Louis Althusser: affabulatore, filosofo e militante
di Mauro Antonio Miglieruolo
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L’interesse personale sui lavori di Louis Althusser (nato nel 1918 nei pressi di Algeri, morto a Parigi nel 1990) è data dai compiti che, in quanto filosofo e militante, si era proposto ed è riuscito a realizzare. È la necessità di questi compiti che lo determina in quanto intellettuale. Riuscire a farsi comprendere: il rigore e la precisione dei concetti, fa tutt’uno con lo stile scelto per esprimerli. L’emergenza di tale necessità valorizza Althusser in quanto filosofo ma un filosofo del tutto particolare. Perché il problema (suo e nostro) non è di produrre (o leggere) filosofia, ma di prendere posizione in filosofia; nonché di fornire – a chi legge – gli strumenti affinché a sua volta possa prendere posizione in filosofia. Che per Althusser è lo stesso che prendere posizione all’interno della lotta fra le classi, la filosofia essendo uno dei tanti terreni su cui borghesia e proletariato si affrontano in vista di scontri a un livello sempre più alto.
Essendo il suo scopo immediatamente politico il linguaggio, di conseguenza, è il più semplice che possa sussistere (senza impoverire i concetti elaborati). Collocandosi con coerenza ed efficacia all’interno della combinazione della triade “precisione, chiarezza, rigore logico” le sue pagine diventano perciò accessibili a chiunque sia in possesso della cultura media degli acculturati (quali quelle che può fornire la frequentazione di una scuola secondaria, più qualche lettura marxista); nonché a chiunque provi l’urgenza di capire e abbia la caparbietà necessaria per affrontare le piccole fatiche che comporta leggerle: chiunque abbia la voglia di farlo nonostante non si tratti di pagine volutamente e apertamente ludiche; essendo comunque consapevole che al termine della lettura, nonostante i numerosi distinguo, gli incisi e le sottigliezze teoriche (che Althusser non si risparmia e non ci risparmia) si finirà con il venirne comunque a capo. Il complotto verrà smascherato, l’assassino assicurato alla legge.
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Althusser “non parla mai invano”. Parla per capire, egli stesso capire per primo quel che va dicendo (le implicazioni teoriche e politiche); e per farsi capire: per armare ideologicamente il lettore. Parla perché è necessario parlare; perché nella specifica congiuntura in cui siamo, ed eravamo negli anni sessanta del secolo scorso, quel suo macinare concetti e demolire luoghi comuni (anche marxisti) era necessario; perché l’esigevano le specifiche persone fisiche denominate Althusser e quelle definite dalla parola “lettori”; sospinti tutti dal bisogno di uscire dalle gabbie ideologiche entro cui la tradizione, l’ideologia borghese trionfante, li avevano ingabbiati.
Di tale accessibilità rendo testimonianza. Io, uno che della propria incultura filosofica sin dai primi coinvolgimenti nella lotta di classe (fine anni sessanta) non ha mai smesso di dolersi. E che rinnova in questo scritto queste sue doglianze. Io, che con molta sofferenza e difficoltà ho dovuto prendere atto del peso negativo che tali limiti hanno avuto nella mia vita di militante; e prendere atto del peso esercitato dalla mia pigrizia personale sull’efficacia di tanti miei atti politici. Io, che con queste parole invito a non arrendersi, ad affrontare i terreni teorici esplorati da Althusser e dei tanti altri che da Althusser hanno appreso a ragionare e a ragionare diversamente…
Eppure, nonostante questi limiti, mettendo in atto quel poco di pazienza e di attenzione necessaria, lo stesso sono riuscito a comprendere le parole di Althusser, il suo filosofare asciutto, diretto, aperto e efficace (non ci sono infingimenti in Althusser, nessuna dissimulazione. Quel che deve dire non lo manda a dire. Prende posizione e costringe a prendere posizione). Un filosofare denso, dato su un crinale che da una parte trattava (maltrattava?) l’ideologia e l’ideologico; sull’altro apriva sentieri che indirizzavano verso la scienza.
A questo proposito introduco un inciso non tangenziale, perché probabilmente vuol significare qualcosa: decida ognuno cosa. Che anche Althusser, ed è paradossale, lamentava la propria “impreparazione” (precisiamo: si tratto di una ben diversa impreparazione; che in me si configurava quale relativa carenza sul piano della conoscenza; e in Althusser – interpreto – “assenza” di estensione e completezza, quale può concepire una mente “fina”, rigorosa ed esigente come la sua). Una nota, questa della propria impreparazione, che ho incontrato, non ricordo più dove (rammento lo stupore che provocò); ma che probabilmente non faceva altro che dare corpo ai dubbi – una mente pensante sempre dubita, corollario inevitabile e vitale che un pensiero fornisce sempre a se stesso per temperare la superbia insita in ogni intelletto – sulla propria capacità, nelle condizioni ideologiche/teoriche terribili di quegli anni (dominati dal contemporaneo predominio dello stalinismo e dell’economicismo, oltre che dalla reazione borghese) di poter assolvere al compito specifico, compito immane, di rileggere il marxismo e gettare contemporaneamente le basi per la rifondazione del marxismo.
Niente a che vedere tra le due incompetenze, nonostante una relativa superficiale somiglianza dettata dalla parola. Da una parte il lamento-riconoscimento della scarsa capacità di maneggiare tesi e linguaggio filosofico, non possedendo studi specifici in merito. Dall’altro la legittimità di pretendere per sé il controllo pieno della cultura filosofica dei suoi tempi per produrre, all’interno dei conflitti sociali, nuova teoria, la cui novità ed esattezza dipendeva però (altro paradosso) da tutt’altro: dipendeva dallo sviluppo e intensità di tali conflitti, condizione indispensabile per poter rendere possibile alla scienza (marxista) di evolvere per produrre effetti di ritorno specifici sui conflitti di classe medesimi.
Nelle letture di allora (fine anni ’70 del Novecento), ammetto di essere stato favorito – vantaggio che oggi, almeno in Italia, per ovvie ragioni, non può più essere di nessuno – dall’avere incontrato alcune delle tesi althusseriane nel corso dell’intensa attività politica quotidiana, attività in gran parte teoricamente cieca. Allora, durante la splendida congiuntura detta del Sessantotto (ma che si è prolungata fin quasi al termine degli anni settanta) optai spontaneamente, fra le tante in circolazione, per le idee in sintonia con quelle tesi. “Presi posizione in filosofia” senza saperlo, senza conoscere gli studi di Althusser (Leggere il Capitale, Per Marx, Filosofia e Filosofia spontanea degli scienziati, Lenin e la Filosofia ecc.); senza nemmeno il sentore di quelle inaudite pagine in cui, a posteriori, con una certa emozione, ritrovai esposte – con chiarezza e fondate motivazioni – la ragioni ultime che avevano guidato alcune aspetti della mia personale pratica politica. Si verificava in quel modo l’inverso di quel che avrebbe dovuto essere. La teoria come guida all’azione rovesciata in una pratica che forniva invece intelligibilità e validità alla teoria (ma non sono forse queste le ragioni che hanno permesso a migliaia di militanti, nell’Ottocento, di aderire con passione e ragione alle tesi di Marx? Quando si ritrovarono uniti da un pensiero sconvolgente e inimmaginabilmente chiarificatore delle lotte intraprese?).
Non è tuttavia solo questa la motivazione che mi ha indotto a cercare e leggere tutto ciò che di Althusser fosse a disposizione in italiano. Era (ed è) – nonostante i tradimenti inevitabili d’ogni traduzione – ciò che era nella pagina e il modo in cui la pagina veniva riempita. Era (ed è) lo specifico modo di scrivere di Althusser, del quale ho detto all’inizio e di ciò che aggiungo ora: lo stile, superbo, nel quale si esprime e nell’intelligenza che esprime.
Althusser cerca (e trova) la realtà dei concetti che presiedono la lotta di classe. “Nei suoi limiti” li porge in modo che possano essere fruibili da chiunque si proponga di acquisirli. Vi riesce perché il suo scopo è lo stesso del militante che nella diuturna faticosa attività politica-ideologica incontra le masse: dare luce agli spazi di oscurità prodotti dalla lotta di classe borghese. Quel che non possono fare ideologi, politici e teorici della borghesia costretti, per non svelarsi, a ricorrere a linguaggi approssimativi, ambigui o fuorvianti.
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Riassumo (e rilancio) mediante i seguenti tre punti:
uno: lo stile (appunto);
due: l’organizzazione espositiva;
tre: la tensione narrativa.
Per esplicitare questo “strano” terzo punto (e gli altri) azzardo la seguente ipotesi: che Althusser trattasse i suoi brevi saggi come altrettanti drammi intellettuali, piccoli saggi-racconti nei quali il protagonista è il rigore logico, la trama è data dalle argomentazioni all’interno della quale la si fa agire; e coprotagonisti le tesi, la tesi finale e la conclusione, quasi sempre un lieto fine. Un racconto nel quale si potrebbe (e forse dovrebbe) leggere l’esposizione con il medesimo spirito con il quale si affronta una buona narrazione; con l’ansia di vedere dove l’autore ci porterà, quale sarà l’esito imprevedibile, sorprendente o rappacificante che ci verrà svelato; cioè la nuova prospettiva, il nuovo modo di esaminare le cose del mondo.
Esagero? Forse…
Ma più volte mi è accaduto di seguire Althusser con la medesima ansia di scoprire dove mi avrebbe portato con la quale leggevo un buon romanzo d’investigazione o di fantascienza; l’ansia di riscoprire come tutti i suoi distinguo, incisi e precisazioni, avessero e abbiano un valore non esclusivamente intellettuale ma anche emotivo (oltre che di pratica politica); poiché mi conducevano al sollievo di una soluzione.
Dopo l’infittirsi del mistero dovuto al moltiplicarsi di obiezioni e inevitabili “linee di demarcazione”, scopriamo il sorprendente risultato di essere giunti proprio dove avevamo bisogno di arrivare (un bisogno immane di verità e di strumenti per gestire la realtà); e nel quale arriviamo dopo un apparentemente lento, faticoso e minuzioso procedere (apparentemente: si tratta solo dello stretto necessario).
Arriviamo a questo. A un successo “letterario” e logico nello stesso tempo…
Le basi di tale successo risiedono nella combinazione tra la “costruzione emotiva” e le modalità con la quale la si organizza, un dramma esso stesso. Un dramma in cui il narratore prende per mano chi legge e lo accompagna, attento che sia consapevole di ogni passo che gli viene fatto fare, lungo l’intero percorso, incluso le implicazioni.
Sembra che Althusser abbia sempre presente le obiezioni sia di chi sta leggendo che dell’eventuale critico ostile. Che si muova cauto per permettere alla mente di chi legge di muoversi con lui; nonché di far vedere all’occhio ostile che non ci sono riserve occulte; né trucchi, né inganno; che il risultato è l’effetto necessario di determinate premesse; che nessun ostacolo di linguaggio o deviazione di significati delle parole lo copre (abuso molto diffuso). Che se qualcosa resta non detto è perché, al momento, in quelle pagine, oltre non è possibile andare. Altre pagine aspettano di essere esaminate, per delineare la mappa completa dei significati.
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L’effetto di cui sopra è dunque effetto della combinazione tra rigore e rappresentazione minuziosa di tutti i passaggi (senza saltarne nessuno) quasi che si costruisse la vita di un personaggio, escludendo ciò che è superfluo, includendo ogni possibile coloritura per meglio intenderlo. Leggendolo noi scopriamo, come in un racconto “ben scritto” – cioè rispettoso del personaggio e delle necessità che lo guidano (a dispetto a volte dello stesso autore) – di essere arrivati dove non sospettavamo di andare e però, scoperta ancora più sconvolgente, di essere stati inconsapevolmente ansiosi di andare. Si potrebbe quasi affermare (se avessi migliore pratica della filosofia credo proprio che toglierei ogni riserva) che mentre pratica la filosofia, nello stesso tempo sale in cattedra (e lo fa) non per impartire lezioni ma per meglio attrarre l’attenzione dei suoi allievi – esponendosi – sul lavoro di demistificazione dei discorsi in circolazione che non smette mai di produrre. Uguale procedimento utilizza il narratore (deus-ex-machina: sempre deus-ex-machina) quando dall’interno della sua creazione costringe la persona/personaggio, per quel che gli è possibile, a svelare il contenuto segreto delle cose (nel romanzo di investigazione ma non solo). Il professor Althusser continua nella sua opera di docenza nel momento stesso nel quale “fa” scienza, nel momento in cui produce concetti (o, come mi ha fatto notare la professoressa Turchetto alcuni anni fa – cito a memoria – a proposito di Leggere il Capitale, delinea le condizioni teoriche per la produzione di concetti). E li produce al fine proprio della docenza. Docente di sé stesso, nel mentre lo è degli altri. Perché Althusser, da buon Maestro, cresce nella pagina insieme a coloro che vuol far crescere; opera da militante mentre parla ai militanti da militante; esprime le proprie ragioni e motivazioni da comunista, cioè da colui che è alla ricerca della verità per crescere nella verità e attraverso la verità diventare elemento dirigente dei processi insiti nelle lotte tra le classi.
Althusser, secondo questa ricostruzione, è (o sarebbe) dunque filosofo-docente-discente-militante nello stesso tempo. Nonché dirigente politico. Il modello di ciò che dovrebbe essere nel prossimo avvenire il militante comunista inteso nel suo aspetto più nobile e corretto. Attento alla proprietà del linguaggio e ai compiti specifici attinenti ognuna delle funzioni. Una attenzione che esprime l’essenza di ciò che deve essere un comunista (o meglio, un aspirante comunista: comunista lo sarà, se arriverà alla fine del processo): la necessità che il militante, anche se isolato dal “partito” sia messo in grado (si metta in grado) di esprimere la complessità della elaborazione collettiva, di portarla avanti da solo se necessario; comunque di organizzare la resistenza all’offensiva dell’avversario di classe. Da solo, privo dell’assistenza di un Segretario o di un Ufficio Politico. A parte la proprietà di linguaggio, la capacità di discorso, un partito è comunista quando si propone e realizza in prospettiva un partito in cui tutti sono effettivamente uguali, in quanto tutti (a parte le eccellenze che distinguono ognuno) in possesso degli elementi teorici e politici che rendono possibile il ruolo dirigente.
La “cornice” del rigore, l’inappuntabilità delle argomentazioni, a questo punto, non può essere vista che come l’effetto della quadruplice funzione esercitata, non la causa (o la sola causa). La causa era determinata dall’esigenza (mi ripeto) di districarsi nel labirinto di errori nel quale era finito per approdare il marxismo sovietico (invece di emendarsene, conquistato il potere, tale tendenza ne era stata definitivamente contaminata).
Come effetto è lo stile, necessitato dalla stringatezza determinata dal contingentamento dei tempi e delle cadenze della lotta di classe, incalzati dall’instancabile iniziativa del nemico; effetto è la chiarezza: tutti devono capire, un militante non si rivolge mai elusivamente al partito degli “esperti”; al contrario, si rivolge ai non esperti in termini tali da renderli “esperti”. Il prezzo pagato nel caso che questo proposito, necessariamente di lungo termine, non venga perseguito, è l’efficacia dell’azione collettiva nello scontro di classe. Un prezzo che include la permanenza o meno dell’intellettuale collettivo nell’area del marxismo rivoluzionario.
Ecco dunque il perché della relativa brevità dei suoi testi e della refrattarietà nei confronti del linguaggio ultraspecialistico: le prese di posizioni non sono determinate da esigenze intellettuali ma da quella di fornire risposte immediate ai problemi posti dalla lotta teorica che gli presenta la quotidianità; e se non la quotidianità la specifica congiuntura storica, non avendo altra scelta, se vuole essere Althusser (e lo vuole!); dire cose che gli altri non dicono o addirittura nascondono. Ecco allora la ragione per cui Althusser arriva a poter essere letto da tutti, anche da chi non legge filosofia, come confessa ad Althusser il suo medico curante; perché chiunque è in grado di apprezzare lo sguardo di chi vede oltre il velo di Maya e si affretta a condividere ciò che ha visto. Chiunque – e arriviamo al punto – è in grado di apprezzare un buon modulo narrativo, quando in un buon modulo narrativo si imbatte.
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Verrebbe da chiedersi, lette queste poche parole, il perché dell’assenza di opere di narrativa in Althusser. Perché un autore maestro nella costruzione della pagina non abbia, operando uno spostamento di campo, tentato di cimentarsi anche nella costruzione di qualche struttura narrativa. I discorsi sul’argomento teorico principale, l’ideologia e l’ideologico, avrebbero legittimato quel tentativo, e fornito anche qualche possibilità di successo.
In realtà questi tentativi di sconfinare nella narrativa Althusser li ha pure messi in campo, ignoro con quanta chiara coscienza di dove volesse andare a parare. Lo si deduce da alcune licenze che possono essere individuate, breve parentesi, nel corpo dei suoi scritti (oltre che dall’impianto formale del suo modo di esporre). Si tratta del balenare di momenti di perdizione, che lo collocano in un altrove la cui semplice formulazione offenderà o farà sorridere più d’uno.
Ne presento almeno tre (e concludo: mi spetta un po’ di compassione per me stesso). Tre esempi nei quali si può individuare la tentazione di avventurarsi su territori nuovi, ma affrontando l’impresa come per caso, inseguendo l’impulso del momento; o per meglio presentare una sua idea, una opinione (che poi, a ben guardare, è ciò che fanno ordinariamente gli scrittori: dar voce alle proprie idee, alle proprie visioni del mondo. Con la differenza sostanziale del plus-lavoro costretti a effettuare sulla forma; essendo la letteratura essenzialmente forma, oltre che stile). Tre soli esempi, purtroppo presenti in pagine troppo brevi per obbligare i commentatori a prenderli in considerazione.
Mi riferisco in particolare a un celebre passaggio della sua autobiografia nel quale descrive un momento erotico da giovinetto. Vero o inventato quel momento è narrativamente efficace. È ben condotto, drammaticamente valido. Oppure al ritratto mitico di De Gaulle che realizza utilizzando l’espediente di un incontro immaginario per la strada; un De Gaulle accresciuto, dotato di una nobiltà che solo un marxista vero può avere il coraggio di attribuire a un nemico di classe. Onore al valore dei nostri avversari. Innalziamoli per rendere più grande l’impresa di abbatterli. O, infine, la presentazione di un testo di Poulantzas utilizzando con felice disinvoltura il modulo di un racconto western.
Non mi azzardo a introdurre un quarto esempio. Troppo tragico sono gli avvenimenti che lo raccontano. Mi riferisco al caos e al suicidio esistenziale (non quello intellettuale, per fortuna) del 1980. Non entro nel merito. Cito soltanto.
Anche perché quanto detto, se non documenta, illustra convenientemente quel che desideravo mostrare.
Ancora qualche incertezza stilistica; ancora qualche parola giusta, ma non la più appropriata. Dei concetti poi, non parlo, spero ne parlino i lettori
In ogni caso non correggo: troppo facile tirare la pietra e nascondere la mano…
Un abbraccio a tutti. A tutti coloro, qualunque sia il credo politico, che si pongono a lato della giustizia, della democrazia (quella vera, non quella che proibisce chi dissente, che li coarta), della solidarietà e della libertà. Un abbraccio a coloro che si pongono a lato della com-passione, che si fanno sordi alle sragioni delle tigri di carta che frequentano i salotti televisivi e si indignano per la sfacciataggine di coloro che si dichiarano di sinistra e appoggiano un governo che più di destra, oggi, non può essere.