L’Ungheria è vicina

di Livio Pepino (*)

In una delle ultime battute di questa stanca campagna elettorale, la presidente del Consiglio ha lanciato una delle sue surreali sfide. «Giacca celeste e sguardo in camera – informa una nota dell’Ansa – la premier, dopo un punto sulle questioni centrali della settimana politica […], recapita una domanda diretta a Schlein. “La segretaria del Pd – scandisce – ha detto che starei cancellando la libertà delle persone, accusa singolare per chi ha votato provvedimenti per chiudere la gente in casa nella pandemia, ma chiedo a Schlein quali sono le libertà cancellate da questo Governo. […]. Ci dica qualcosa di concreto perché la libertà è stata sempre limitata solo dalla sinistra e il punto è che i cittadini lo hanno capito”».

Non saremo certo noi a difendere una sinistra che, negli anni scorsi, ha troppo spesso conteso alla destra la primazia nei “pacchetti sicurezza” che hanno devastato il tessuto normativo e istituzionale, ma la domanda di Giorgia Meloni detta Giorgia è, in realtà, una sfida rivolta al Paese e, dunque, richiede una risposta, al di là delle stucchevoli polemiche e rivendicazioni di partito.
Limitiamoci alla questione della libertà personale in senso stretto, che è quella che sembra evocare Meloni.

Lo abbiamo detto e scritto più volte in questi mesi.
L’idea stessa di ordine pubblico viene ormai abitualmente associata, anziché a un sistema di pacifica convivenza tra i cittadini, a un territorio militarizzato, a schieramenti di polizia in assetto antisommossa, a manganelli e gas lacrimogeni, ad arresti e processi con rito direttissimo.
L’elenco delle misure che hanno prodotto questa situazione nei quasi due anni di governo della destra è impressionante. Gli interventi amministrativi e di polizia, poi, hanno assunto nelle ultime settimane una violenza e un carattere provocatorio inauditi. All’uso dei manganelli in ogni manifestazione, anche di ragazzini, si sono infatti affiancate prassi da vero e proprio Stato di polizia: il trattenimento arbitrario di dimostranti in questura, accompagnato da soprusi e violenze, l’analogo trattenimento in commissariati di giornalisti e fotoreporter per impedire di documentare manifestazioni, la provocatoria notifica a un giornalista, nel cuore della notte e in albergo, della pendenza a suo carico di un procedimento per diffamazione.
E ciò in un quadro in cui
si moltiplicano i fogli di via nei confronti di attivisti ed esponenti di movimenti e procede senza sosta la produzione di nuove fattispecie di reato, in ogni interstizio della vita sociale, al punto che diventa difficile anche tenerne il conto. Una delle ultime espressioni di questa foga repressiva è stata l’approvazione della legge suoi cosiddetti eco-vandali, che inasprisce le pene, già abnormi, per la protesta ambientale e fa seguito al ripristino del blocco stradale e all’aggravamento delle sanzioni per i reati commessi nel corso di manifestazioni.

Sembrava si fosse così raggiunto il colmo, ma era un’illusione. Il 22 gennaio il Governo, dopo averlo preannunciato con squilli di tromba, ha presentato l’ennesimo disegno di legge in materia di sicurezza: un campionario di disposizioni tese a criminalizzare la marginalità, a reprimere il dissenso e il conflitto sociale, a blindare il carcere e ad aumentare i poteri delle polizie.
Tra le perle di questo progetto spiccano l’aumento della pena (da 2 a 7 anni di reclusione) per chi, mediante violenza o minaccia, occupa o detiene un immobile destinato a domicilio altrui o vi impedisce il rientro del proprietario (dove per violenza si intende anche la semplice rottura di una serratura o di un vetro) e l’estensione della punibilità anche a chi «si intromette o coopera» nell’occupazione; la previsione come illecito amministrativo del blocco ferroviario e la sua trasformazione in reato, con pena da 6 mesi a 2 anni, «quando il fatto è commesso da più persone riunite» (cioè sempre, considerato che un blocco stradale o ferroviario realizzato da una sola persona è una semplice ipotesi di scuola…); l’ulteriore aumento di un terzo della pena per la resistenza e violenza a pubblico ufficiale se commesse in danno di ufficiali o agenti di pubblica sicurezza (e dunque, prevalentemente, nel corso di manifestazioni); l’introduzione del delitto di rivolta in istituto penitenziario, con pene da 2 a 8 anni per gli organizzatori e da 1 a 5 anni per chi vi partecipa, accompagnato dalla precisazione che la “rivolta” si può realizzare «mediante atti […] di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi da tre o più persone riunite»), e di una specifica fattispecie delittuosa per chi istiga alla rivolta in carcere, anche dall’esterno, con scritte e messaggi diretti ai detenuti; l’estensione della scriminante dell’uso legittimo delle armi e l’autorizzazione, per gli appartenenti alle forze di polizia, a portare, senza licenza, un’arma diversa da quella di ordinanza quando non sono in servizio (così consentendo l’immissione in circolazione, potenzialmente, di circa 400.000 pistole in più delle attuali).
«Un progetto – ha commentato Amnesty Internationalche avrebbe gravi ripercussioni sui diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione italiana, dal Diritto dell’Unione europea e internazionale».
Ebbene, non solo l’esame del disegno di legge procede speditamente in Commissione ma c’è chi propone ulteriori inasprimenti repressivi, come il deputato leghista Igor Iezzi a cui si deve un emendamento che prevede l’ipotesi aggravata di resistenza e violenza a pubblico ufficiale commessa «per impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica», sanzionata con una pena fino a 25 anni di reclusione (sic!).

Poco meno di un anno fa scrivevamo, in queste pagine, che «si sta operando un ulteriore salto di qualità attraverso la saldatura tra il passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale, l’attacco ai diritti civili e l’irrigidimento autoritario del sistema politico, secondo il modello praticato, in Europa, da Polonia e Ungheria». E proseguivamo affermando: «Non viviamo in uno Stato di polizia, ma siamo immersi in uno Stato diseguale e repressivo che si dilata a dismisura». Il tempo è passato e oggi l’Ungheria è più vicina.
E non è un caso che la presidente del Consiglio, impegnata nella festosa accoglienza di un imprenditore rientrato in Italia per scontare una condanna all’ergastolo per un omicidio, si disinteressi della situazione di una giovane italiana in custodia cautelare da oltre un anno, appunto, in Ungheria per un’aggressione tutta da dimostrare intervenuta a margine di una manifestazione.

È purtroppo agevole individuare, rispondendo alla provocazione della presidente del Consiglio, «quali sono le libertà cancellate da questo Governo» e quelle di prossima cancellazione. Dovrebbe essere finalmente chiaro anche a quelli che “ma non che non sono fascisti…”. Stupisce – e indigna – la mancanza di reazioni all’altezza della sfida da parte dell’opposizione.

(*) Tratto da Volere la luna.
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alexik

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