Massimo Carlotto, Michel Bussi, Elizabeth Kolbert…
…Ilaria Rossetti, Alicia Giménez-Bartlett, Flavio Fusi, Ulbe Bosma, Don Winslow, Davide Risso e Gabriella Morini
le recensioni di Valerio Calzolaio
Trudy – Massimo Carlotto
Einaudi Torino 2024
Pag. 209 euro 18
Lombardia, Toscana, Romagna. Estate 2023. Il commissario Gianantonio Farina aveva cambiato vita nel 2008, gli suggerirono di chiudere rapidamente una delicata indagine (dove erano morti due agenti di polizia, una prostituta bulgara e il trentottenne Molteni, maturità classica e investigatore privato, probabile serial killer e già sottufficiale dei paracadutisti della Folgore) e gli proposero di passare al settore privato. Sono ormai quindici anni che si è fatto ricco e potente, riverito come Il Dottore, sussurrato come il Grigio, ai vertici dell’agenzia milanese Nsg che fornisce servizi di sicurezza a tutto campo, con personale altamente specializzato, quasi sempre con un passato nei corpi scelti dell’esercito o nelle forze dell’ordine: scorte a vip di ogni tipo pure fuori dal Paese e nelle aree di crisi (contractor in zone di guerra); controllo dei figli dei pezzi grossi senza essere invasivi; protezione di edifici, centri commerciali, attività produttive; investigazioni, intelligence, analisi dei rischi, sfera reputazionale; il tutto sia passivo che attivo, con dossieraggio e spionaggio tramite intercettazioni, pedinamenti, intermediazioni (ovvero ricerca di prove in ambienti ostili). Fra i casi che lo assorbono, nella zona grigia al confine tra legalità e illegalità, ci sono il pestaggio che il suo uomo Alex ha compiuto nel tempo libero (pagato da un cinese) contro un capo sindacalista di base in Toscana (ridotto in coma) e l’operazione Trudy, dal nomignolo affibbiato a una donna, moglie di un commercialista al servizio di poteri criminali, scomparso improvvisamente e misteriosamente. Lei si è piazzata in un bell’appartamento di Cesenatico, con due suoi agenti privati che la seguono e intercettano di continuo. Per tirarlo fuori dai riflettori e disfarsene manda anche Alex a occuparsi di seguire Trudy e tutto si incasina, lei ha un piano furbo e vuole davvero capire chi ha fatto sparire il marito fedifrago, intuendo che non può fidarsi di nessuno, forse solo di Serena Gori moglie del sindacalista in ospedale.
Il grande scrittore europeo Massimo Carlotto (Padova, 1956) ha scritto una trentina di ottimi testi, perlopiù documentati noir di stile hard-boiled. Mentre è ormai quasi pronto il nuovo della serie dell’Alligatore Buratti (5 avventure fra 1995 e 2002, una ripresa nel 2009, tre storie tra il 2015 e il 2017) esce con un bel romanzo di frontiera, che copre con maestria un vuoto letterario. Lo spunto del prologo, la sospensione dell’indagine da maneggiare con cura, riguarda un caso vero del 2005. La storia si concentra poi, meticolosamente fiction, sul poco conosciuto settore della cosiddetta sofisticata sicurezza privata, cresciuto in modo vertiginoso nell’ultimo ventennio, responsabile di molto di cui sappiamo poco (come implicito in cronache quotidiane riferite ad agenzie di cyber security straniere), coinvolto in parecchi scontri politici, vertenze padronali (per trovare lavoratori in nero o disturbare tutele sindacali) e processi giudiziari. Ovviamente, comportamenti torbidi e violenti accompagnano tutti i personaggi, il pubblico e il privato: ognuno cerca di sfruttare gli altri e, fainamente, Farina si fa preparare un dossier anche su ogni cliente che gli dà un incarico, non si sa mai. O forse si sa sempre che non ci si può fidare di nessuno e che nel corso del tempo tutto può far brodo, tanto più che è sposato e non si nega misurate scappatelle e da parecchio riceve richieste da un senatore (leghista, si direbbe). Il titolo richiama l’inaspettata provinciale morbida lungimirante protagonista, Ludovica Trudy Baroni, che si mostra all’altezza di ogni situazione, valorizzando alcune solidarietà femminili. La narrazione è in terza varia al passato. Ben reali sono anche le frequenti aggressioni ai sindacalisti, la manovalanza risponde a precisi mandanti ammanicati. L’encomiabile missione sociale della letteratura noir è esercitata con perizia di scrittura e godimento di lettura. Sulla costa romagnola Alex sostituisce Saverio, il quale tuttavia non può godersi a lungo le vacanze a Potenza Picena. Vino rosso e altre amenità alcoliche, segnalo soprattutto la zuppa inglese con l’emulsione di alchermes, rosolio, rum e amaretto. Musica solo in sottofondo, ma “Fragole” incanta.
Sicilia – Autori vari (Gaetano Savatteri, Giacomo Di Girolamo, Evelina Santangelo, Fabio Lo Verso, Arnon Grunberg, Veronica Caprino, Claudia Durastanti, Stefania Auci, Vanessa Ambrosecchio, Viola Di Grado, Piero Melati, Costanza Quadriglio, Davide Enia, Colapesce)
Fotografie di Roselena Ramistella
Iperborea Milano – 2024 (tutti testi 2024)
Pag. 192, euro 22
Sicilia, Mediterraneo. Oggi. Si tratta della più grande regione italiana (quasi 26 mila chilometri quadrati, l’8,6 del totale nazionale, una delle cinque a statuto speciale), la quinta per popolazione (4,8 milioni di abitanti, in calo) e dell’isola più grande del Mediterraneo. L’attivo vulcano Etna è il punto più alto, oltre 3300 metri. Ha attorno una miriade di magnifiche famose isole (altre 18 abitate), con o senza arcipelago, alcune vulcani, alcuni ancora attivi. Più colline (circa il 61 per cento) che montagne (24) o pianure (14). Il fiume più lungo è L’Imera meridionale o Salso Himeras nella Sicilia centrale e sud-occidentale, sfocia vicino Licata, con uno sviluppo totale di 144 chilometri (solo secondo per ampiezza di bacino idrografico dopo il Simeto). I comuni con più di cento mila abitanti sono quattro: il capoluogo Palermo, Catania, Messina, Siracusa. La Sicilia è stata certo costruita e ricostruita anche dai libri, dai film, dai quadri, dalle foto, oltre che dai ricordi degli emigranti. Ora è anche quella degli sbarchi e degli immigrati, mentre resta il secondo polo petrolchimico d’Europa e conta sette siti Unesco. I cambiamenti climatici, inoltre, stanno trasformando il paesaggio agricolo, sempre più a rischio di allagamenti e desertificazione, e qualcuno ne approfitta per sostituire la vite con il caffè e l’avocado. Lungi dal provare a spiegarla, tanti autori e giornalisti si sono cimentati nel raccogliere “cartoline”, immagini sfuocate di una recente contemporanea meravigliosa terra di sole e acque. Perché anche la Sicilia si muove e, sì, cambia. La collana The Passenger (per esploratori del mondo) è ormai nota e molto apprezzata, commissiona o raccoglie articoli recenti su luoghi umani del pianeta (città, paesi ed ecosistemi) in bei volumi illustrati e vuol farci meglio capire, partendo sempre da temi d’attualità.
Il primo volume del 2024 è dedicato alla cara Sicilia (“isola quando le conviene”), come al solito ricchissimo di foto (belle e d’autore), frequenti precisi significativi dati, grafici, schede, ritratti e illustrazioni infografiche (originali e ben leggibili). Dopo il risvolto di copertina, con le informazioni di base, e il sommario, nel primo servizio il giornalista e scrittore Gaetano Savatteri (trasferitosi a Roma) spiega perché “non esiste più la Sicilia di una volta”: possiamo iniziare a relativizzare leggi e codici apparentemente immutabili, ad accantonare gattopardi e coppole, a parlare di un’isola plurale, per entrare in una nuova era di vini raffinati, street food modaioli e libri da classifica (grazie anche a Camilleri che “inventa” la cucina siciliana come genere letterario). Seguono l’esperto trapanese di criminalità Giacomo Di Girolamo, che spiega l’introduzione di frutti tropicali un tempo impensabili a queste latitudini; la scrittrice palermitana Evelina Santangelo, che ci aggiorna su Lampedusa; il giornalista palermitano (trasferitosi in Svizzera) Fabio Lo Verso, che riflette sullo strano (brutto) caso del petrolchimico di Siracusa, occultato per non disturbare il turismo; la scrittrice olandese Arnon Grunberg, che ci fa viaggiare nella crisi demografica della Sicilia; l’architetta e dottoranda Veronica Caprino, che dialoga mirabilmente con la traduttrice Claudia Durastanti, alla “ricerca del cemento mai perduto”, le incompiute e i malaffari (“invece del ponte”); la bravissima scrittrice trapanese Stefania Auci, che approfondisce il patrimonio archeologico, artistico e storico dell’isola; la “maestra” migrante interna Vanessa Ambrosecchio, che ci aiuta a scoprire un’altra Palermo; la bravissima scrittrice Viola Di Grado (trasferitasi a Londra) che ricorda la complicata adolescenza catanese; il giornalista palermitano Piero Melati, che offre importanti spunti su Cosa Nostra e l’epidemia di crack; la regista Costanza Quadriglio, che illumina l’immaginario collettivo siciliano; il drammaturgo Davide Enia sulla “cartografia dell’inesistente” e Colapesce con la playlist. Solita breve opportuna bibliografia finale.
Ophélie si vendica. Il destino di Folette – Michel Bussi
Traduzione di Alberto Bracci Testasecca
Edizioni e/o Roma 2024 (orig. 2024, Mon Coeur a Déménagé)
Pag. 379 euro 18
Rouen. 1983 – 1999. Il 29 aprile 1983 Ophélie Folette Crochet subisce la morte della madre Maja. La bambina è nata il 10 ottobre 1976, le vuole un bene dell’anima e assiste impotente: prima sul letto dalla propria cameretta con il giovane gatto Bolduc, mentre lei parla con il tutore dei loro soldi Richard Vidame stufo del marito Jo, che li spende per alcol e droga, e lo supplica di restare perché sente il fondato terrore di poter essere ammazzata, vedendolo andar via dalla finestra dell’appartamento dove abitano (al decimo piano dell’edificio Sorano) in Volvo con una donna; poi, risvegliata dal tardivo ritorno del padre, dopo che lei le ha letto una storia dall’amato libro della favole (dove ci sono pure Mignolina e Maja) e ha cercato di farla dormire, mentre ancora tenta di calmare l’uomo, telefona di nuovo a Vidame e presto scappa per salvare la figlia, subito rincorsa; infine sugli ipotizzati passi dei genitori per le strade del quartiere, dopo poco trovando il papà in un capannello di pompieri e la madre tre metri più in basso, stesa sull’asfalto della superstrada con le braccia larghe in mezzo ad auto ferme. Trauma cranico, dice l’autopsia. Decide di dedicare tutta la lunga vita che ha di fronte a vendicarsi, solo a quello. Il padre è stato arrestato ma ce l’ha giustamente soprattutto con Vidame e, di conseguenza, con la sua famiglia. Cova per anni il fissato odio e una propria indagine su chi può sapere cosa sia veramente successo: la mamma si è gettata disperata o è stata spinta o è stata investita? Chi è il colpevole materiale ammesso che conti? Prima la mettono per sei anni alla Prairie sotto la supervisione dell’educatrice Béné e con l’amicizia della bellissima ribelle Nina; in seguito fa disastri, se la cava all’università, finisce anche in carcere, si riabilita; sempre con quell’obiettivo in testa, condiviso con amici e a tratti solitario, foriero di continue bugie e altri dispiaceri, indizi nuovi e scoperte sorprendenti, avventure e sventure, specie quanto il padre torna libero.
Lo scrittore già professore di geografia all’università (in aspettativa dal 2016) Michel Bussi (Louviers, 1965) vive sempre a Rouen in Normandia e pubblica ottimi gialli di successo da oltre una quindicina d’anni (avendoli cominciati a scrivere ben prima), finora mai seriali. Gli oltre quindici romanzi pubblicati hanno una precisa ricostruzione dei “luoghi”, veri o immaginati, in cui sono ambientati e una notevole completezza di riferimenti alle specie vegetali o animali oltre che ai confini istituzionali o amministrativi. Qui si concentra sulle terre natie e scopriamo molto su paesaggi affascinanti ed eventi tipici di Rouen. La narrazione è quasi tutta in prima persona al presente, pensieri, parole e dialoghi di Ophélie dagli occhi castani. I capitoli alternano gli interlocutori, lei racconta sempre a qualcuno di loro, dandogli del “tu” fino alla svolta del 1995. La quarta e ultima parte è ambientata nella seconda metà del 1999, sempre lei a raccontare, verso la fine con rari inserti dell’amica e del padre, quello che la loro cara Folette non potrà o dovrà “mai sapere”, a legittima differenza con noi lettori del giallo. Rilevante è il ruolo di nonna Mette che è di origini danesi (come Andersen) e vive beatamente sulla costa meridionale, pensa di potersi fare un poco carico di figlia e nipote solo a distanza, muore presto ma riesce comunque a lasciare tracce decisive. Ognuno dei “pezzi unici” ha trame estremamente arzigogolate, curiose e plausibili, usando vari marchingegni letterari di difficile trasposizione e replicazione, sono scritture da scienziato geografo più che da sceneggiatore sincopato. In questo bel romanzo molto ruota intorno alla gestione dei centri di accoglienza e assistenza agli orfani in Francia, con minime eccezioni pubblico e privato non ci fanno una gran bella figura. Il libro importante è quello rosso e oro delle favole, ognuna insegna qualcosa; ogni tanto appare ovviamente Il Piccolo Principe. Ophélie e Nina cominciano presto con la tequila, pur imparando a non disdegnare birra rossa e vino di qualità. Alla festa esplode la chitarra di Rock this Town degli Stray Cats.
La sesta estinzione. Una storia innaturale – Elizabeth Kolbert
Traduzione di Cristiano Peddis e Raffaella Vitangeli
Neri Pozza Vicenza – 2024 (2° ed. ampliata, 1° 2014)
Pag. 395 euro 19
Pianeta biodiverso. Ultimi 4 miliardi di anni e prossimi almeno quattro, circa. Da quando c’è vita c’è biodiversità sul pianeta. L’evoluzione non è stata né lineare né etica, rispondendo ad altri caratteri biologici e genetici, oltre che ai movimenti e alle migrazioni degli individui vitali delle varie specie, prima di altri regni, poi anche vegetali, poi anche animali, sempre più condizionate dall’invasività di alcune, da un certo momento in poi quelle umane, da un certo momento in poi e soprattutto di noi sapiens. Molto prima di noi (e dei mammiferi) sono avvenute forti restrizioni della biodiversità globale, scienziati di molte discipline concordano nel sostenere che vi sono state almeno cinque grandi estinzioni di massa. Oggi è in corso la sesta, pare che molto dipenda da noi. In precedenza, nessuna creatura ha mai alterato così tanto la vita sul pianeta, e tuttavia hanno avuto luogo altri eventi in qualche modo paragonabili, cinque appunto di natura talmente catastrofica che per loro è stata creata una categoria a parte, i cosiddetti “Big Five”. Si sta per compiere una trasformazione ancor più insolita e radicale. Dopo aver scoperto risorse sotterranee di energia, i sapiens hanno avviato un processo che modifica la composizione dell’atmosfera il quale, a sua volta, altera gli equilibri climatici e chimici degli oceani. Alcune specie animali e vegetali reagiscono spostandosi, riescono a migrare, perlopiù verso i due poli; altre si ritrovano abbandonate in ecosistemi ora con troppo poca acqua. Il tasso di estinzione cresce vertiginosamente e il modo in cui è strutturata la vita sul pianeta muta, un processo pericoloso per tutti i fattori biotici, meglio saperlo e reagire insieme.
L’ottima giornalista e scrittrice statunitense Elizabeth Kolbert (The Bronx, New York, 1961) pubblicò nel 2014, dieci anni fa, un saggio di grande successo mondiale, The Sixth Extinction. Dopo un breve prologo, l’autrice struttura il testo in tredici capitoli, ognuno dei quali segue le vicende in particolare di una singola specie (nome moderno e classificazione scientifica binomiale, dall’anfibio Atelopuss zeteki e dal Mammut americanum a noi Homo sapiens, il tredicesimo capitolo, mentre poi l’epilogo è stato scritto nel 2024), sotto certi aspetti emblematica. Le creature di cui parla nei primi quattro capitoli sono già scomparse, le servono a trattare le grandi estinzioni del passato e della complessa vicenda della loro identificazione, a partire dall’opera del naturalista francese Georges Courier (1769 – 1832). Il quinto capitolo inizia la seconda parte, sul presente, dichiarandoci “benvenuti nell’Antropocene” (prende spunto dal raro Dicranograptus ziczac): la sempre più frammentata foresta pluviale amazzonica, un versante della cordigliera delle Ande sottoposto a un rapido surriscaldamento, i raggi esterni della Grande Barriera Corallina, questi e gli altri luoghi studiati e visitati di persona dall’autrice per documentarsi e approfondire sul campo, riportando incontri con scienziati e comunità, nella consapevolezza che sarebbe potuta andare anche altrove per trovare analoghe tracce dei cambiamenti in atto. Un capitolo è dedicato alla moria di organismi in ogni eventuale giardino di ogni casa nostra. La riedizione contiene altri aggiustamenti e revisioni; il breve epilogo è stato scritto oggi, dieci anni dopo, e aggiorna ricerche e verifiche per ognuno dei luoghi visitati e per i dati complessivi della sesta estinzione in corso, rispetto alla quale la crisi demografica di alcuni paesi ricchi non incide. Prima o poi si decarbonizzerà, ma forse sarà troppo tardi per molti degli organismi che amiamo. Utili le foto, la scheda cronologica finale, insieme a note, bibliografia e indice analitico (segnalo il peso decisivo giustamente assegnato alle migrazioni dei sapiens).
La fabbrica delle ragazze – Ilaria Rossetti
Bompiani Firenze Milano 2024
Pag. 307 euro 19
Venerdì 7 giugno 1918. L’esplosione del polverificio della Sutter & Thévenot, fabbrica di munizioni di Castellazzo di Bollate (bombe per la fanteria dal novembre 1916) in Lombardia, fa cinquantanove vittime, quasi tutte donne e ragazzine. Fra di loro lavorava da un paio di mesi come operaia la ventenne Emilia Minora, assunta nel reparto inchiodatura manici e pulizia delle granate, accanto alla baracca spedizioni, uno dei quaranta edifici che componevano la struttura, costruita vicino al deposito militare e alla linea ferroviaria. Il padre è Martino, che ha appena compiuto quarant’anni ma ne dimostra molti di più, zoppo fin da ragazzino per via di una brutta caduta da cavallo, cammina storto e lavora male malato, perplesso quando il parroco don Antonio aveva suggerito quel posto per la figlia unica, “la piscinina”. La madre è Teresa, anche lei lavora da salariata nei campi ma la miseria è tanta, lei è favorevole, lo stipendio garantito in fabbrica serve alla famiglia povera. Emilia li salutava quando era ancora notte a Traversagna, partiva in bicicletta, una trentina di chilometri, poi su uno sgabello inchiodava centinaia di manici ogni giorno con le dita sottili, i capelli raccolti sulla nuca, spesso a piedi nudi con la gonna infagottata tra le ginocchia. Una accanto all’altra, talvolta si fanno compagnia con canzoni e cori. Per i genitori la vita si ferma quel venerdì, il corpo viene portato in ospedale a Milano, tutto è sospeso, Teresa va tutti i giorni al capezzale, Martino si dispera, la produzione riprende subito. Il 3 novembre 1918 il conflitto militare finisce e quel dì entrambi i genitori rivivono il dramma fra clamori e nuovi eventi, in particolare l’incontro con il giovanissimo disertore Corrado, che vuole raggiungere una possibile fidanzata in città.
Ottimo nuovo romanzo per la bravissima matura scrittrice Ilaria Rossetti (Lodi, 1987), capace di coltivare presto una precoce vocazione letteraria e sociale, confermandosi poi via via in molti successivi romanzi per l’impasto lirico di fatti accaduti con colori, odori, sapori, linguaggi, dialetti, umori e sentimenti popolari, qui di donne e uomini nella campagna del nord Italia in guerra, circa un secolo fa. L’esplosione ci fu davvero, uno dei due incidenti sul lavoro con maggior vittime nel nostro paese, ed Emilia Minora è uno dei nomi ufficiali delle donne morte, risulta negli archivi, era nata a Bollate e il suo corpo non fu mai trovato. Quasi tutto il resto, pensieri e cascine, personaggi e intrecci, sono fertile toccante invenzione narrativa, in terza persona al passato. L’episodio drammatico fu presto dimenticato non solo per le urgenze militari, nel mondo e anche in Italia gli incidenti sul lavoro (crimine di pace) sono una tragica colpevole costante e colpiscono spesso la sottovalutata occupazione femminile (da cui il titolo). L’autrice si è documentata e ha studiato la situazione della sicurezza sul lavoro in Italia, ha seguito le indagini d’archivio e fotografiche sugli ecosistemi dove sorgeva effettivamente la fabbrica smantellata nel 1919 e demolita. Segnala che uno dei primi a parlare letterariamente del disastro fu Ernest Hemingway, arruolato come autista dell’American Red Cross e inviato 18enne sul luogo dell’esplosione, in un racconto pubblicato poi nel 1938. Il vino è rosso e le canzoni sono quelle delle mondine e d’epoca (Sciur padrun, La bella la va al fosso, per esempio).
La donna che fugge – Alicia Giménez-Bartlett
Traduzione di Maria Nicola
Sellerio Palermo
2024 (orig. La mujer fugitiva, 2024)
Pag. 434 euro 17
Barcellona. Un autunno ai giorni nostri. L’ispettrice Petra Delicado e il suo vice Fermín Garzón stanno interrogando in commissariato Eduardo Bob Castillo Montes, quarant’anni tondi, celibe, nato a Madrigal de las Altas Torres ma trapiantato a Barcellona fin da ragazzo, psicologia all’università presto abbandonata, ormai ufficialmente cuoco, il potenziale indagato di un delitto più che un testimone. Due coltellate al cuore hanno ucciso Christophe Dufour, 38enne cittadino francese residente in Spagna, anche lui cuoco. Da precisi soci e grandi amici, insieme avevano avviato la gestione di un food track, uno di quei furgoni che vendono cibo di strada o specialità cucinate sul momento, di gran moda un po’ in tutto il mondo. I due si alternavano a dormirci dentro, l’altro in albergo, complementari pur se molto diversi: Christophe duro e combattivo, alto e bello, taciturno e donnaiolo di successo; Eduardo sensibile e gracile, divertente e logorroico. Poco dopo la mezzanotte qualcuno o qualcuna si era introdotto mentre Chris dormiva placidamente e lo aveva pugnalato. Bob non sa spiegarselo proprio. Ancor più quando viene fuori che la sera prima del delitto Chris aveva parlato a lungo con l’alta bella distinta cliente francese Nathalie Verreaux, con passaporto falso, che la stessa vittima si chiamava in realtà Pierre Laurent e girava con una falsa identità, anche lui con passaporto falso, e soprattutto che la cliente viene identificata come la 52enne Martine Marchand, una lista di precedenti penali da far paura (tutti connessi al traffico di stupefacenti), a capo di una importante rete di narcotraffico, ricercata dall’Europol, ancora a Barcellona con i suoi uomini alla ricerca di qualcosa e forse in fuga. Minacce e attentati continuano, sconvolgendo il gruppo del food truck; vi saranno inevitabilmente ulteriori indagini e altre morti; mentre Petra e Fermín fanno coppia fissa e hanno bisticci o guai pure in famiglia.
La bravissima Alicia Giménez-Bartlett (Almansa, 1951) è famosa per la serie gialla che ha protagonista l’ormai quasi sessantenne ispettrice Petra Delicado (una meticolosa attaccabrighe, ossimoro vivente), anche se ha scritto più di una decina di altri ottimi romanzi (1984-2015), saggi, racconti, articoli. Siamo giunti a oltre una ventina di avventure letterarie di Petra, fra racconti brevi o lunghi e romanzi, questo dovrebbe essere l’undicesimo della serie oltre all’originale ”autobiografia” (fra il 1996 e il 2024), narrate in prima persona al passato, descrivendo assassini e contesti criminali di ogni sorta, ambientate in tanti quartieri della capitale catalana (salvo sporadiche parziali eccezioni), con frequenti parodie sul genere: il vice coprotagonista vecchietto e grassottello, le tecniche investigative “adattate” agli intuiti femminili, i tic dei differenti personaggi. Il titolo certo riguarda esplicitamente la francese, che tuttavia non è l’unica donna che fugge, in parte richiama altri personaggi femminili, in parte la stessa Petra, perennemente scettica e senza figli, ormai felicemente convolata a terze nozze con il buon architetto Marcos (quattro figli dalle due precedenti mogli), il quale sembra qui essersi conflittualmente fissato con l’andare a vivere fuori città. L’autrice è rimasta vedova poco tempo prima della stesura del romanzo e ha spiegato: “tutte le donne scappano quando hanno un problema che potrebbe far soffrire chi le ama, preferiscono stare male loro, piuttosto … Mi sono riparata in mezzo a queste pagine per curare il mio dolore”. Impariamo qualcosa sulle belle cittadine intorno a Barcellona dove via via si sposta il mondo dello street food (chioschi ristoranti); i coniugi vicini di truck Elisenda e Javier lo fanno vegetariano, molto appetitoso; Fermín assaggia spesso con gusto, riflettendo sulle donne affette da “sindrome della mamma”. Petra si riempie di sgomento verificando la quantità di manifestazioni che si svolgevano intorno a lei senza che ne sappia nulla né che sia mai stata tentata di andarci. Non è la sola. Birra e liquori in frequenti occasioni, a Tortosa vino rosso per i famosi sanguinacci chiamati baldanas.
La ballata delle frontiere. Storie del secolo breve – Flavio Fusi
Prefazione di Giovanni Floris
Exòrma Roma 2024
Pag. 273 euro 16,50
Tra e dentro le frontiere. Nell’ultimo trentacinquennio, circa. A Sarajevo, per esempio, una decina di anni fa, anche per salutare i morti lungo la vigna pietrificata del cimitero di Kovaci, alcuni incontrati vivi fra il 1992 e il 1995. Le vecchie frontiere sono ormai dissolte, la Storia ha ripreso a macinare i suoi giorni uguali e dalle opposte sponde del fiume i casermoni di Lukavica e i bassi condomini di Grbavica si fronteggiano inerti, il silenzio rotto dalla gazzarra intermittente dei corvi che planano sull’acqua ferma e risalgono in schiera verso le nuvole cariche di pioggia. Dopo vent’anni (nemmeno un capitolo nei libri di storia) i segni della guerra e dell’assedio sono scomparsi, e quel che resta sono pallide cicatrici su un corpo che vive, che vive nonostante e nella quotidiana negazione del passato: il corpo dei sopravvissuti, insieme all’esercito sempre più numeroso di chi non ha conosciuto quella storia e non ha vissuto quel passato, ogni giorno chiamato a venire a patti con un presente di modeste aspirazioni e di piccole gioie e delusioni domestiche. Flavio Fusi prese lì da Milosz il suo talismano, trovando nella sua bottega un vecchio portasigarette di latta laccato di rosso, con impresso l’orso coronato simbolo di Berlino e il disegno stilizzato della città divisa in zone militari come appariva alla fine della Seconda guerra mondiale. Osserva spesso ancora l’ingenua presunzione di quell’oggetto di descrivere lo stato del mondo. Proprio dalla caduta del muro andrebbe raccontata un’aggiornata ballata delle innumerevoli frontiere del pianeta nel secolo belva (dopo quello “breve”), come nel caso del Kazakstan che condivide con la Russia una frontiera lunga quasi settemila chilometri e ha dato asilo a più di 200mila profughi, prestando attenzione ai semplici personaggi giusti e alle colte letture belle che le riguardano.
Il grande giornalista Flavio Fusi (Massa Marittima, 1950), firma giovane dell’Unità e volto storico del TG3, inviato in teatri di conflitti in tutto il mondo, pubblicò “Cronache infedeli” nel 2017 e definisce ora la nuova raccolta di storie una “officina di lavorazione”, il resoconto meditato di un lungo viaggiare, attraverso crisi e guerre, innumerevoli geografie, migrazioni di popoli e di intere comunità. Attraverso la “libertà dello scrivere” l’autore descrive vari paesaggi della geopolitica, dissezionati in una geografia aperta e complessa, dall’Ucraina aggredita agli altipiani del Perù, dalle fosse comuni delle guerre di Bosnia all’Argentina della dittatura dei colonnelli, impastati con le proprie memorie più antiche, con i sogni di ragazzo giornalista e le delusioni di uomo maturo, con molte letture e citazioni da alcuni amati libri. Tutte le strofe del “ballo” partono da una parola che incarna lo spirito selvaggio del nostro tempo: la frontiera (da cui il titolo): frontiere di roccia, frontiere di sabbia, frontiere di boschi, frontiere e trincee, frontiere di mare e fiumi, ovvero “tierra y fuego, agua, aire compacto”, come dice una canzone che parla di migranti in cerca di vita e di futuro dal Messico alla terra promessa degli Stati Uniti, analoghi a quelli che vediamo attraversare il Mediterraneo verso le nostre inossidabili fortezze e certezze. Infine frontiere mentali e spirituali, “noi e loro”. Il capitolo iniziale si chiama “sull’orlo”, i successivi dieci: Fondazione (Berlino, appunto); Canto delle fosse; Geologia dell’impero; Diamanti e ruggine; Negritudini (qui accenna al Sudafrica e all’aprile 1994, quando credo di averlo incontrato mentre nelle piazze aiutavamo a issare le nuove bandiere del paese democratico); L’infanzia di Ivan; Mio secolo, mio belva; Cronache dal sottosuolo; Stanca di guerra; Amate ossa; Canto delle balene. In fondo a ciascuno qualche riferimento bibliografico e letterario. Osserva Floris nella prefazione: “gli inviati come Flavio Fusi sono intellettuali capaci di interpretare il Mondo”. Fusi racconta “ma solo dopo essersi preso la responsabilità di capire”.
Il mondo dello zucchero. Come le cose dolci hanno trasformato la nostra salute e il pianeta – Ulbe Bosma
Traduzione di Valentina Palombi
Einaudi Torino 2024 (orig. 2023)
Pag. 521 euro 34
Luoghi di cibo. Da centinaia di anni. Lo zucchero granulato non ha più di 2500 anni, quello bianco cristallino è ancora più recente visto che si cominciò a produrlo circa 1500 anni fa in Asia, come bene puramente voluttuario, simbolo di potenza e ricchezza. Il comune zucchero bianco ha impiegato molto tempo a diventare un prodotto di uso quotidiano, perché è difficile da fabbricare (molto più del sale). Ci vogliono ingegno e pazienza per estrarre dal materiale vegetale la complessa molecola del saccarosio, un disaccaride risultante dalla condensazione di due molecole, una di fruttosio, più dolce, e una del meno dolce glucosio. Lo zucchero bianco da tavola così ottenuto era un bene di lusso ancora duecento anni fa, quando lo si produceva in piccoli quantitativi mediante un lungo e costoso processo artigianale. Negli ultimi sette secoli è divenuto via via un ingrediente utilizzato in un numero crescente di piatti in tutto il mondo, furono gli europei a trasformarlo in una merce globale. Poi la storia è divenuta quella dell’industria saccarifera coloniale e lo zucchero ha cambiato radicalmente il nostro modo di nutrirci, ha influito profondamente sui rapporti umani attraverso il suo antico legame con lo schiavismo e ha prodotto un vasto degrado ambientale. Ancor oggi enormi fabbriche munite di giganteschi frantoi, bollitori e centrifughe trasformano nel giro di poche ore enormi quantità di canna o barbabietola in candidi cristalli di zucchero. La storia del capitalismo saccarifero inizia in Asia, si sviluppa molto a Cuba e a Giava e in altri paesi, spesso grazie alla chimica e all’ingegneria. Lo zucchero è diventato un ingrediente presente in tutto quello che oggi di produce di commestibile, con tanto sfruttamento, razzismo, obesità e inquinamenti.
Lo studioso olandese di storia sociale internazionale comparata Ulbe Bosma (1962) ha realizzato una meticolosa ricostruzione delle origini e degli sviluppi della potente industria saccarifera mondiale. Il successo alimentare dello zucchero è anche la storia di milioni di operai impegnati in un lavoro massacrante, nei campi e nelle fabbriche. È la storia della resistenza dei lavoratori, un tempo schiavi e oggi salariati, e di milioni di coltivatori che hanno continuato a realizzare da sé zucchero grezzo piuttosto che portare il loro raccolto nei mulini dei grandi produttori. Questi grandi industriali provenivano da un contesto nazionale ed etnico diverso (occidentale) ma erano quasi sempre nati e cresciuti ai tropici e operavano spesso all’interno di reti familiari chiuse; furono tra i primi ad applicare il motore a vapore e le più rivoluzionarie scoperte della fisica e della chimica alla manifattura dello zucchero raffinato; costituirono una vera e propria borghesia coloniale dello zucchero; crearono imponenti cartelli e sfruttarono senza pietà la manodopera e la natura. Fra la metà e i due terzi dei 12,5 milioni di africani deportati durante la tratta degli schiavi erano destinati alle piantagioni di zucchero; alla fine degli anni sessanta del XIX secolo, metà dello zucchero consumato dal proletariato industriale in Europa e in America del Nord era prodotto da persone ridotte in schiavitù. I quattordici capitoli contengono dati e informazioni dettagliate sui capitali finanziari e sui lavori umani dell’industria saccarifera, potente ancor oggi nel condizionare le politiche governative; vi sono riferimenti alla scienza e alla geopolitica, tuttavia soltanto quelle funzionali al tema (riassunto dalla cronologia, dai personaggi principali e dall’elenco delle illustrazioni prima dell’introduzione). Mancano riflessioni sui carboidrati (e sul diabete) nella storia delle specie e di noi sapiens (gli scienziati Willis, Langerhans o Banting non sono citati). Ottime le note e gli indici (nomi e luoghi) in fondo al testo.
Città in rovine – Don Winslow
Traduzione di Alfredo Colitto
HarperCollins Milano 2024 (orig. City in Ruins)
Pag. 458 euro 22 (fine della trilogia)
Las Vegas, Nevada. Giugno 1997 – fine 1998. Danny Ryan, cuore tenero e spalle larghe, un metro e ottantatre, capelli castani ribelli verso il rossiccio, ormai è quasi quarantenne. Abbiamo già seguito le sue vicende tumultuose, prima fra l’agosto 1986 e il Natale 1988, poi dalla fine del 1988 all’aprile 1991, sopravvissuto a stento. Lo ritroviamo socio multimilionario e responsabile di fatto di due hotel sulla Strip di Las Vegas, una villa in città e uno chalet nello Utah, però scontento, vuole di più, gli piace progettare e intende mantenere lontani da sé e da tutti i ricordi del proprio passato, continuando a non rimescolarsi con le mafie attive. Duramente ferito dalla perdita dei due grandi amori della vita, morti giovani la moglie Terri (per malattia) e l’attrice Diane (suicida), ora frequenta con reciproco piacere in una stabile relazione, segreta per reciproca scelta, la bella introversa psicologa ebrea Eden Landau, capelli neri, labbra piene, occhi luminosi, divertente spiritosa affascinante, appagata dai tanti studenti e pazienti, gran lettrice a sua differenza. Il figlio Ian ha dieci anni, sta spesso con la potente regale nonna Madeleine McKay, riceve per la gran festa di compleanno una mountain bike e la promessa di una settimana intera fuori casa, solo con il padre, in macchina, in bicicletta e a piedi, in campeggio mangiando cibi spazzatura in ristoranti e fast food. Danny si destreggia fra i due partiti statunitensi con regalie e mediazioni, pur di non essere indagato e di poter comprare nuovi alberghi da ristrutturare per costruire sogni. La concorrenza e la lotta si fanno più aspre, molti reclamano colpi duri e bassi oltre che di fioretto; ricompaiono antichi complici criminali, sodali mafiosi e potenti Dea-Fbi; vengono richiamate squadre e assoldati killer; molto si frantuma, la vita si fa rischiosa per tutti, gli omicidi risorgono a grappoli; i processi e le storie del New England e della California non sono mai finite, dai sogni restano rovine. Forse. Lo scopriremo in una coda del 2023.
Terzo magnifico atto della trilogia in due anni (tutta scritta col medesimo elegante incedere, ora quieto ora adrenalinico) dell’eccelso scrittore americano Don Winslow (New York, 1953) che all’uscita del primo repentinamente annunciò (e sempre confermato) il successivo ritiro dalle scene letterarie. Il libro è disponibile in contemporanea in decine di paesi, subito avanti nelle classifiche, a primavera 2024 Winslow sta gioendo per il notevole successo di critica e di pubblico in un ultimo giro di presentazioni per Usa ed Europa (anche Italia), mentre si sfinisce dedicandosi giustamente a tempo pieno a impedire la possibile rielezione di Trump nel 2024. Gli e ci appare sempre più urgente e difficile. Come spesso in precedenza, la narrazione è in terza varia al presente, anche qui vi sono tre parti (“La festa di compleanno di Ian” fino all’acquisto del cruciale albergo Lavinia; “I poteri dell’inferno”, dalla vendetta escogitata dalla vicedirettrice FBI all’accidentale morte del figlio del rivale; “Le regole della giustizia” sui tanti mesi delle guerre giudiziarie, finanziarie e materiali); le prime due con esergo tratto dall’Eneide di Virgilio, mentre nella terza parte ci sono Le Eumenidi di Eschilo (anche queste terze della finale trilogia), decisamente noir; l’epilogo è ancora con Virgilio (contemporaneo e a Casa); ognuna con vari capitoli (in tutto centodue, molti brevissimi) e ficcanti dialoghi, che ricostruiscono quanto trascorso dai vari punti di vista e seguono in diretta i tanti personaggi su molteplici scene e fronti. Volutamente, niente di esatto storicamente, tutto plausibile venticinque anni fa, minuziosamente basato sulla classica antichissima epopea di Enea. Di continuo l’autore dispensa efficaci misurati coinvolgenti inserti biografici, funzionali alla storia (Stavros è diabetico), in particolare anche qui su personalità cruciali nel dipanarsi degli eventi, spesso donne. Eden sa che Danny è innamorato del proprio dolore, attaccato al romanticismo delle sue tragedie; sono la sua definizione di sé, che se ne renda conto o meno; non si libererà mai della sua tristezza, non saprebbe cosa fare. Non è il solo. Vino rosso, birra o whisky, dipende. Per riflettere il notturno di Chopin; non per Danny affascinato dal più grande poeta americano contemporaneo, il boss Bruce Springsteen. Su Winslow ho scritto saggi (fra l’altro sul magazine scientifico patavino: https://ilbolive.unipd.it/it/news/don-winslow-alta-letteratura-politica-quotidiana-1, https://ilbolive.unipd.it/it/news/don-winslow-alta-letteratura-crime-politica), intanto il terzo non è meno capolavoro del primo e del secondo, pur ormai con qualche ripetizione di stile. Imprescindibile, da leggere. Finirà presto sugli schermi.
De gustibus. Sul gusto negli esseri umani e negli altri animali – Davide Risso e Gabriella Morini
Prefazione di Enrico Crippa
Topic Roma 2023
Pag. 143 euro 22
Mangiando. Con (o senza) gusto. Sono cinque i gusti fondamentali: dolce, salato, acido, amaro, umami. I loro sensori sono innanzitutto vista e olfatto, poi dalla bocca in giù. Meglio capirci qualcosa al di là delle preferenze individuali. Le piante non sono come gli animali, sono fotoautotrofe e producono tutti i composti necessari al proprio metabolismo, trasformando in composti organici (contenenti carbonio) i composti inorganici come azoto, zolfo, fosforo, sali minerali, acqua (presi dal suolo) e l’anidride carbonica (presente in atmosfera). Noi, invece, come gli altri animali, siamo organismi chemoeterotrofi, ricaviamo energia e molecole di partenza tramite l’ingestione, la digestione e l’assimilazione di composti chimici diversi, che poi “bruciamo” (ossidiamo) producendo anidride carbonica. Più o meno il contrario delle piante. Dobbiamo inoltre “introdurre” altri composti indispensabili al nostro metabolismo (amminoacidi, acidi grassi, vitamine, minerali, acqua), che non siamo in grado di produrre. Abbiamo bisogno di vario cibo “chimico”, costituito pure da altre specie viventi (animali e/o vegetali). Anche da ciò si comprende l’essenzialità del contesto ambientale e dell’ecosistema in cui esistiamo ora, sopravviviamo mangiando, ci riproduciamo. Nel corso della nostra evoluzione sapiens noi abbiamo introdotto il lusso del decidere attraverso cosa cibarci (la nutrizione), come e quando collocare l’atto del mangiare (l’alimentazione), collettivamente e per certi versi individualmente. Si chiama chemorecezione il processo attraverso il quale il nostro organismo “riconosce” e sceglie le molecole. I sensori che abbiamo nel naso e in bocca (per lo stimolo dei vari gusti e per il sapore complessivo finale) sono presenti (anche se ce ne accorgiamo meno) in altri parti del corpo. Avere gusto influisce sul benessere.
Il giovane ricercatore di scienze molecolari del gusto Davide Risso (Alba, 1989) e l’esperta docente di Scienze del Gusto e del Cibo Gabriella Morini (Como, 1964) hanno scritto insieme un saggio interessantissimo, utile a tutti noi mangianti, sempre e comunque, in particolare a coloro che vogliono continuare a nutrirsi godibilmente con cognizione di causa. Non a caso la prefazione è affidata a un famoso cuoco. Il titolo è l’inizio di una popolare locuzione latina non classica (De gustibus), il completamento (non est disputandum) qui non serve perché non si tratta di preferenze personali ma di basi scientifiche, opportune sia per il mangiare buono pulito giusto che per la salute complessiva. Il tono è discorsivo, scelta accentuata dal non allineamento a sinistra delle pagine. Spiegata la chemorecezione, il testo si articola in capitoli con brevi paragrafi (le note bibliografiche raccolte in fondo): i gusti fondamentali (cinque appunto) e i loro sensori (la mappa della lingua non esiste, per quanto se ne parli ovunque, anche nei corsi per sommelier); una vita amara (ma non per tutti); il gusto oltre la bocca (poi polmoni, cuore, stomaco, pancreas, fegato, intestini, reni, apparato genitale e urinario); la lezione del caldo (e del piccante); la lezione del freddo (e della temperatura); vampiri dei nostri giorni (o del perché ci pungono); strane abitudini (come toccare con gusto, assaggiare con i piedi, inghiottire senza masticare, riconoscere gustando); morti, resurrezioni e conversioni (o dell’evoluzione biologica); dulcis in fundo (l’amato prezioso gusto dolce può essere regolato, anche tolto). Utilissimo indice analitico, con i nomi scientifici, alcuni scienziati e inventori, tanti cibi e bevande, qualche assenza (per esempio diabete o fermentazione, pur trattati).