Luis Sepulveda: compagno, ecologista, scrittore

un testo di Doriana Goracci. E uno scritto di Sepulveda (per il quotidiano “il manifesto”) sulla strage dei tupamaros peruviani nell’ambasciata giapponese da parte della polizia di Fujimori nel 1997.

Luis Sepúlveda, delicato come un gatto, veloce come una gabbianella, volato via

di Doriana Goracci (*)

Zorba e Bubulina sono due micie,Diderot è un gatto, Fortunata e Kengah sono delle gabbianelle, Luis Sepulveda è riuscito a volare via per sempre come una di loro il 16 aprile del 2020, lui un umano scrittore, giornalista, sceneggiatore, poeta, regista e attivista. Un romanzo anche la sua vita,4 ottobre 1949, fin dalla nascita, d’amore…

“Nacque in una camera d’albergo mentre i suoi genitori fuggivano a seguito di una denuncia – sempre per motivi politici – contro suo padre fatta dal ricco nonno materno.

Gerardo Sepúlveda Tapia (conosciuto anche con il nome di battaglia “Ricardo Blanco”), nonno di Luis Sepúlveda, era un anarchico andaluso che fuggì in America del Sud per evitare una condanna a morte che pendeva su di lui”.

Molti giovani forse non sanno che “a seguito del colpo di Stato militare di Pinochet, Luis Sepúlveda, che si trovava nel palazzo presidenziale (dove morì Allende), venne arrestato e torturato. Passò sette mesi in una cella minuscola in cui era impossibile stare anche solo sdraiati o in piedi. Grazie alle forti pressioni di Amnesty International venne scarcerato e ricominciò a fare teatro ispirato alle sue convinzioni politiche. Questo gli costò un secondo arresto: data la notorietà del personaggio, la giunta militare, che in quegli anni fu responsabile del dramma dei desaparecidos cileni, lo processò ufficialmente ed egli ebbe una condanna all’ergastolo che poi, sempre su pressione di Amnesty International, fu commutata nella pena di otto anni d’esilio. In tutto passò due anni e mezzo in carcere….e dopo tante traversie …nel 1982 venne in contatto con l’organizzazione ecologista Greenpeace e lavorò fino al 1987 come membro di equipaggio su una delle loro navi; successivamente agì come coordinatore tra i vari settori dell’organizzazione”.

Sì, nel febbraio 2020 è stato contagiato dal COVID-19, dopo viene ricoverato al Central University Hospital of Asturias di Oviedo, da dove è volato via questo 16 aprile. Era stata trovata positiva anche la moglie, Carmen Yáñez, poetessa così amata che Sepulveda se la sposò due volte ma lei pian piano sembrava essersi rimessa meglio di lui.

Felice chi l’ha incontrato, conosciuto, letto, felici i gatti e le gabbianelle, il mondo animale e degli umani ribelli. Credo che è quanto di più bello noi potessimo ereditare.

CON QUESTO VIDEO (da Storie Ribelli): https://youtu.be/2HkSJgVcKHw

(*) foto, testo e link ripresi da agoravox.it

IL COMPAGNO EVARISTO E GLI ALTRI
di Luis Sepúlveda

Quando a Lima erano le 15,30 del 22 aprile, meno di un giorno fa, ero all’aeroporto di Monaco di Baviera e ha suonato il mio cellulare. Era Nestor Cerpa Cartolini, ovvero il comandante Evaristo, che mi chiamava. Qualcuno, un giornalista tedesco forse, gli aveva dato il mio numero e gli aveva fatto sapere che ero disponibile a fare parte di uno scudo umano per interposizione fra i sequestratori dell’Mrta, che da 126 giorni occupavano la residenza dell’ambasciatore giapponese a Lima, e la follia di Fujimori, un discendente di giapponesi che, per quanto ci costi riconoscerlo, rappresenta la peggior spazzatura giunta su un continente che ha sempre accolto bene gli emigranti.

I guerriglieri dell’Mrta, Movimiento revolucionario Tupac Amaru – i Tupamaros nel gergo militante – si sono lanciati all’occupazione della residenza diplomatica giapponese per ottenere la liberazione di quattrocento uomini e donne che morivano e muoiono lentamente nelle peggiori galere del continente.

È poco quello che la cosiddetta opinione pubblica internazionale sa del Perù. Sa, per esempio, che quel Paese andino fu sconvolto da un’ondata irrazionale di ,violenza pseudo-izquierdista guidata da Sendero luminoso, un gruppo politico che ha saputo manipolare con abilità il sentimento di frustrazione degli indios peruviani e li ha spinti a una pratica di eliminazione dei loro oppositori da far invidia ai Khmer Rossi di Pol Pot in Cambogia E molto meno si sa dell’Mrta che, erede dell’antica tradizione di lotta dei comuneros indigeni, ha tentato di umanizzare la guerra contro lo sfruttamento secolare dei popoli andini. L’Mrta è un movimento politico tipicamente latinoamericano che, a torto o a ragione, ha continuato il cammino cominciato da Guillermo Lobatón, Héctor Bejar o dal mio fratello, il giovane poeta Javier Heraud, tutti caduti nella lotta guerrigliera degli anni settanta.

Fin dalle sue prime azioni l’Mrta ha cercato di agire per poter negoziare con l’unico linguaggio che l’oligarchia peruviana rispetta, ossia da una posizione di forza.

Un indio peruviano non esiste come persona, è appena un numero, un elemento per le statistiche, ed è proprio in Paesi come il Perù dove la borghesia crea le condizioni violente per rispondere con violenza alla violenza dello Stato al servizio di pochi, molto pochi.

Durante i 126 giorni di occupazione della residenza dell’ambasciatore giapponese a Lima non è stato commesso alcun tipo di violenza contro gli ostaggi. È legittimo pensare che la privazione della libertà sia già una sufficiente violenza, però, attenzione, stiamo parlando del Perù, di un Paese governato da un megalomane che ha cercato di autolegittimarsi con un abile colpo di Stato e la benedizione del Fondo Monetario Internazionale. Gli ostaggi sono stati trattati con la cortesia stipulata nei trattati internazionali sui prigionieri di guerra. Qualcosa di molto diverso succedeva, succede e succederà nelle carceri di Fujimori.

I militari peruviani, responsabili delle peggiori violazioni del diritti umani, formati nella Escuela de las Américas dell’esercito degli Stati Uniti, non hanno vacillato nel torturare e assassinare i militanti di sinistra, e nel cercare di uccidere in vita, attraverso l’impazzimento, i sopravvissuti. Mesi, anni di isolamento assoluto, nell’oscurità, senza alcuna assistenza medica, e senza processo, è stata la formula usata da Fujimori per farla finita con qualsiasi tipo di dissidenza politica, armata o pacifica.

Il trionfo militare contro Sendero luminoso ha fatto di Fujimori un paladino della lotta contro la sovversione nel continente, e sconfiggere quella banda di cretini maoisti ha valso a Fujimori il beneplacito internazionale per fare tutto quel che gli passasse per la testa Tutti i mezzi sono buoni per proteggere gli investimenti del capitale internazionale in Perù, e in America Latina.

Il telefono ha suonato, e la voce agitata di Cerpa, Evaristo, diceva: «Mezz’ora fa si è ritirato l’ambasciatore del Canada, l’attacco contro l’ambasciata è cominciato. Moriremo tutti, fratello, e cadiamo per il Perù e l’America Latina».

Sono le due del mattino quando scrivo queste righe e sono preda di una tremenda rabbia, perché tutti gli sforzi andavano in direzione di un negoziato. Un mese fa ne parlai con l’ambasciatore dell’Uruguay in Perù, che era uno degli ostaggi liberati dall’Mrta, e lui mi assicurò che gli occupanti della residenza giapponese erano tutti molto giovani e molto colti, e che nessuno degli ostaggi aveva paura di loro. Adesso le agenzie parlano della morte di tutti quel compagni, che sbagliassero o no compagni, perché è bene che si sappia una maledetta volta per tutte che tutti quelli che si ribellano in America Latina, dai ragazzi combattenti del Chiapas fino ai detenuti politici del Frente Manuel Rodrígues in Cile, sono una sola grande famiglia che con orgoglio assoluto va avanti nella traccia lasciata dal Che, perché non ci è stato lasciato altro cammino, perché la pace non convive con lo sfruttamento, perché la dignità non la decide il Fondo Monetario Internazionale, perché le speranze del continente non le amministra la Banca Mondiale, perché la sete di giustizia sociale non si è saziata con la caduta del falso mondo socialista né con l’avvento del nuovo ordine internazionale.

Non so ancora quanti guerriglieri dell’Mrta siano morti, neanche conosco quanti ostaggi siano caduti e neanche a quanto ammontino le perdite dell’esercito peruviano. Tutto importa, perché si è scritta una nuova pagina della storia nera dello sfruttamento e della repressione della storia dell’America Latina.

Oggi i governanti del mondo si affretteranno a salutare l’energia e la decisione di Fujimori, ma i detenuti politici continueranno a morire secondo dopo secondo nelle galere peruviane. Appena un mese fa Fidel Castro aveva offerto asilo ai guerriglieri dell’Mrta ma loro risposero che non avevano preso d’assalto l’ambasciata per guadagnarsi una vacanza a Cuba, bensì per strappare alla morte 400 compagni, Questo si chiama dignità, valore, avere le palle in politica.

Per quanto non serva più a nulla, saluto quei compagni caduti, i miei compagni, che forse sbagliavano o forse no, ma che hanno dimostrato che il capitalismo non ha la minima chance di dormire sonni tranquilli.

Con ogni donna o uomo che muore per la giustizia sociale muore anche qualcosa della decenza umana. Però qualcosa resta, ed è proprio quel qualcosa che ci fa inghiottire la rabbia e ripetere a denti stretti: Vinceremo!

pubblicato il 24 aprile 1997 sul quotidiano “il manifesto”

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In “bottega”: Intervista a Luis Sepulveda

E ANCORA

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LA VIGNETTA è di Mauro Biani.

Redazione
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2 commenti

  • La sua vita è stata avventura, coraggio, lealtà. La leggerezza dei suoi romanzi è il dono più prezioso, viene prima delle parole, ed è sempre alla ricerca di un istante perfetto, quando tutto è disperato o impossibile, porta un filo di speranza. Il suo racconto più evocativo è quello che dà il titolo alla raccolta: “Le rose di Atacama”, esplicito nella metafora, richiama un momento della sua vita. A vent’anni si addormentò in un cimitero sperduto nel deserto che segna il confine tra la Bolivia e il Perù, invitato da un amico che annotava le meraviglie del mondo su un vecchio quaderno dalla copertina di cartone. Il suo amico si chiamava Fredy Taberna, morì pochi giorni dopo, giustiziato dalla polizia fascista. Le sue parole su quel quaderno restano a ricordare la meraviglia delle rose di marzo, che per poche ore trasformano il deserto in un giardino. Ogni 31 marzo trovano la forza di emergere dalla sabbia salata, per vivere poche ore, sostenute dalla nebbia del mattino e prima di essere bruciate dal fuoco di mezzogiorno. È questa la bellezza, effimera, di quelle teste rosse protese al cielo. Di un deserto che può trasformarsi in giardino. Come quella mattina, una nuova fioritura di speranza ha fatto appena in tempo a salutarti, ad accompagnarti nel tuo ultimo viaggio Louis, quello verso le stelle.

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