Mal di mare
un racconto di Giovanni Gusai
Sul retro, il cancello basso resta sempre aperto. Il chiavistello non ha lucchetto. Così lui lo fa scorrere e torna a casa. Il cane non abbaia, non ringhia, non dubita. Gli si affianca docile. Strofina la testa sulla coscia di lui. Una mano gli scompiglia il pelo nero. In quel reciproco riconoscersi sgorgano le prime lacrime. Si è imbarcato trentasette giorni fa. Mai avrebbe pensato di poter diventare bandito, come suo bisnonno un secolo fa. Ma lui è bandito d’acqua, senza foreste in cui bivaccare né cespugli come ripostigli. Solo mare aperto, senza ombra, senza rifugi. Il giardino è muto, affacciato sul mare e pregno d’umido e sale. Come le ossa di lui, le mani, la pelle bruciata, gli zigomi scavati dalle lacrime. Tutto è scuro, a parte le apparizioni fugaci della luna oltre le nuvole. Zoppica fino alla veranda. Buio lo segue.
Lei dorme sul lato opposto della villetta. Tiene il cellulare sul comodino, le finestre aperte e le zanzariere abbassate, la luce del corridoio accesa. Sogna agitata. Spalanca gli occhi quando sente Buio grattare sulla porta. Quella sulla veranda, sul giardino, verso il mare. Nessuno passa da lì. Solo lui sa del cancello basso. Perciò trasecola, scatta in piedi confondendo le immagini del sogno con le forme della camera, incespica dentro le ciabatte e cauta, lieve, scivola fino all’ingresso. Dalla finestra si insinua la brezza leggera e salmastra dei posti di mare. Lei trema e si stringe nelle spalle, dà un’occhiata alla stanza della bambina e posa l’orecchio sulla porta.
– Buio. – Sussurra piano. – Dimmi che sei con lui.
La bestia drizza le orecchie, fissa perplesso lo sguardo liquido del padrone, disfatto di pianto, e raspa sul legno esterno.
Allora lei si porta una mano alla bocca per soffocare il grido, ora è sveglia davvero, e viva. Armeggia con la serratura, e quando apre lui dà un’ultima carezza a Buio e la casa lo inghiotte. Lei richiude, gli si butta al collo e strizza le palpebre come se facendole cedere la felicità potesse scappare via. Nell’abbraccio lui ha l’odore del sangue rappreso, del vomito, della salsedine e della benzina. Puzza come chi è scampato all’inferno, e non riesce a ricambiare la stretta. Anzi geme e tossisce per il dolore delle braccia ossute di lei sulle costole livide. Ma non dice niente. Non la spaventa, non la inganna, non la ignora. Si crogiola nel dolore della stretta, che è così vero e così intero da cancellare il male del mese appena trascorso. Lei trattiene i conati, sopporta l’umidità fredda della cerata sul suo corpo tiepido, resiste sulla punta dei piedi appesa al suo uomo, che è un eroe e un folle. Quando alla fine si separano, nella penombra della cucina illuminata solo dalla luce gialla dell’andito, lei si scosta di un passo e si trova di fronte il volto di lui. Il ricordo che ne aveva è stuprato dai lividi, dalle percosse, dai denti spezzati, dalle ecchimosi, dalle labbra spaccate. La forza agile è sfumata in una postura storta, incurvata dalle botte e dalla fatica della fuga.
– Amore. – Dice, senza forza. – Cosa ti hanno fatto?
Lui la accarezza e la consola. – Sono a casa. Vieni. – La prende per mano. – Dorme? – Fa un cenno.
Lei lo segue e sa, guardandolo, che non riacquisterà mai la postura della quale si era innamorata.
La bambina sta supina, le braccia morbide verso l’alto, con le mani chiuse a pugno.
– È grande.
Lei fa sì con la testa.
– Chiede sempre di me?
– Sempre.
– Andiamo. Non voglio svegliarla.
Dopo la doccia, sdraiato accanto a lei, comincia a raccontare. Senza guardarsi. Soltanto, lui la prende per mano e più va avanti più la stretta cede.
– È andato tutto bene fino al ventinovesimo giorno. Siamo riusciti a fare tre recuperi, andata e ritorno con la barca. Senegal, Nigeria, Gambia. Sono stato fortunato a finire con quell’equipaggio: navigatore e cuoco eccellenti, due marinai, un medico e io. Abbiamo superato il carico più di una volta. Ma la regola è quella: più possibile, più in fretta possibile. La Compagnia ha organizzato una rete infallibile di contatti sulla costa. Ormai ci sono porti sicuri ovunque, in cale e spiagge insospettabili. Una volta curati e sfamati basta lasciarli in mani fidate, e sono liberi. Non voglio raccontarti cosa ho visto. Non si può immaginare. Avevamo paura di dormire per non fare gli incubi.
– Cosa vuoi raccontarmi?
– Il trentesimo giorno siamo dovuti scappare. Qualcuno ha tradito. La Compagnia paga bene ma le guardie pure meglio, e hanno la legge dalla loro. Ci attendevano in un porticciolo che credevamo sicuro, e lì malmenati e umiliati. Solo io e il cuoco siamo riusciti a fuggire. Ma erano altre guardie, e altro mare, sul lato opposto dell’isola. Possiamo stare tranquilli, non verranno a cercarci e da qui a poco le cose cambieranno. La Compagnia resiste alla grande. Rovescerà le cose.
– E tu li aiuterai ancora?
Il soffitto non ha risposte. Allora lui chiude gli occhi, e vede il corpicino bianco di sua figlia fra le cataste di corpi neri, in mezzo a una burrasca. Grida e sveglia tutti di soprassalto.