«Marnie», il miglior insuccesso di mister Hitchkock

di Fabio Troncarelli

Il 9 luglio 1964 – il giorno dopo il mio sedicesimo compleanno – uscì a Londra in prima visione assoluta «Marnie» di Alfred Hitchkock, un thriller psicologico che il regista stesso definì “freudiano”. E’ evidente che la prima fosse a Londra, la swinging London dei ruggenti anni sessanta e capitale mondiale dell’antipsichiatria nella versione di Ronald Laing: era inglese Hitchcock, anche se da anni trasferito negli Stati Uniti; il protagonista del film, Sean Connery (alias James Bond) era un’icona dell’Inghilterra, anche se scozzese di nascita e di cuore; ma soprattutto era inglesissimo l’autore del romanzo da cui fu tratto il film, Winston Graham, un mestierante di successo che solo dopo molti anni di storielle e storiacce era approdato sul versante del “thriller psicologico”. Quello che era poi – strutturalmente parlando – inglese anzi “vittoriano”(pur se il film era ambientato negli Stati Uniti) era il contrasto fortissimo fra Norma e Peccato, che stringeva in una morsa i protagonisti.

Thriller psicologico” abbiamo detto. A quell’epoca era l’ultima moda. Dopo il successo internazionale di «Psycho» dello stesso Hitchcock (1960) in quegli anni – nell’era di «Qualcuno volò sul nido del cuculo» dello scrittore Ken Kesey (1962) – bastava pronunciare la parola “psiche” e i produttori aprivano il portafoglio. Di lì a poco sarebbero venute altre esplorazioni delle contorsioni della psiche umana come «Poor cow» di Ken Loach (1967), «Bella di giorno» del redivivo Louis Bunuel (sempre 1967) e «Diario di una schizofrenica» di Nelo Risi (1968). E poi sarebbero arrivati il Maggio francese, la contestazione, la rivoluzione dei costumi sessuali. E la “psiche” dei giovani e degli anziani sarebbe cambiata per sempre.

«Marnie» ebbe un discreto successo, anche se non travolgente. Fu accolto bene anche dagli intellettuali ma in pochi anni il giudizio favorevole fu ribaltato: le critiche fioccarono e alla fine il rifiuto degli addetti ai lavori e del grande pubblico fu unanime. Anzi, dopo una serie di indiscrezioni, maldicenze, interviste strappalacrime e libri che rivelavano i lati oscuri del regista (come quello di Donald Spoto, «Il lato oscuro del genio» Lindau editore, 2006) il film divenne l’emblema delle perversioni dell’autore. Durante le riprese egli avrebbe ricattato la protagonista, Tippi Hedren, per ottenerne i favori sessuali e in seguito al suo rifiuto, per vendicarsi, avrebbe stroncato la carriera della giovane ex-modella (per la verità piuttosto scarsa in recitazione).

Ci sia consentito scrollarci di dosso il fango di questo pantano. Il critico non deve comportarsi come le donnette di Firenze, le quali dicevano che Dante era andato di persona all’Inferno perché era scuro di pelle.

Dunque, restiamo al film. Visto che è un “thriller psicologico” dovremo far ricorso a nozioni elementari di psicologia. Senza fare facili (e stupide) analogie tra la psicologia degli esseri umani e la psiche dell’autore.

Raccontiamo la storia. Ridotta all’osso si può sintetizzare così: un ricco industriale scopre, poco dopo le nozze, che la bella moglie è sessualmente frigida e cleptomane. Dopo una serie di peripezie, l’uomo e la donna riescono a risalire alle cause di questo bizzarro comportamento: un drammatico episodio dell’infanzia che ha imprigionato la ragazza nelle catene di un disturbo compulsivo, una coazione a ripetere che l’ha trascinata sulla via del crimine. Rivissuto l’incubo, Marnie potrà e dovrà affrontare le conseguenze dei suoi atti. Fin qui il romanzo e il film. Ma in realtà esistono profonde differenze tra l’uno e l’altro. Se cerchiamo di andare un po’ più a fondo, non possiamo che convenire con Fulvia Caprara, giornalista di «La Stampa», la quale – in occasione della pubblicazione in italiano del romanzo nel 2014 – ne rievocava il significato e il fascino con queste parole: «Una bella ragazza sola attraversa un mondo ancora avvolto da convenzioni e formalità, un mondo di maschi intraprendenti che dettano le regole del gioco, di economia vivace, di posti di lavoro che si succedono gli uni agli altri senza difficoltà. Ma anche un mondo dove si avverte, ancora netta e bruciante, la differenza di classe. Oltre che con se stessa, la protagonista di Marnie… combatte contro quest’ordine delle cose, contro la maledizione di una cultura perbenista che permette a tutti di cercare fortuna, ma a nessuno di cancellare il marchio della propria origine sociale. Se sul piano inconscio Marnie lotta con il trauma che ha scosso per sempre la sua esistenza provocandole il disgusto per il sesso e l’impossibilità del contatto fisico con gli uomini, su quello pubblico fronteggia la rigidità di un’Inghilterra classista, fatta di caccia alla volpe, tazze di tè, mariti devoti e dirigenti d’azienda che molestano impuniti le proprie dipendenti. Impiegata modello con un nome sempre diverso e un piano sempre uguale, svaligiare le casse della ditta dove presta servizio, fuggire, assumere una nuova identità e ricominciare, Marnie incontra, nella tipografia John Rutland & Co, un ostacolo inatteso. Si chiama Mark, è “giovane, bruno, pallido, dall’aspetto un po’ fragile, con un ciuffo ribelle che avrebbe bisogno di una pettinata”… Un uomo capace di sposare una ladra, di coprirne l’ultimo furto, di sopportarne la frigidità (tranne quella notte, in Spagna, durante il viaggio di nozze, quando Mark “mi trascinò verso il letto e spense la luce”), di pagare uno psichiatra (Charles Roman, assente nella pellicola) nella speranza che l’analisi riesca a sciogliere il blocco della consorte. Ma il dolore di Marnie, che, come spesso accade agli eroi hitchcockiani, ha trasformato la sua vita in un gioco al massacro contro un destino misterioso e implacabile, può sciogliersi solo nell’impatto con la verità, quando la madre indegna, che lei ha sempre accudito, appare per quello che è davvero stata, quando l’orrore per il corpo maschile trova la sua ragione nei truci ricordi d’infanzia…».

Questi “truci” ricordi sono la memoria offuscata di un delitto commesso dalla madre della ragazza: Marnie ha provato un violento choc, perché ha assistito all’omicidio del fratellino, ucciso dalla madre, colta da un raptus. In questa prospettiva la coazione al furto e l’avversione per il sesso non hanno un significato psichico specifico: sono solamente comportamenti masochisti, per provocare la punizione degli altri. Marnie fa in modo di addossarsi la colpa (reale) di qualunque cosa faccia per dimenticare la colpa (presunta) di non aver saputo evitare la morte del fratello.

In ogni caso, la scoperta del delitto commesso farà capire alla ragazza la radice dei suoi problemi ma non l’aiuterà a vivere meglio perché, nonostante tutto, la ragazza cadrà vittima di una trappola e finirà in mano alle persone che ha derubato, decise a farle pagare i suoi crimini, anche se questi erano solo il frutto dei suoi disturbi psichici.

Il film finisce in un altro modo, anche se ricalca il romanzo con una certa pignoleria. Marnie scopre infatti di essere stata lei a commettere un delitto, quando era bambina: l’assassinio di un uomo, il cliente della madre che si prostituiva, creduto ingiustamente un aggressore. Nel corso di quell’omicidio la madre perde l’uso di una gamba ed è costretta a smettere di prostitursi.

Questa soluzione spiega in modo più convincente la ripugnanza fisica per gli uomini da parte di Marnie: la ragazza è stata spaventata da un uomo che ha ucciso e temendo di ritrovarsi nella stessa situazione ha una vera e propria fobia per i maschi. Nello stesso tempo, sentendosi terribilmente in colpa per quel che ha fatto, si punisce, evitando qualsiasi contatato con il sesso maschile.

Anche la cleptomania di Marnie appare più credibile psicologicamente nel film rispetto al romanzo: si direbbe infatti che la ragazza cerchi di risarcire la madre del denaro che le ha fatto perdere uccidendo chi la pagava e causandone l’invalidità. Non a caso, Marnie invia alla madre i soldi che ha rubato e cerca sempre di prendersi cura di lei.

Last but not least: la ragazza scopre che la madre, dura e scostante, l’ha sempre amata nel fondo del cuore, anche se in apparenza sembrava una donna terribile. La scoperta di questo brandello di amore inespresso, insieme a quella delle ragioni dei suoi comportamenti, spinge Marnie sulla via di un’incerta e fragile speranza nel futuro, ad affidarsi con angoscia a un marito che ha sposato solo per evitare la prigione.

Fermiamoci qui. Fiumi di inchiostro sono stati versati su questo film e potrei versarne anche io se volessi approfondirne l’analisi esaminandone le caratteristiche e le sfumature. Per ora mi pare sufficiente ciò che abbiamo detto, la punta di un icerberg che affonda le sue radici in profondità. Hitchcock è stato accusato spesso di essere superficiale: in particolare, per quanto riguarda la psiche umana, un coro di psicoanalisti indignati, spalleggiati da critici feroci, ha sottolineato che il regista è schematico, ingenuo, rozzo e addirittura mistificante nella raffigurazione di presunti tormenti psicologici, come avviene ad esempio nel film «Io ti salverò». Senza contare i furibondi pudibondi che lo accusano di essere sadico e perverso, molestatore di fanciulle indifese e del pubblico borghese. Sarà. Ma è pur vero che «Marnie» scuote terribilmente lo spettatore e riesce a farlo entrare in sintonia con la solitudine di esseri perduti, che solo accettando i propri errori rimossi, il proprio inconscio inquietante, ma vero, riescono a ritrovarsi. Come ha scritto proprio uno dei più ascoltati fiancheggiatori degli inquisitori del regista, Donald Spoto: «Marnie, a distanza di anni, ha un fascino intimo e particolare, unico nella produzione artistica di Hitchcock. La sua mancanza di strutturazione e la sua impostazione onirica quasi allucinatoria suscita nello spettatore l’empatia con le sue emozioni straziate. Diversamente da qualsiasi altra sua opera, questo film è costellato di aperte richieste d’affetto. “Perché non mi vuoi bene mamma?” chiede Marnie in una delle prime scene» (Il lato oscuro del genio, pagina 603). Accorata, disperata, struggente, la ragazza chiede anche al marito all’improvviso «Aiutami!». Raramente, nella storia del cinema, un personaggio si è espresso con la stessa sincerità. Ha poca importanza che il regista riesca a dare la risposta corretta in termini psicoanalitici a una simile richiesta che viene dal fondo dell’anima. Il compito di un artista è porre i problemi non risolverli. E noi saremo sempre grati a lui per questo, come siamo grati a Sofocle, perché il suo Edipo mormora ancora, oggi come ieri: «Per voi piango. E guardar non vi so».

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza ballerina – della bottega

 

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