L’ultimo rigore di Faruk
Recensione al libro di Gigi Riva sulla dissoluzione sportiva e politica della Jugoslavia (Sellerio editore, 2016)
di David Lifodi
“Occupati di politica internazionale, il calcio è una cosa troppo seria”, disse Diego Armando Maradona a Gigi Riva, caporedattore del settimanale l’Espresso e narratore della dissoluzione sportiva, e politica, della Jugoslavia.
L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra, racconta infatti la carriera agonistica di Faruk Hadžibegić, capitano dell’ultima Nazionale jugoslava di calcio che, in occasione di Italia ’90, sfiorò l’ingresso tra le prime 4 squadre del mondo. A negare l’accesso alle semifinali, quel 30 giugno, a Firenze, fu l’Argentina di Maradona, ma soprattutto gli errori sottoporta, più quello dello stesso Faruk alla lotteria dei rigori, di una squadra genio e sregolatezza, al termine di una partita infinita il cui epilogo sarebbe potuto uscire dalle penne di Osvaldo Soriano o Eduardo Galeano.
Gigi Riva, in un libro a metà tra il romanzo e la cronaca politica dovuta alla sua conoscenza della polveriera balcanica – di cui ha seguito come inviato tutte le guerre degli anni Novanta – racconta le difficoltà della Jugoslavia a seguito della morte di Tito. I primi dissapori, la nascita dei clan in Nazionale e l’odio tra le curve che travalica la rivalità sugli spalti (gli ultras delle varie Dinamo Zagabria, Stella Rossa Belgrado, Partizan Belgrado e Hajduk Spalato passeranno dalle gradinate degli stadi ai fronti di guerre nelle truppe paramilitari) rappresenteranno solo l’anticipo dei nazionalismi che dilanieranno il paese. Non a caso, osserva Riva, allo stadio Maksimir di Zagabria, c’è una targa che ricorda: “Ai sostenitori della squadra che su questo terreno iniziarono la guerra contro la Serbia il 13 maggio 1990.
“La Jugoslavia era poco più di un’idea romantica in agonia”, ma l’allenatore Ivica Osim, un uomo burbero, ma con la capacità di guidare la squadra tra le innumerevoli tempeste degli odi etnici, può contare su un gruppo ristretto di fedelissimi, tra cui Faruk Hadžibegić, bosniaco di Sarajevo. C’è un interrogativo che ricorre, durante tutto il racconto: quale sarebbe stato il destino della Jugoslavia se il capitano non avesse visto il suo tiro dal dischetto respinto dal portiere argentino Goycochea? Forse il paese sarebbe rimasto unito, chissà? Lo stesso quesito che ci poniamo in Italia a proposito della conquista della maglia gialla di Gino Bartali al Tour de France che, secondo la vulgata popolare, avrebbe fermato l’insurrezione armata a seguito dell’attentato a Togliatti.
Attraverso un racconto che richiama alla mente tanti campioni dello sport degli anni Novanta, a partire dal portiere della Jugoslavia Tomislav Ivković (che per 2 volte negherà a Maradona la gioia del gol dagli undici metri, con la maglia dello Sporting Lisbona e con quella della sua Nazionale in occasione della sfida mondiale conclusasi ai quarti di finale), passando per Davor Jozić, transitato da Cesena, al sampdoriano Srecko Katanec, fino ai più famosi Boban e Savicevic, solo per citarne alcuni, si arriva allo scioglimento della Nazionale deciso da Faruk, che non si riconosce più in una squadra ormai allo sbando, come il paese, durante il girone di qualificazione per partecipare agli Europei del 1992. Di fronte ad una Federazione inesistente, al rifiuto delle altre nazionali di sfidarla a seguito del precipitare degli avvenimenti politici, la Jugoslavia, che pure si era qualificata con merito, finirà per essere esclusa. Al suo posto, la ripescata Danimarca vincerà incredibilmente quell’edizione degli Europei.
“Tutto è politica. Ogni club in Jugoslavia era politica, soprattutto la Nazionale era politica”, raccontò una volta il ct dell’ultima Jugoslavia, Ivica Osim, più conosciuto con il suo soprannome, “l’Orso”. Ammise: “C’erano pressioni. Dovevo stare attento al nome, alla religione, alla provenienza, dovevo calcolare tutto”. Quella Jugoslavia, come del resto la fortissima Nazionale del basket, finì per sparire stritolata dai rinascenti nazionalismi mai sopiti.
Faruk Hadžibegić fu l’ultimo ad ammainare la bandiera, anche lui impotente di fronte alla trasformazione del calcio nel prologo della guerra con altri mezzi. E allora, tornano alla memoria di Gigi Riva, profetiche, le parole di Maradona: “Occupati di politica internazionale, il calcio è una cosa troppo seria”.
Grazie, David, bella segnalazione. Spero prima o poi di poter leggere questo libro. Lo si potrebbe accompagnare a “La Jugoslavia, il basket e un telecronista. Storia della pallacanestro jugoslava” (2010) raccontata dalla storica voce di Telecapodistria, Sergio Tavčar. Anche quello è un libro che non ho letto ma vorrei leggere!
Una piccola diversione dal tema Yugo sport, mi era sfuggito che il portiere dell’Argentina nel 1990 portava lo stesso cognome (diversa trascrizione) del ‘macellaio di Bilbao’ che nel 1983 stava per mettere fine alla carriera di Maradona.
Ha ragione Maradona. Che siano tensioni politiche (ex jugoslavia), malavita (Colombia) o business da turbacapitalismo (sport professionistico contemporaneo), lo sport ed il calcio in particolare, ha assunto una dimensione sociale pervasiva. Per me è pure un problema Amadori che sponsorizza una squadretta di basket di serie B (tanto per collegare un altro argomento in bottega).
Ho letto il libro alcuni anni fa sulle spiagge della Maddalena e l’ho trovato veramente interessante. Lettura che mi sento di consigliare.
Infine, anche a me piacerebbe sapere qualcosa di più sul libro “La Jugoslavia, il basket e un telecronista. Storia della pallacanestro jugoslava” .