Mario Draghi è la Troika
articoli di Lidia Undiemi, Andrea Zhok, Ascanio Bernardeschi, Mario Barbati, Sergio Cesaratto, Marco Bersani, Yanis Varoufakis (ripresi da antidiplomatico.it, micromega.net, ilsussudiario.net, lacittafutura.it, attac-italia.org)
Il P.U.N. e il suo Duca – Andrea Zhok
Per chi non avesse ancora capito la situazione, Mario Draghi è la Troika, entrata da noi su gentile invito, che ora sta governando con un supporto plebiscitario di partiti che costituiscono a tutti gli effetti un Partito Unico Neoliberale.
E’ importante capire che questa NON è un’iperbole.
L’agenda che unifica il 100% dei partiti in parlamento (nella misura in cui hanno un’agenda, molti sono là semplicemente perché aspettano il 27 del mese) è legata ad un’idea di Stato il cui unico compito è di ottimizzare le funzionalità di mercato e di introdurre meccanismi di mercato dove ancora non ci sono (e questa è la definizione di stato neoliberale).
Secondo la classica definizione di David Harvey:
il Neoliberalismo è “una teoria delle pratiche economico-politiche che propone che il benessere umano sia promosso al meglio liberando iniziative e capacità imprenditoriali individuali, entro una cornice istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà privata, liberi mercati, e libero commercio.
Il ruolo dello Stato è di creare e preservare una cornice istituzionale appropriata a tali pratiche. Lo Stato deve garantire, ad esempio, la qualità e integrità della moneta. Deve anche disporre quelle strutture e funzioni di natura militare, difensiva, poliziesca e legale richieste per assicurare i diritti di proprietà privata e per garantire, con la forza se necessario, il funzionamento adeguato dei mercati. Inoltre, se mercati non esistono (in aree come la terra, l’acqua, l’educazione, la sanità, la sicurezza sociale o l’inquinamento ambientale) allora essi devono essere creati, con l’azione dello Stato se necessario.”
In questa visione il funzionamento dei mercati è il Bene.
Il resto della società, dell’ambiente, dell’umanità, del mondo sono strumenti secondari da adattare al perseguimento del Bene.
Lo Stato può intervenire, anche duramente, ma solo come funzione ausiliaria per manipolare gli strumenti utili al perseguimento del Bene.
Il PNRR è una grande manovra di condizionalità, simile a quelle che hanno operato per decenni nel Terzo Mondo, manovrate allora dal Fondo Monetario Internazionale o dalla Banca Mondiale (ora dall’UE): soldi, prevalentemente nella forma di prestiti a interessi bassi, in cambio di riforme che facilitino l’esercizio della sovranità da parte dei mercati.
Con assoluta regolarità questo tipo di riforme conduce ad un ulteriore allargamento della forbice sociale tra abbienti e non abbienti (che coincide in sempre maggior misura con la differenza tra la minoranza di chi vive di capitali fruttiferi e la maggioranza di chi vive del proprio lavoro).
Tutto ciò in Italia viene portato a termine con il sostegno totale di tutti i poteri che contano (Confindustria, Media, Parlamento), da un capo del governo che non risponde a nessuno (non almeno in Italia), e che reagisce tra lo stizzito e l’annoiato a qualunque atteggiamento che non sia un solerte battere i tacchi.
Gli stessi partiti, nella misura in cui avessero qualche dubbio, sono ricondotti all’ordine dalla minaccia delle dimissioni del Salvatore (con tacita minaccia di un riacutizzarsi dello spread) e con il timore di venire distrutti mediaticamente se dovessero ostacolare il lavoro dell’Unto del Signore.
Qui sotto, per chi si stupisce dell’attuale discussione sulle pensioni, le raccomandazioni del PNRR.
E a chi parla di “dittatura” rammento che non è esatto: le dittature storicamente note, magari all’estero, un’opposizione ce l’avevano.
Il compitino tecnocratico di Draghi – Mario Barbati
Il governo Draghi vara la sua prima legge di bilancio, rompe l’incantesimo con le parti sociali sul tema delle pensioni, alla vigilia del più grande piano d’investimenti pubblici dal dopoguerra. Ma se guardiamo alla sua visione generale della ripresa post-pandemica, non si vedono i segni di un cambiamento sociale, economico e quindi politico.
Aumentano il Pil come paradossalmente povertà e lavoro precario. Degli oltre 830mila nuovi posti di lavoro creati nell’ultimo anno il 90% sono a termine, solo l’1% dura più di un anno. Tolto il salario minimo legale dal Pnrr, smantellato il ‘decreto dignità’ che limitava i contratti a termine, vengono messi in discussione i redditi di sostegno e le pensioni ma si omette un contrasto ai 203 miliardi di economia sommersa, che sarebbero decisivi se davvero si volesse attuare una redistribuzione della ricchezza. Rinviata ancora la plastic tax, in omaggio alla transizione ecologica.
Legge di bilancio – Una manovra da 30 miliardi che Draghi definisce “espansiva”. Si alleggerisce la pressione fiscale con 12 miliardi, di cui 8 per il taglio delle tasse su società e persone, senza ripartizioni però che “saranno definite insieme al Parlamento nelle prossime settimane” (dove però la maggioranza di centrodestra più Italia viva sono sensibili alle sirene confindustriali). Rinviata la riforma delle pensioni, quota 102 è solo un compromesso che non risolve una questione che dura da anni e alimenta una narrazione, peraltro falsa, che il lavoro per i giovani si crei innalzando l’età di pensionamento, mettendo lavoratori di diverse generazioni contro.
La riforma degli ammortizzatori sociali affronta la questione dell’universalismo e a suo modo è un intervento storico. Prevede misure protettive nel mondo del lavoro per tutti: cassa integrazione per i datori di lavoro con più di 15 dipendenti, Naspi allargata ai lavoratori discontinui, ammortizzatori e disoccupazione per autonomi e cococo. Poca però la dote per partire: solo 4,5 miliardi (il ministro Orlando ne aveva chiesti 8).
Dopo inutili polemiche e vesti stracciate, viene rifinanziato il reddito di cittadinanza (a proposito, dov’è finita la raccolta firme di Renzi per abolirlo?), con controlli più stringenti e con il rilancio dell’attuazione delle politiche attive, che sono sempre state quasi inesistenti in Italia già da prima del Rdc. Solo che anziché potenziare e in alcuni casi “rifondare” i centri per l’impiego pubblici, si finanziano anche le agenzie di collocamento private. Prorogato il cosiddetto superbonus per la riconversione edilizia. Viene cassato invece il cashback, in un paese che nella “non-lotta” all’evasione ha un suo tradizionale punto di forza. Rimandate a chissà quando sugar e plastic tax.
Il Pil sale, i salari scendono – Il premier Draghi nella conferenza sulla manovra ha dichiarato: “dal problema del debito pubblico alle prestazioni sociali inadeguate, alle altre giuste modifiche che non abbiamo potuto fare, si esce solo attraverso la crescita”. Già, ma quale crescita? Sempre Draghi: “Sempre maggiore attenzione si pone sulla qualità, sull’inclusività, sulla sostenibilità, sull’equità della crescita. È una novità dell’epoca che stiamo vivendo”. Ammettendo senza volerlo che prima non erano una priorità, negli anni dell’austerity in cui era a capo della Bce.
Ma ha senso un sistema in cui aumentano il Pil (oltre il 6% quest’anno, come dichiarato dal premier) e al tempo stesso la povertà, ormai anche tra molti lavoratori? E per quanto tempo può reggere, dopo quasi due anni di pandemia? Superare l’austerità se non si leniscono le profonde disuguaglianze degli ultimi decenni, che anzi sono accresciute con la pandemia, se non si affrontano la questione salariale e la precarietà, non ha senso. “Il Pil non è una buona misura dell’economia” ha dichiarato recentemente il Nobel per la fisica Giorgio Parisi, “perché cattura la quantità ma non la qualità della crescita e perché ci sono indici diversi, come l’indice di sviluppo umano e l’indice di benessere economico sostenibile, mai presi in considerazione”.
In Italia più di 5 milioni di lavoratori dipendenti hanno un reddito inferiore ai 10mila euro annui, determinando il fenomeno, non solo italiano, della povertà che si diffonde tra chi lavora. Rappresentazione plastica di un modello sociale da ribaltare.
Una delle poche ma significative modifiche del Pnrr targato Draghi (nella versione Conte-Gualtieri c’era) è stata l’eliminazione dell’introduzione del salario orario minimo. Cioè di una legge che fissi un minimo sotto il quale il datore di lavoro non può scendere. La misura è in vigore in 21 Stati dell’Unione europea su 27 (comprese Germania, Francia, Spagna) e sarebbe indispensabile in un paese in cui non solo esistono una miriade di contratti collettivi nazionali diversi (900) ma anche milioni di lavoratori fuori dalla contrattazione collettiva, sfruttati con stipendi da fame e zero diritti. In Italia, ma non solo in Italia, il neoliberismo si è tradotto con offerte di lavoro, richiesta di manodopera, delle risorse intellettuali al massimo ribasso: trasformando il lavoro in una merce, anche abbastanza scadente. Ma il Belpaese non poteva che distinguersi tra gli altri. L’Italia è l’unico stato in Europa – dati Ocse alla mano – in cui dal 1990 ad oggi gli stipendi sono diminuiti invece che aumentare. E se negli ultimi trent’anni la ricchezza è invece aumentata, se ne deduce facilmente che sia finita in pochissime mani. Con l’aumento del costo delle materie prime dopo i blocchi pandemici e quindi di carburante, energia, gas, quella dei salari dovrebbe essere la priorità di un paese che si vuole rilanciare. In Germania, l’Spd di Scholz ha vinto le elezioni con la proposta di alzare il salario minino a 12 euro all’ora. La nostra Costituzione prevede che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (articolo 36). È la Costituzione che andrebbe applicata, ribaltando il concetto della crescita slegata dal benessere e dal lavoro delle persone, cominciando dal salario minimo orario, lasciando la contrattazione collettiva ma fissando una soglia di dignità per tutti. Oggi 3,5 milioni di dipendenti privati, 600mila lavoratori domestici, 370mila operai agricoli non raggiungono i 9 euro lordi all’ora.
Una vita a termine. Dall’inizio del 2021 sono stati creati oltre 830mila posti di lavoro, in aumento rispetto agli anni precedenti. Quasi il 90% di questi nuovi lavori creati è stato attivato con un contratto a termine. Modeste e inferiori al 2020 le posizioni a tempo indeterminato. Da luglio, l’eliminazione del vincolo ha prodotto 10mila licenziamenti. Sono dati firmati Ministero del lavoro e Banca d’Italia. In che modo questi dati sono coerenti con queste dichiarazioni? “Draghi ai giovani: il mio impegno è seguire le vostre ambizioni, dopo anni in cui l’Italia si è dimenticata di voi” (ansa, 26 ottobre); “Draghi: rimuovere ostacoli al talento femminile, nostro dovere abbattere pregiudizi” (ansa, 26 ottobre); “Draghi: la sfida per il governo è fare in modo che questa ripresa sia duratura e sostenibile” (ansa, 23 settembre).
La retorica del “niente sarà più come prima”, del “ne usciremo tutti migliori” che ci ha allegramente accompagnato durante la pandemia, deve ora fare i conti con una realtà dura a morire perché frutto di politiche durate decenni. Comprese quelle degli ultimi tempi in parlamento. Il “decreto dignità” che provava (peraltro in maniera inefficace) a limitare i contratti a termine è stato scardinato da un emendamento del Pd (votato da tutti, compresi i 5 stelle) che consente di prorogare i contratti a termine senza indicare causali.
Ricchi & poveri – La pandemia, che ha squadernato un paese in cui pochi hanno tanto e molti hanno poco, rischia di finire esattamente come era iniziata. Senza un cambio di direzione verso una giustizia distributiva e sociale. Bizzarro è il paese in cui s’istituisce un comitato tecnico scientifico per la valutazione del reddito di cittadinanza, cioè del supporto alla fascia povera della popolazione che pure va migliorato, ma da decenni distoglie lo sguardo dall’evasione fiscale, dall’economia in nero, dalle ricchezze sommerse il cui recupero sarebbe l’unica speranza per l’inizio di una redistribuzione. L’ultimo rapporto Istat rivela che l’economia sommersa nel 2019 vale 203 miliardi di euro, pari all’11,3% del Pil. Poco più di 183 miliardi di euro riguardano la componente dell’economia sommersa, mentre quella delle attività illegali supera i 19 miliardi. Non è tutto. Solo il 3,6% dei comuni (279 su 7.656) ha partecipato con la propria attività al contrasto all’evasione fiscale nel 2020. Roma recupera solo 82mila euro.
L’articolo 53 della Costituzione sostiene che l’imposta che i cittadini sono tenuti a versare è proporzionale all’aumentare della loro possibilità economica. In altre parole, l’imposta cresce con il crescere del reddito. Il criterio di progressività ha la sua ragione nel soccorrere e sostenere le classi sociali in difficoltà, garantendo i diritti e i servizi sociali fondamentali quali la pubblica istruzione, l’assistenza sanitaria, la previdenza sociale e l’indennità di disoccupazione, criteri sui quali si basa lo Stato sociale italiano.
Recovery fan – Del resto l’applicazione della Costituzione dovrebbe essere la stella polare per le riforme e gli investimenti del Recovery plan. Invece il Pnrr, 230 miliardi di euro di risorse insperate senza la drammatica vicenda dell’epidemia, rischia di andare a favore dell’alta economia e di cambiare poco o niente nella vita comune di cittadini, studenti, lavoratori e imprese. Già prima della pandemia globale, l’Italia era contrassegnata da forti disuguaglianze, gap e divari generazionali, di genere, territoriali e sociali. Anni di vincoli e austerità hanno frenato le transizioni digitali e verdi di cui c’era già necessità. Ora il Recovery, che è il più grande piano d’investimenti pubblici della storia repubblicana, rischia di vedere il mercato e non la politica come principale regolatore dell’economia.
Non solo. Concretamente il Piano rischia di essere una sommatoria di progetti, al momento senza un coordinamento visibile, con misure eterogenee che mancano di un progetto-Paese in grado di creare un modello di sviluppo sostenibile non a favore di alta finanza e poche grandi imprese – come avvenuto negli ultimi 30 anni – ma a vantaggio della vita delle persone in armonia con l’ambiente. Se gli obiettivi del piano sono concreti e misurabili nell’esposizione dei progetti, manca un riscontro sulla ricaduta nella creazione di lavoro, nella rigenerazione urbana, nella riconversione ambientale. I monitoraggi vengono intesi più come passaggi tecnici o contabili senza una rendicontazione sociale delle scelte. Il portale che il governo ha dedicato al Recovery Plan (Italia Domani) prevede la condivisione sugli esiti dei singoli progetti ma senza informazioni su ogni fase del processo attuativo, come tra l’altro chiesto dall’Europa.
Sul piatto della transizione ecologica ci sono 70 miliardi, ma nei documenti inviati a Bruxelles mancano impegni chiari sulla sostituzione graduale del carbone e del gas naturale, nel Pnrr italiano inoltre non vi è alcun riferimento all’Agenda 2030. La mobilità sostenibile (31 miliardi in nuove infrastrutture) privilegia i treni Av anziché il trasporto locale, regionale e cittadino. C’è il rischio di aumentare e non diminuire il divario tra nord e sud, tra aree ricche e povere e questo perché ci saranno enti locali in grado di sfruttare i bandi e altri incapaci di farlo. La quarta missione, che riguarda “Istruzione e ricerca”, stanzia complessivamente 33 miliardi, di cui quasi 12 per la ricerca. Sparisce il piano Amaldi, che proponeva un aumento dei fondi per la ricerca pubblica nella misura di 15 miliardi in 5 anni, per far sì che l’Italia passasse dallo 0.5% del Pil in ricerca pubblica allo 0.7% francese. Ottimo, almeno sulla carta, il piano per l’edilizia scolastica e gli asili nido.
Resta il tema del ddl Concorrenza, che dal Pnrr era previsto entro luglio: dirimere il legame tra Comuni e società pubbliche, ci si chiede se la soluzione sia aprire ai mercati – in tutti i settori, senza fare distinzioni – in nome dell’ideologia neoliberista superata dai fatti e dalla storia. Nel Piano si legge di “specifiche norme finalizzate a imporre all’amministrazione una motivazione anticipata e rafforzata che dia conto del mancato ricorso al mercato”. Soluzione che in alcuni casi potrebbe essere utile per spezzare le rendite, i monopoli troppo garantiti, i legami clientelari con la politica; in altri potrebbe essere deleteria, perché in passato le “liberalizzazioni” hanno riguardato servizi di interesse generale, come i monopoli naturali attraverso concessioni esclusive ai privati. Come il caso Autostrade: 11 miliardi di utili per Benetton & soci, continui aumenti delle tariffe, risparmi e negligenza assassina sugli investimenti in sicurezza. La storia recente dimostra che le public utilities (il trasporto pubblico, i servizi idrici, le reti ad alta velocità) non dovrebbero più dipendere dal dominio di logiche di profitto, perché sono servizi di interesse generale. Il principio della concorrenza andrebbe applicato laddove produce benefici, come nel caso delle concessioni balneari.
Non si capisce poi come il Pnrr possa, attraverso le riforme previste e richieste dall’Ue, contrastare la precarietà. Istruzione, sanità, welfare universale rischiano ancora una volta di essere sacrificate sull’altare delle grandi opere e degli affari per pochi, in contraddizione con lo spirito costituzionale.
Il governo Draghi, voluto per la salvezza del paese, con questa prima manovra di bilancio fa il suo compitino tecnocratico, comincerà ad attuare i progetti del Recovery, ma la visione di un mondo post-pandemico non c’è.
Il PNRR è l’attacco finale al lavoro: faremo la fine della Grecia – Lidia Undiemi
Il potere lo sa, certi obiettivi estremamente impopolari è meglio celarli dietro frasi a effetto e cambi di prospettiva.
Il testo del PNRR, la cui stesura, si dice, è avvenuta a porte chiuse, è l’emblema di questa strategia tanto ambigua quanto pericolosa.
Non si attacca direttamente il lavoro ma lo si fa scomparire tra le righe di una inquietante celebrazione, esaltazione e osannazione dell’interesse di profitto delle grandi imprese e del capitale straniero, considerato un interesse superiore e quindi un principio cardine delle riforme in tutti i settori (giustizia, pubblica amministrazione, appalti, ecc.).
Non si dice esplicitamente che è necessario ridurre ancora gli stipendi, ma si ripete ossessivamente che bisogna spingere la concorrenza, la produttività e la competitività.
Non si confessa che la tecnologia applicata a molti processi produttivi sta spingendo a una generalizzata precarizzazione dei posti di lavoro, ma la si considera un traguardo imprescindibile, la panacea di tutti mali su cui investire senza tregua.
Tutto il piano, e questo è evidente anche nei documenti della Commissione Europea che ha imposto riforme dettagliatissime all’Italia – “riforme ambiziose per rimuovere gli ostacoli al contesto imprenditoriale“ (Proposta di Decisione del Consiglio relativa all’approvazione della valutazione del piano per la ripresa e la resilienza dell’Italia, 22 giugno 2021) – pena il blocco del finanziamento, sono modellate sul linguaggio aziendalistico, come se lo Stato fosse esso stesso nulla di più e nulla di meno che un lavoratore precario costretto ad accettare qualsiasi condizione pur di sbarcare il lunario.
Prima di entrare nel merito del tema del lavoro, è importante premettere che il PNRR altro non è che una forma di finanziamento che un’entità sovranazionale (ritornata a essere la versione quasi originaria della Troika intra-UE) eroga a un paese purché questo si sottoponga a un rigido commissariamento (qui una indagine approfondita), vale a dire a un piano di riforme calato dall’alto, qual è appunto il PNRR.
Uno Stato viene quindi trattato come un mero debitore che deve ignorare i suoi elettori e rispettare per un certo numero di anni (almeno) un’agenda politica dettata dalla leadership europea, tanto interessata a favorire gli interessi del capitale internazionale nei paesi membri.
Il rapporto che si instaura è a dir poco spaventoso: il denaro concesso allo Stato, pari a 191,5 miliardi di euro, viene erogato a rate, previa verifica della effettiva realizzazione delle riforme imposte. Esattamente quello che è accaduto in Grecia.
Già solo questo sarebbe sufficiente a far saltare dalla sedia chiunque abbia un minimo di cognizione di cosa sia una democrazia.
Quello che di seguito verrà descritto si basa sul PNRR presentato dal governo alla Commissione Europea sulla risposta dell’istituzione europea (la decisione di esecuzione del Consiglio sopra citata con l’allegato contenente le richieste), che contiene appunto il piano di riforme.
Il capitolo sul lavoro è inesistente, capiamo perché.
Al lavoro, si fa per dire, viene dedicato un capitolo dal titolo “Coesione e inclusione” (p. 198 del PNRR), ma appare subito evidente il vuoto di contenuti sui temi centrali della crisi del potere contrattuale dei lavoratori che si traduce in un calo generalizzato degli stipendi, anche attraverso forme spinte di outsourcing e delocalizzazioni all’estero. Le utlime vertenze che hanno avuto risalto a livello nazionale ne sono un chiaro esempio.
Una volta ignorato il piano del conflitto e della redistribuzione della ricchezza tra capitale e lavoro da cui dipende la crescita della disuguaglianza, nel PNRR si discute di “occupazione femminile”, “parità di genere” e “incremento delle prospettive occupazionali dei giovani”, si fa un accenno, ma giusto un accenno, alla necessità di “porre attenzione” alla qualità dei posti di lavoro creati, nonché di garantire un reddito ai disoccupati durante “le transizioni occupazionali”. Una garanzia, quest’ultima, che si riferisce quindi agli ammortizzatori sociali nei periodi di non lavoro, ma attenzione “nel rispetto della sostenibilità finanziaria” prevista nelle raccomandazioni europee.
Il dettaglio degli obiettivi specifici contenuti nel piano, fornisce bene l’idea dell’assenza di vere e proprie politiche del lavoro volte a garantire una occupazione di qualità e ben retribuita.
Gli interventi si reggono infatti su quattro pilastri: politiche attive e formazione del personale, rafforzamento dei centri per l’impiego, creazione di imprese femminili e promozione dell’acquisizione di “nuove competenze”.
Insomma, la stessa inutile aria fritta degli ultimi 20anni almeno. L’inutilità di queste manovre va compresa sotto una duplice prospettiva. Quella dell’idea falsificata secondo cui la crisi del lavoro è tutta dal lato della domanda, ossia dipende dal fatto che i lavoratori non hanno le “competenze” e che non sanno cercarsi il lavoro, e da qui la necessità di investire (ancora) nei corsi di formazione e nei servizi di incontro tra domanda e offerta di lavoro.
Ora, riguardo al tema delle “competenze”, sappiamo benissimo che l’Italia sta subendo una metamorfosi pazzesca dei posti di lavoro incentrata sulla diffusione massiva delle attività basate sull’uso intensivo della tecnologia, al punto che i lavoratori somigliano sempre più a meri ingranaggi di una complessa fabbrica “virtualizzata”, che li costringono a svolgere lavori standardizzati, ripetitivi e altamente controllabili, dove quindi è il tempo di lavoro e non le competenze a essere il principale, se non l’unico, valore negoziabile con le imprese, e che spinge inevitabilmente gli stipendi verso il basso, contribuendo all’aumento dello sfruttamento del lavoro tipico delle grandi fabbriche materiali.
Si ignora che sono i sistemi informatici che processano le attività e che inglobano le conoscenze, ovvero le compentenze, per cui il lavoro svolto dai dipendenti si traduce sempre più in un’attività di data entry – si pensi alle attività amministrative e contabili, all’attività di assistenza alla clientela, per fare un esempio – o in attività prevalentemente manuali – come quelle svolte dai lavoratori di Amazon e della logistica in generale, oppure ancora quelle svolte da coloro che consegnano cibo a domicilio tramite app – allo stesso modo ripetitive e totalmente controllabili attraverso la tecnologia.
Tutto ciò sta appunto spingendo verso una standardizzazione al ribasso delle competenze richieste ai lavoratori e conseguente anche degli stipendi erogati.
Questo significa inoltre che i lavori altamente qualificati (quelli che richiedono veramente le “competenze”) rappresenteranno sempre più soltanto una piccola porzione dell’offerta di lavoro.
La spinta alle delocalizzazioni all’estero sono una conseguenza di questa trasformazione, perché è ovvio che le imprese che inseguono il profitto sanno che molti di questi lavori possono essere svolti anche da persone all’estero pagate molto meno di un lavoratore italiano.
Davvero qualcuno è ancora convinto che il problema del lavoro dipenda dalle “nuove competenze delle nuove generazioni”?
Basterebbe avere posto l’attenzione almeno a una delle grandi vertenze di lavoro che si sono susseguite negli ultimi anni per comprendere l’assurdità del silenzio politico su uno dei veri grandi temi del declino del lavoro, per questo credo che l’assenza di un vero e proprio piano di rilancio, ovvero di protezione, del lavoro non sia casuale.
D’altronde, negli ultimi decenni abbiamo assistito a una lenta ma inesorabile distruzione dei diritti dei lavoratori (questa è la seconda prospettiva da cui osservare la scelta del governo e dell’Europa di relegare ai margini del PNRR il piano del lavoro), una riforma dietro l’altra per consentire alle imprese di potere ridurre gli stipendi e aumentare le possibilità del ricatto di licenziamento ingiusto con un pesante ridimensionamento dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
L’attacco ai lavoratori e ai sindacati nel capitolo “Concorrenza e imprese”: tagliare il costo del lavoro
In questa incredibile metamorfosi del linguaggio politico, dove ormai l’espressione “politiche del lavoro” viene pressoché usata solo per indicare la crisi dei lavoratori che necessitano di supporto economico, l’unico modo per comprendere cosa accadrà ai lavoratori è interpretare i capitoli dedicati alle imprese.
Tra i principali del PNRR vi è certamente il capitolo “Concorrenza e imprese” (p. 261 del PNRR), che prevede come assi portanti per accrescere la concorrenza sono i “maggiori investimenti” e la “maggiore competitività” delle imprese.
Si specifica subito che per attrarre gli investimenti e rendere i mercati più concorrenziali occorre far competere le imprese in termini di qualità dei prodotti (come se le imprese avessero bisogno della lezioncina dei politici per farlo) e – tenetevi forte – anche “in termini di costi, spesso motivo rilevante di delocalizzazione”.
Abbattere salari e stipendi
Uno dei principali obiettivi politici di questo governo per accontentare le richieste dell’Europa è quindi quello di aiutare le imprese a ridurre quei costi che spingono a delocalizzare all’estero.
Sapete qual è il principale costo che le imprese vogliono o vorrebbero abbattere attraverso le delocalizzazioni all’estero? Ovvio, il costo del lavoro, quindi il disincentivo alle delocalizzazioni su cui investirà la maggioranza ai sensi del PNRR è l’abbattimento di salari e stipendi, e più in generale dei costi legati alle condizioni di lavoro.
Un recente report dell’Istat mostra proprio come il fattore che più incide sulla scelta di trasferire all’estero attività o funzioni aziendali è per il 62,2 percento delle imprese la riduzione del costo del lavoro (Report Istat “TRASFERIMENTO ALL’ESTERO DELLA PRODUZIONE, ANNI 2015-2017 ”, 3 giugno 2019).
Anche uno studio pubblicato per la Regione Lombardia mette in evidenza che non soltanto in Lombardia ma anche ne resto d’Italia e dell’Europa, il motivo principale delle delocalizzazioni risiede nella volontà di ridurre il costo del lavoro (pubblicazione ed elaborazione PoliS-Lombardia su dati Istat, La delocalizzazione, Le imprese lombarde nel censimento 2019, working paper 4/2021).
Ora, se leggete il capitolo in discussione, vi renderete conto di come questo dato essenziale della riduzione dei costi (del personale) venga edulcorato da una combinazione tutto sommato elementare di frasi e contenuti confusi e vaghi.
Come avverrà il peggioramento delle condizioni di lavoro?
A questo punto, bisogna chiedersi come avverrà questo abbattimento del costo del lavoro.
Attenzione, non si prevede di intervenire direttamente sulla legislazione del lavoro e sulla contrattazione collettiva, così come accadde dal 2011 dopo la famosa lettera della Bce al governo Berlusconi per cui è assolutamente utile riportarne il contenuto:
“b) C’é anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L’accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione.
- c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”.
Seguì la riforma del lavoro Fornero con un primo attacco all’articolo 18 e ad altri importanti diritti dei lavoratori, e poi il Jobs Act con le stesse finalità.
Riguardo al tema specifico della delocalizzazione, chi lavora nel settore sa benissimo che oggi le grandi imprese fanno quello che vogliono, con un unico limite: le cause di lavoro. Migliaia di lavoratori hanno portato le imprese nei tribunali d’Italia contro le esternalizzazioni di massa che sono il preludio alle delocalizzazioni. Questo perché l’ordinamento giuslavoristico italiano, e invero anche quello europeo, pongono dei paletti ben saldi contro forme di espulsione del personale celate dietro finte cessioni di attività.
La norma perno della difesa del lavoro contro le esternalizzazioni è l’art. 2112 c.c. (qui una breve e intuitiva descrizione su lavoro ed esternalizzazioni), su cui il governo con la recente vicenda Alitalia ha scaricato non a caso tutta la sua furia capitalista facendo fuori “per decreto” migliaia di lavoratori (qui spiego come e perché).
Tolto questo piccolo argine delle norme contro l’outsourcing abusivo, non vi è alcun argine politico alle delocalizzazioni basate sul costo del lavoro, ovvero alla competitività basata sul taglio di salari e stipendi, né come già detto l’atteggiamento del governo sulla terribile vicenda Alitalia lascia intravedere un cambio di rotta.
Accadrà quindi che ai lavoratori e ai sindacati verrà posta un’unica via (There is not alternative, come direbbe la Thatcher): tagliare il costo del lavoro, seduti in civili e democratiche riunioni fino a che non si raggiunge un accordo (parafrasando il mega direttore galattico di Fantozzi).
Uno sguardo alle condizionalità imposte dalla Commissione Europea: la proletarizzazione del Parlamento
Come già accennato, la Commissione Europea impone moltissime riforme, compresi tempi e modalità di attuazione (“Traguardi, obiettivi, indicatori e calendario per il monitoraggio e l’attuazione del sostegno finanziario”).
Nell’ultima sezione (da p. 555), la Commissione Europea riassume le riforme da attuare per l’erogazione delle singole rate, atteggiandosi come un investitore con le prerogative di uno Stato: non rivuole indietro tutti i soldi ma il potere di decidere le sorti di un paese. In pratica un super governo che prescinde dal consenso democratico.
In totale 10 comode rate di finanziamento da erogare man mano che vengono realizzate le condizionalità (o riforme appunto), che sono più di 600 (gli articoli stampa ne riportano poco più di 500, io ne ho contate di più, ma potrei sbagliarmi) da realizzare in 6 anni, dal 2021 al 2026.
Per poter ricevere una parte dei versamenti del 2022, secondo Giorgio Musso dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani – così come riportato dalla stampa – entro l’anno l’Italia deve soddisfare 42 condizionalità. Si provi a immaginare a quali ritmi da catenadi montaggio deve operare il Parlamento, i cui componenti sono destinati a subire una sorta di proletarizzazione delle proprie funzioni.
Sorge spontanea una domanda: se le cose stanno così, perché andare a votare?
Dando invece uno sguardo al contenuto delle imposizioni, ancora una volta è possibile notare la gerarchia di ordine superiore che viene conferita all’interesse del capitale senza alcuna attenzione alla tutela del lavoro e degli stipendi, se non qualche timidissimo richiamo, come il tema della sicurezza “subordinata” nei porti (Eliminare gli ostacoli che impediscono ai concessionari di fornire direttamente alcuni dei servizi portuali utilizzando le proprie attrezzature, fatta salva la sicurezza dei lavoratori, purché le condizioni necessarie per proteggere la sicurezza dei lavoratori siano necessarie e proporzionate all’obiettivo di garantire la sicurezza nelle aree portuali) o un generico richiamo ai livelli occupazionali (ridurre, entro un periodo di tempo ragionevole, massimo cinque anni, la percentuale dei contratti in house dal 40 % al 20 %, fatti salvi i livelli occupazionali).
Patto di stabilità. Il trucco dei falchi per far cadere l’Italia in trappola
Lorenzo Torrisi intervista Sergio Cesaratto
Si continua a discutere, ma non in Italia, del futuro della governance europea. Il nostro Paese rischia di rimanere intrappolato in regole all’apparenza convenienti
Nella settimana che si è appena conclusa è tornato a galla il tema del futuro delle regole del Patto di stabilità e crescita al momento ancora sospese. Il quotidiano tedesco Handelsblatt ha pubblicato in esclusiva i contenuti di un documento messo a punto dagli economisti del Mes, nel quale si suggerisce una modifica del parametro debito/Pil per portarlo dal 60% al 100%, lasciando invariato quello relativo al deficit/Pil al 3%.
Per l’Italia si tratterebbe di una modifica positiva? Secondo Sergio Cesaratto, Professore di Politica monetaria e fiscale europea all’Università di Siena, che ha appena pubblicato “Sei lezioni sulla moneta – La politica monetaria com’è e come viene raccontata” (Diarkos), «una proposta del genere potrebbe essere ingannevole in quanto apparentemente più realistica. La riduzione in 20 anni del rapporto debito/Pil sino al 60% prevista dal Fiscal compact del lontano 2012 è rimasta misura inapplicata in quanto irreale.
Essa avrebbe comportato surplus di bilancio primari (surplus una volta pagati gli interessi sul debito) tali da far crollare la domanda interna e l’economia rendendo, peraltro, ancora più lontano quell’obiettivo. La natura surreale del provvedimento l’ha reso lettera morta. Rendendolo apparentemente più realistico lo si vorrebbe rendere operativo. Ma gli effetti drammatici sull’economia sarebbero i medesimi sia che si voglia arrivare al 60% che al 100%. Le regole non vanno ideate a tavolino».
Il nostro debito pubblico andrà pur ridotto…
Ci si deve domandare se e quanto è possibile all’Italia ridurre il debito pur mantenendo una stance fiscale espansiva, chiedendosi non solo cosa deve fare il nostro Paese, ma quali politiche devono adottare gli altri Paesi e la Bce per agevolare una comunque lentissima riduzione.
Qui i guai si fanno seri, perché con il rialzo dell’inflazione sopra al 2% la Bce ha meno carte da giocare contro i ricorsi all’Alta corte tedesca dei professori tedeschi che vorrebbero la cessazione dei suoi acquisti di titoli pubblici.
Proprio giovedì c’è stato il board della Bce e il nostro spread non ha reagito bene alle parole di Christine Lagarde che volevano essere rassicuranti proprio sul livello dell’inflazione. Come mai?
La Bce ha presentato proiezioni secondo cui l’inflazione scenderà nel medio periodo sotto al 2%, e affermato che essa tollererà momentanei rialzi sopra il 2%. Essa ritiene che per ora non ci saranno riflessi dell’aumento dei prezzi (di origine esogena, energia, ecc.) nella contrattazione salariale, e dunque non vuole introdurre misure che mortifichino la domanda aggregata e la ripresa – ripetendo gli sciagurati errori del 2008 e del 2011 quando accrebbe i tassi, rispettivamente, un attimo prima del crollo di Lehman Brothers e della crisi degli spread. La sensibilità del debito italiano a un rialzo dei tassi o a una diminuzione degli acquisti è poi una spada di Damocle per Francoforte. L’immediata reazione dei mercati, poi rientrata, non è stata convinta dalle rassicurazioni della Lagarde, e gli spread Btp/Bund sono saliti. L’aspettativa è di una Bce meno aggressiva nel futuro.
Dunque cosa bisognerebbe fare?
In questo contesto non basta riproporre formulette più o meno addolcite, va riformata la governance europea. Attenzione poi, il Mes propone anche di sostituire le regole sul debito con quelle sulla spesa pubblica. In altre parole la spesa pubblica dovrebbe variare a un tasso che rifletta la crescita pregressa dell’economia in oggetto. Bene, così se un’economia ha avuto tassi di crescita negativi o modesti dovrà diminuire la spesa, o tenerla costante, col bel risultato che quell’economia andrà peggio! Il modello che costoro hanno in testa è quello mainstream in cui la spesa pubblica non è un fattore di crescita, anzi un ostacolo. Ma secondo me sono anche bugiardi perché sanno che non è così, ma lo dicono condizionati dalle disgraziate rigidità mentali e dall’insopportabile moralismo di una parte dell’élite tedesca.
Stando anche alle dichiarazioni del commissario agli Affari economici, Paolo Gentiloni, presto dovrebbe iniziare il dibattito proprio sul futuro della governance europea. Intanto, circa due settimane fa, il Direttore generale del Mes, Klaus Regling, in un’intervista a Der Spiegel ha criticato la “regola del debito”. Cosa ne pensa?
La Commissione europea ha in effetti rilanciato la revisione della governance economica europea, un processo già avviato nel febbraio 2020 e poi sospeso per la pandemia. Mi sono riletto il documento di avvio della review. È pieno di buone analisi sul passato, in particolare si riconosce quanto le politiche di austerità della prima metà dello scorso decennio siano state controproducenti e che la Bce sia stata lasciata sola a combattere la deflazione; si giudicano negativamente i surplus commerciali di alcuni Paesi; si sostiene che vada costruita una fiscal capacity europea e che politica monetaria e fiscale debbano coordinarsi (come sostenuto anche nella strategy review della Bce dello scorso luglio). Si ammette inoltre che regole attuali sono una astrusa Sagrada familia di norme, poco trasparenti e incomprensibili al cittadino informato. Bene dunque che Regling si accodi. Ma è sulle proposte che poi l’Europa diventa debole. Le proposte del Mes, abbiamo detto, sono una riproposizione di quanto già visto, anzi forse peggio.
È probabile che per le vere decisioni sul Patto di stabilità e crescita bisognerà attendere non solo il nuovo Governo tedesco, ma anche le elezioni presidenziali francesi della prossima primavera. All’Italia converrà avere ancora Draghi al Governo per spuntare le modifiche più opportune al tavolo dei negoziati?
Converrà avere Draghi nella presunzione che egli abbia idee più chiare e avanzate dei politicanti che lo sostengono. Purtroppo nel Paese non si è aperto nessun dibattito sulla riforma della governance europea, né a sinistra né a destra. Ricordiamo che Enrico Letta ha nel passato eletto il debito pubblico italiano come nemico numero uno, capendo poco e niente dei danni dell’austerity e anzi condividendo le politiche europee. Certamente ora qualcosa avrà capito anche lui, ma un dibattito non lo sta aprendo, e per farlo dovrebbe scegliere altri economisti di riferimento. Ce ne sono di valorosi e prestigiosi, perché non lo fa? Giuseppe Conte si limita a riproporre il cashback, no comment. Letta e Conte hanno i nostri telefoni. Della destra che vogliamo dire? Se fosse stato per Salvini & Meloni saremmo come il Brasile di Bolsonaro. Hanno sempre remato contro nella lotta alla pandemia. Che c’è da aggiungere?
Si sono date diverse interpretazioni in merito: lei cosa pensa delle dimissioni di Weidmann dalla Bundesbank? Il suo passo indietro significa un indebolimento dei “falchi” e una rafforzamento delle “colombe”, quanto meno nella Bce?
È una tradizione della Bundesbank! Nel 2011 avemmo già le dimissioni prima di Axel Weber da presidente della Buba, e poi di Juergen Stark da membro del consiglio esecutivo della Bce in polemica con le scelte di politica monetaria. Vedremo con chi Weidmann verrà sostituito, probabilmente un falco. Isabel Schnabel che è anche membro dell’executive board sarebbe un’ottima scelta (per noi), ma troppo squilibrata verso l’attuale conduzione della Bce per i conservatori tedeschi. In realtà, la Schnabel sarebbe una scelta equilibrata anche dal loro punto di vista (né falco né colomba), consentendo una direzione consensuale della Banca, tenuto anche conto che essa continua a essere sotto tiro.
Insomma, quali mosse il Governo italiano dovrebbe intraprendere nei prossimi mesi, anche in vista della revisione del Patto di stabilità?
Naturalmente farsi forza degli spunti di “autocritica” da parte delle autorità europee sugli errori di dieci anni fa. E con forza sottolineare che non si può dire “scurdammoce ‘o passato”, troppo facile. La Germania ha avuto enormi risparmi di spesa per interessi simmetrici al peggioramento delle nostre finanze pubbliche.
Perché professore?
Perché quando gli investitori venivano lasciati fuggire dai nostri titoli senza che la Bce muovesse un dito per sostenerci, essi si rivolgevano ai titoli tedeschi. Poi quando la Bce è intervenuta, essa ha dovuto acquistare anche titoli tedeschi, con ulteriori benefici in termini di interessi negativi per Berlino. Beh, questo va fatto pesare almeno come responsabilità politica dell’aggravamento del debito italiano. L’avevamo ridotto con grandi sacrifici dal 120% al 99% nel 2007 o giù di lì, poi l’austerità e l’inazione della Bce (sino a Draghi) lo riportarono al 130%. Ma, soprattutto, non si deve cadere nella trappola delle regole: rendendo queste ultime più “realistiche” i falchi alla Regling (ora travestiti da colombe) intendono renderle più “applicabili”. Meglio allora regole assurde e inapplicabili. Va ribaltato il discorso: cosa si deve fare per rendere il nostro debito sostenibile e al contempo assicurarci una crescita decente (ciò che renderebbe anche l’unione monetaria più solida)? Le regole sulla spesa che potrebbero prevalere in luogo delle regole sul debito possono essere persino peggiori, risultare cioè pro-cicliche invece che anti-cicliche. La politica economica è più un’arte che una scienza.
Meglio allora rinunciare alle regole?
Basta regole. O meglio, manteniamo pure un regola sui bilanci nazionali, ma si avvii la costituzione di un bilancio federale che federalizzi il finanziamento degli investimenti pubblici sia in funzione di aggiustamento strutturale degli squilibri interni all’euro area che, via disavanzi federali, in funzione anticiclica. Si metta inoltre per iscritto che politica fiscale federale e monetaria debbano coordinarsi ai fini della crescita e del riequilibrio strutturale e ambientale dell’euro area, pur non lasciando cadere l’obiettivo della stabilità monetaria nel medio periodo. Ça va sans dire che l’Italia dovrebbe presentarsi con adeguata fermezza la tavolo europeo. Presumo che Draghi sappia come stanno le cose, e la sua flemma sia la più adatta per mettere politicamente all’angolo i falchi. Poi i rapporti di forza sono quelli che sono, ma la nostra debolezza può essere la nostra forza. Sia ben chiaro, in tutto questo non assolvo Draghi dalle passate responsabilità, dal “collaborazionismo” nelle privatizzazioni alla famigerata lettera “lacrime e sangue” al Governo italiano scritta con Trichet del 2011. Ma Draghi è anche quello del discorso keynesiano a Jackson Hole nel 2014. Da buon cattolico ed essendo persona intelligente egli sa forse imparare, e certamente adattarsi alle circostanze storiche.
Opportunismo professore?
Mah, uno dei simboli dei primi cattolici era il pesce, credo.
Disturbare i manovratori – Ascanio Bernardeschi
Non ci voleva la scienza di Draghi per una manovra simile, non diversa alle precedenti: taglio delle tasse, deregulation, risorse alle imprese. Ma forse ci voleva la sua autorevolezza presso i palazzi della politica e della finanza per imporla a tutto lo schieramento politico.
Dopo l’incontro fra Draghi e Berlusconi, è armistizio fra i fratelli coltelli rappresentati da diversi settori del capitalismo italiano. La pace temporanea non poteva che essere su una piattaforma di destra.
Infatti la destra moderata (si fa per dire), incarnata nell’anziano leader di Forza Italia; la destra populista e xenofoba interna al governo, personificata nell’uomo in felpa; e pure la destra populista di finta opposizione, non meno xenofoba e fascistella (degnamente rappresentata da una leader dettasi incapace di individuare l’appartenenza politica degli assalitori della Cgil), da tempo invocavano il taglio delle tasse e soprattutto nessuna imposta patrimoniale. E così fu.
Nella settimana scorsa, difatti, il governo ha licenziato il documento programmatico di bilancio (Dpb) che recepisce, direi molto volentieri, queste richieste. Noi abbiamo già ripetutamente sostenuto che il taglio delle tasse non è cosa di sinistra. Infatti, quando ci sono persone che navigano nell’oro e posseggono numerosissimi immobili, spesso per uso personale di lusso, e persone che non sanno come mettere insieme il pranzo con la cena e non hanno un alloggio decente; quando lo Stato, per non indebitarsi troppo, taglia la spesa sanitaria, fa studiare i ragazzi in classi sovraffollate (le cosiddette classi pollaio), allunga di anno in anno l’età pensionabile e così via, una bella imposta sui grandi patrimoni sarebbe un fatto di giustizia sociale, che ovviamente non andrebbe giù alla destra, neppure a quella della grande finanza di cui Draghi è autorevolissimo esponente. Quindi taglio delle tasse e niente patrimoniale!
Nel documento governativo la manovra è delineata solo vagamente. Ecco alcuni elementi che balzano agli occhi.
Riguardo all’analisi macroeconomica, dopo il rimbalzo del Pil di quest’anno e, in misura assai minore del prossimo, che comunque non consentirà di raggiungere i livelli pre-pandemia, si prevede il rialzo dell’inflazione. Che si sia nuovamente in vista della stagflazione di mezzo secolo fa? Il tutto al netto di una possibile recrudescenza della pandemia che ci farebbe arretrare ancora di più.
Vengono spostati dal primo al secondo triennio la maggior parte degli interventi del Pnrr, che quindi si qualifica come un vero e proprio programma a medio termine, direi uno strumento della lotta di classe dei padroni contro i lavoratori, e non un programma emergenziale, come vorrebbero farci credere.
Dopo l’emergenza rientra in auge l’abbattimento del debito previsto dal fiscal compact, sia pure in forma diluita che però obbliga a ingenti quote annue di rientro, e quindi avanzi di bilancio e livelli di austerità superiori perfino al recente passato: “Nel medio termine sarà altresì necessario conseguire adeguati surplus di bilancio primario. A tal fine, si punterà a moderare la dinamica della spesa pubblica corrente”. Chiaro?
Infatti già dal 2023 si prevedono avanzi primari, anche se inizialmente in misura moderata (0,3 nel ’23 e 0,5 nel ’24, ma il bello verrà dopo). Leggiamo ancora: “A partire dal 2024, la politica di bilancio mirerà a ridurre il deficit strutturale e a ricondurre il rapporto debito/Pil intorno al livello pre-crisi entro il 2030”.
Il maggior gettito derivante dal previsto aumento del Pil non viene impiegato per rafforzare il welfare, potenziare i trasporti pubblici ecc., ma per ridurre il carico fiscale in favore della classe media. In particolare si vuole intervenire riducendo l’imposizione (non è chiaro in che misura) sullo scaglione di reddito che va dai 28 ai 55mila euro annui, attualmente tassato con un’imposta del 38%. Si tratta di una misura elettoralistica perché va a interessare i redditi medi e medio-bassi, probabilmente il settore popolare che porta più voti. Nessun abbattimento per i poveracci che guadagnano molto di meno e che sono in grandissime difficoltà, ma probabilmente questi ormai non votano più. Si dice che c’è un gradino troppo alto (+11%) fra questo e lo scaglione precedente, colpito con il 27%, mentre poca è la distanza dallo scaglione successivo, che paga un 41%. Si dimentica però di dire che il misero 3% di differenza è dovuto all’abbassamento delle aliquote per i grandi redditi che raggiungono l’aliquota massima del 43% (era del 72% nel 1971!) per i redditi da 75 mila euro a infinito. Si omette anche che originariamente lo scaglione più basso pagava solo il 10%, mentre ora il 23%. È quindi evidente che c’è stata una redistribuzione del reddito in favore dei ricchi, ma di questa ingiustizia i difensori del popolo di destra non parlano e il governo si guarda bene dal porvi rimedio.
Si prevede un graduale superamento dell’Irap. Questa imposta serve essenzialmente al finanziamento della sanità regionale. Si dice, è vero, che a fronte della graduale dismissione si assicureranno alle regioni adeguati finanziamenti, ma, venendo meno un gettito automatico, chi garantisce che a fronte della necessità di rientrare col debito, questi fondi non vengano in futuro ridimensionati?
Altre misura annunciata è l’ennesimo taglio del cuneo fiscale. A questo riguardo mi limito a rimandare al lucido commento che che ha scritto per il QuotidianoWeb il nostro collaboratore Stefano Paterna.
Verrà eliminata quota 100 e ridotta l’incidenza della spesa previdenziale.
Gli investimenti saranno prevalentemente a sostegno delle imprese: “Per sostenere gli investimenti pubblici e privati la legge di Bilancio rifinanzia i fondi per gli investimenti dello Stato e delle amministrazioni locali e proroga gli incentivi all’efficientamento energetico degli edifici e per le ristrutturazioni edilizie […] vengono prorogati incentivi fiscali collegati a Transizione 4.0 ed il contributo a favore delle Pmi per l’acquisto di beni strumentali (c.d. nuova Sabatini). Sono, inoltre, previste risorse aggiuntive per il fondo per l’internazionalizzazione delle imprese ed il fondo di garanzia per le Pmi”.
Vengono invece riformati in peggio gli ammortizzatori sociali (dotazione ridotta del 33%, da 4,5 a 3 miliardi!).
Si conferma l’allentamento delle regole dei lavori pubblici: “L’opera di semplificazione investe anche il settore degli appalti pubblici e incide sulle barriere autorizzatorie e procedurali che frenano l’attuazione dei progetti, mettendo a rischio la realizzabilità delle opere”. Meglio mettere a rischio il territorio, la salute pubblica e la sicurezza dei lavoratori. A fronte di questa deregulation non vi sono stanziamenti aggiuntivi per il controllo ispettivo dei luoghi di lavoro.
I piani urbanistici diventano carta straccia: “per le Zone Economiche Speciali […] è introdotta anche un’autorizzazione unica, che può derogare agli strumenti urbanistici e di pianificazione territoriale”.
Non ci voleva la scienza di Draghi per una manovra simile, non diversa dalle precedenti. Ma forse ci voleva la sua autorevolezza presso i palazzi della politica e della finanza per imporla a tutto lo schieramento politico.
I motivi per una forte opposizione a questo governo non mancano.
L’assalto ai servizi pubblici locali – Marco Bersani
Era atteso da tempo. Faceva parte delle stringenti “condizionalità” richieste dalla Commissione Europea per accedere ai fondi del Next Generation Eu. Era uno degli assi portanti per i quali Draghi è stato definito da Confindustria “l’uomo della necessità”. Era fortemente voluto dalle lobby finanziarie. Ed è arrivato. Il disegno di legge sulla concorrenza e il mercato. Un nuovo bastimento carico di privatizzazioni.
Mentre i media mainstream ancora una volta dirottano l’attenzione (colpiti i tassisti, risparmiati i concessionari degli stabilimenti balneari etc.) nessuno mette l’accento sulla sostanza del provvedimento, concentrata nell’art. 6: la privatizzazione dei servizi pubblici locali e la definitiva mutazione del ruolo dei Comuni.
Un provvedimento vergognoso che, sin nelle finalità espresse all’art. 1, sembra aver completamente accantonato quanto la pandemia ha evidenziato oltre ogni ragionevole dubbio: il mercato non funziona, non protegge, separa persone e comunità.
Senza alcun senso del ridicolo si dice che il provvedimento ha lo scopo di “promuovere lo sviluppo della concorrenza e di rimuovere gli ostacoli all’apertura dei mercati (…) per rafforzare la giustizia sociale, la qualità e l’efficienza dei servizi pubblici, la tutela dell’ambiente e il diritto alla salute dei cittadini”.
Se dalle finalità generali passiamo allo specifico articolo sui servizi pubblici locali, va subito notato il salto di qualità messo in campo dal governo Draghi: per la prima volta si parla di tutti i servizi pubblici locali senza alcuna esclusione.
Come si evince dall’unico passaggio in cui sono menzionati i servizi pubblici locali a rilevanza economica in merito alla necessità di una loro ottimale organizzazione territoriale, il resto del provvedimento supera i precedenti tentativi di privatizzazione per la globalità dei servizi coinvolti. Ad ulteriore conferma di questa estensione, valga il richiamo (par. o) alla normativa relativa al Terzo Settore.
Ribaltando a 360 gradi la funzione dei Comuni e il ruolo di garanzia dei diritti svolto storicamente dai servizi pubblici locali, il ddl Concorrenza (par. a) pone la gestione dei servizi pubblici locali come competenza esclusiva dello Stato da esercitare nel rispetto della tutela della concorrenza. E ne separa (par. b) le funzioni di gestione da quelle di controllo.
I paragrafi successivi sono un vero capolavoro di ribaltamento della realtà.
Mentre all’affidatario privato viene richiesta (bontà sua) una relazione annuale sui dati di qualità del servizio e sugli investimenti effettuati, ecco il tour de force che deve affrontare il Comune che, malauguratamente, scelga di gestire in proprio un servizio pubblico locale: dovrà produrre “una motivazione anticipata e qualificata che dia conto delle ragioni che giustificano il mancato ricorso al mercato” (par. f); dovrà tempestivamente trasmetterla all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (par.g); dovrà prevedere sistemi di monitoraggio dei costi (par. i); dovrà procedere alla revisione periodica delle ragioni per le quali ha scelto l’autoproduzione.
Per quanto riguarda i servizi pubblici a rilevanza economica (par. d), ovvero acqua, rifiuti, energia, e trasporto pubblico, si prevedono inoltre incentivi e premialità che favoriscano l’aggregazione (leggi multiutility).
Non contento di puntare alla privatizzazione delle gestioni, il Governo prevede anche (par. q) una revisione della disciplina dei regimi di proprietà e di gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni, nonché di cessione dei beni in caso di subentro, anche al fine di assicurare un’adeguata valorizzazione della proprietà pubblica, nonché un’adeguata tutela del gestore uscente.
In questo contesto, il richiamo (par. t) alla partecipazione degli utenti nella definizione della qualità, degli obiettivi e dei costi del servizio pubblico locale suona come la presa per i fondelli finale.
Un attacco feroce e determinato ai diritti delle persone, ai beni comuni e alle comunità locali. Di questo si tratta. Portato avanti da un governo che non ha mai fatto mistero di essere al servizio dei grandi interessi finanziari e che ha preteso un Parlamento embedded per poter avere mano libera su tutte le scelte fondamentali di ridisegno della società.
“La zavorra dei vincoli e del debito ci impedisce qualunque movimento. Non avere alcuna agibilità sul bilancio significa impattare enormemente sulla qualità di vita dei cittadini. E’ impossibile governare la città se non possiamo mettere risorse”. Così ha tuonato pochi giorni fa Gaetano Manfredi, nuovo sindaco di Napoli.
La risposta del governo Draghi è che non vi è alcun bisogno di governare i Comuni e le città: basta mettere tutto sul mercato.
Draghi all’assalto della democrazia – Marco Bersani
Come nel più prevedibile dei copioni di teatro, dopo aver sapientemente preparato il terreno per un paio di mesi, il cerchio si chiude e il governo Draghi-Lamorgese porta l’affondo finale: nell’Italia della ripresa-resilienza sarà vietato manifestare.
L’esito è stato preparato attraverso diverse tappe.
La prima avviene il 9 ottobre, quando una “sconsiderata” gestione dell’ordine pubblico a Roma permette un assalto di gruppi neofascisti alla sede nazionale della Cgil, dopo averlo annunciato due ore prima dal palco di Piazza del Popolo.
La seconda avviene in vista del G20 del 30-31 ottobre, quando si costruisce una campagna di stampa di tre settimane su allarmi inesistenti in riferimento alle manifestazioni dei movimenti sociali, che portano esercito per strada e cecchini sui tetti a fronteggiare nientepopodimeno che la giovane generazione ecologista dei Fridays For Future. Naturalmente la buona riuscita delle mobilitazioni viene attribuita al Ministero dell’Interno che ha “impedito” alle stesse di produrre disagi all’ordine pubblico.
Serve la goccia per far traboccare il vaso: ed ecco l’annuncio di un possibile cluster di contagiati dovuto alla ripetute manifestazioni No Green Pass nella città di Trieste e la presa di posizione del Sindaco della città, il quale, senza nessun senso delle proporzioni e del ridicolo, richiede a gran voce l’adozione di leggi speciali “come ai tempi delle Brigate Rosse”.
Il pranzo è servito e il governo Draghi – non contento di aver imposto un Parlamento embedded, totalmente allineato alle sue scelte politiche sul post pandemia – prova a risolvere anche l’altro polo del problema, rappresentato dal conflitto sociale.
Ed ecco il nuovo pacchetto di provvedimenti annunciato sugli organi di stampa dalla Ministra Lamorgese, la quale, naturalmente non disconosce il diritto a manifestare (art. 21 della Costituzione), ma lo colloca dopo il “diritto” dei cittadini a non partecipare ai cortei (come se fosse obbligatorio) e dopo il “diritto” dei commercianti a poter trarre gli usuali benefici dallo shopping festivo e, ancor più, natalizio prossimo venturo.
Saranno vietati i cortei nei centri storici delle città, in tutte le vie dei negozi e in prossimità dei punti sensibili. E, come se non bastasse, laddove non ci siano “particolari esigenze e garanzie” – chi le stabilisce? – saranno vietati i cortei in quanto tali e permesse solo manifestazioni statiche e sit-in.
Il quadro è sufficientemente chiaro. La pandemia ha messo in evidenza tutte le contraddizioni e la generale insostenibilità di un modello di società basato sull’economia del profitto. Il governo Draghi si è imposto il compito di proseguire con quel modello costi quel che costi.
Ed ecco allora un Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza tutto rivolto ad accontentare le imprese e a mortificare il lavoro e i suoi diritti; una politica fiscale volta a liberare i ceti abbienti dalle insopportabili imposte, di nuovo scaricate su lavoratori e pensionati; una transizione ecologica interamente vocata al greenwashing; una nuova ondata di privatizzazioni di tutti i servizi pubblici locali; un attacco alla povertà, attraverso provvedimenti vergognosi come il tentativo di restringere il reddito di cittadinanza e di comprimere l’indennità alle persone con disabilità.
Tutte misure che, com’è ovvio, acuiranno il disagio delle persone e produrranno rabbia e conflitto sociale.
Come risolverlo? Non c’è problema, basta vietarlo.
D’altronde, non è da tempo che i grandi poteri finanziari dicono che le Costituzioni dei paesi del Sud Europa sono poco adatte alla modernità perché troppo intrise di idee socialiste?
Varoufakis scherza dicendo la verità?
Ex ministro dell’economia della Grecia in quel famoso 2015 in cui la Bce di Draghi chiusi i rubinetti in un noto golpe finanziario che costrinse Atene ad un nuovo Memorandum sovvertendo un referendum popolare, Yanis Varoufakis conosce bene il modus operandi del nuovo primo ministro italiano, salito al potere tra l’altro con una operazione che ha tutto i connotati tranne quelli della democrazia.
Su Twitter Varoufakis ha voluto commentare la scelta di Mario Draghi di affidarsi alla multinazionale Usa McKinsey come consulente sul Recovery Fund. Sostiene l’ex ministro greco: “Così prevedibile e così triste: Mario Draghi ha assunto McKinsey per ‘organizzare’ la distribuzione italiana del Recovery Fund. Quale sarà la prossima mossa? Chiedere alla mafia di riorganizzare il ministro della giustizia?”
Sull’operazione McKinsey ha sottolineato alla perfezione oggi Thomas Fazi come il problema in realtà sia proprio il Recovery Fund e le famigerate condizionalità che comporterà (chiunque sia a scrivere i progetti), ma le parole di Varoufakis sono molto significative proprio di chi ha vissuto sulla proprio pelle e quella del proprio popolo le barbarie finanziarie-tecnocratiche che Draghi e la multinazionale Usa rappresentano.
P.S. Nel libro di Antonio Di Siena – Memorandum, una moderna tragedia greca – avete il resoconto completo di quello che è accaduto al popolo greco e si sta ripetendo in Italia
PS: guardate Adults in the room, di Costa Gavras, per capire meglio le parole di Varoufakis
Appello nazionale contro i divieti a manifestare lanciato da: ADI, ARCI, Attac, Chi si cura di te?, Fairwatch, FIOM CGIL NAZIONALE, FLC CGIL NAZIONALE, Legambiente, Libera Contro le Mafie, Link Coordinamento Universitario, Rete della Conoscenza, Rete degli Studenti Medi, Società della Cura, Unione degli Studenti, Unione degli Universitari, UP.
Apprendiamo con preoccupazione la direttiva emessa dal Ministero dell’Interno in data 10 novembre che, motivata dall’intenzione di limitare le manifestazioni relative alle misure sanitarie adottate dal Governo, permette di fatto in base a criteri discrezionali di vietare tutti i cortei, anche inerenti ogni altra tematica, all’interno dei centri storici e delle vie del commercio cittadine.
Nel corso degli ultimi mesi, in tantissimi come lavoratori, studenti e cittadini siamo scesi in piazza per rivendicare un’uscita giusta dalla crisi pandemica e un cambio di rotta generale. Lo abbiamo fatto negli scioperi per il clima, nelle piazze per il lavoro e nei cortei antifascisti e lo abbiamo fatto in sicurezza, rispettando le misure previste nella tutela della salute di tutti, mettendo al centro l’importanza della cura collettiva. Nelle manifestazioni che hanno attraversato tutto il Paese abbiamo rivendicato il diritto alle cure e ai vaccini per tutti, contro la gestione diseguale che caratterizza la campagna vaccinale a livello globale, contro i definanziamenti che hanno messo in ginocchio il nostro Servizio Sanitario Nazionale. Oggi è necessario uscire dalla situazione di crisi sociale e sanitaria in cui siamo, ma è necessario farlo mettendo al centro i diritti, le persone, la lotta alle diseguaglianze e all’ingiustizia sociale. Nel testo della direttiva si afferma esplicitamente che le misure di interdizione di “aree urbane sensibili”, nonché il divieto di svolgimento di cortei, “potranno trovare applicazione per manifestazioni pubbliche attinenti ad ogni altra tematica” (oltre a quelle legate alle misure sanitarie), e che “l’evoluzione del fenomeno correlato alla protesta per le misure emergenziali dettate dal COVID-19 ne renda necessaria l’urgente e immediata attuazione”. Un provvedimento di questo tipo contiene un rischio altissimo di compressione del diritto costituzionale alla libertà di manifestazione del dissenso e delle idee, pur nel riconoscimento della preoccupante situazione epidemiologica.
Limitare il diritto di manifestazione in questo modo è un grave attacco alla democrazia, in una fase in cui già gli spazi di confronto e ascolto da parte delle istituzioni sono stati pesantemente ristretti, in particolare durante la fase acuta della pandemia. La tutela degli interessi commerciali non può rappresentare un’ulteriore causa di contrazione della democrazia; oltretutto, risulta difficile comprendere perché il diritto “allo svolgimento delle attività lavorative e alla mobilità dei cittadini” vada tutelato in centro e non al di fuori di questo, né perché le stesse misure sanitarie vadano applicate solo in alcune zone delle città.
La politica, oggi più che mai, non può ridursi a gestire l’ordine pubblico in maniera autoritaria e repressiva, ma deve interrogarsi sulle risposte reali da dare alla popolazione: a chi lavora, a chi il lavoro l’ha perso, a chi studia, alle nuove generazioni che vedono il futuro sempre più in bilico, a chi sta pagando le conseguenze della crisi pandemica. Chi manifesta è interprete di questi vuoti da colmare ed è compito della politica occuparsene e non ignorarli o reprimerli.
Come organizzazioni sociali, movimenti, sindacati, realtà della società civile facciamo appello alla politica e alle istituzioni perché si faccia un immediato passo indietro e non si metta sotto attacco il diritto di manifestazione.
https://ilmanifesto.it/lettere/contro-i-divieti-a-manifestare-la-politica-non-e-repressione/