuso per aver letto soltando adesso il commento di Fausto. Osservazioni legittime che meritano una cortese risposta, anche se in ritardo. Come Fausto sicuramente saprà tutte le lingue non sono “pure”, ovvero sono il frutto di processi storici e influenze culturali. Ci sono innumerevoli parole nella lingua italiana che derivano da altre lingue, e neanche in tempi troppo antichi. Ebbene, ci insegna l’Accademia della Crusca, nel momento in cui una data parola è assunta nella lingua italiana, allora essa segue la grammatica italiana. Ad esempio in italiano non si usa “camions” per indicare il plurale di “camion”, non si usa “films” per indicare il plurale di “film”. Ci sono anche parole insospettabile che sono di origine straniera, ad esempio “guerra” che viene dal tedesco e non dal greco o dal latino. Quando una parola diventa ufficialmente italiana? Solitamente per avvenirne la “certificazione” sono necessari due eventi 1) Sdoganamento da parte dell’Accademia della Crusca 2) Inclusione della data parola in un buon numero di dizionari della lingua italiana. Ma in entrambi casi si tratta di una “presa d’atto” del fatto che un dato termine è ormai entrato nel lessico comune. Nel caso specifico “gag” in italiano è un sostantivo femminile invariabile, lo si può usare identico sia al singolare che al plurale. Se proprio non vogliamo considerarlo italiano, dando un dispiacere alla Crusca, al Treccani, al Devoto Oli, e ai tanti altri dizionari che includono il termine come ormai italiano, allora la traduzione esatta in questo caso non sarebbe “battuta”, ma casomai “siparietto comico”, poichè riferito ad una possibile rappresentazione teatrale.
Aggiungerei inoltre che personalmente non sono un purista, non sono favorevole al “fascismo linguistico” che trasforma William Shakespeare in Guglielmo Shakespeare per intenderci. Non sono d’accordo invece quando il termine esterofilo è usato o di proposito per non far capire l’auditore, oppure per darsi goffamente “un tono”. In ogni caso, che ci piaccia o no, è l’uso comune che determina la vita o la morte di un termine.