Matrimoni per forza, non per amore
Intervista di Valentina Casciaroli a Tiziana Dal Pra (*)
Il 25 novembre si celebra la «Giornata contro la violenza sulle donne», una violenza che ha mille declinazioni: femminicidi soprattutto a opera di mariti ed ex compagni (solo in Italia accade a una donna ogni 3 giorni); in altre zone del mondo, come ad esempio in India, la cronaca ci porta molti casi di donne sfregiate con l’acido; in altri Paesi ancora la violenza si concretizza in una totale segregazione del mondo femminile e nel negare l’accesso all’istruzione e ai diritti fondamentali.
I matrimoni forzati sono una di queste forme di violenza e negazione dei diritti, molto spesso ai danni di minorenni. Abbiamo intervistato Tiziana Dal Pra, presidente dell’associazione «Trama di Terre», una onlus che si occupa di donne straniere provando ad affrontare una problematica globale in chiave locale.
Per forza, non per amore; si chiama così il progetto avviato dall’associazione «Trama di Terre» in Emilia Romagna contro i matrimoni forzati. Come e perché è nata questa iniziativa?
«Le donne migranti, con cui la nostra associazione lavora da sempre, molto spesso ci pongono le stesse istanze delle donne italiane, a volte però le loro problematiche sono più complesse. Un esempio è proprio quello dei matrimoni forzati, questione che siamo riuscite ad intercettare vivendo la nostra quotidianità insieme a loro: durante le mediazioni scolastiche che abbiamo condotto le insegnanti ci raccontavano di ragazze straniere che non mangiavano più, non studiavano più, alcune addirittura tentavano il suicidio. Queste adolescenti, che frequentavano gli ultimi anni delle medie o i primi delle superiori, avevano paura di tornare nei loro paesi di origine durante il periodo estivo. Perché è solo in quei Paesi che avvengono i matrimoni precoci, in Italia le spose bambine non esistono, esistono al massimo le promesse spose bambine. È a questo punto che abbiamo deciso di agire: nel 2009 abbiamo pubblicato uno studio esplorativo sul fenomeno e nel 2011 abbiamo aperto la nostra Casa contro la limitazione delle libertà personali delle donne e contro i matrimoni forzati per ospitare le vittime».
Quali strumenti avete individuato per contrastare il ricorso ai matrimoni forzati? Quale percorso avete proposto alle vittime? È possibile tracciare un bilancio di questa esperienza?
«In due anni abbiamo accolto 10 ragazze dai 17 ai 24 anni provenienti da Pakistan, India, Bangladesh, Sri Lanka, Albania e Tunisia. Una di loro ha portato con sé una bambina di tre anni mentre altre due sono diventate mamme mentre si trovavano nella nostra struttura. Oltre a dare loro ospitalità abbiamo provato ad adottare strategie di intervento mirate e abbiamo capito che il miglior modo per aiutare le vittime dei matrimoni forzati è ascoltarle, prendere sul serio ciò che dicono e rispettare le loro scelte. Sono pochissime, infatti, quelle che si rivolgono alla polizia, perché denunciare un matrimonio forzato significa denunciare il proprio padre e la propria madre. Al termine di questi due anni molte sono andate a vivere da sole e hanno trovato un lavoro, altre hanno deciso di tornare in famiglia, altre ancora dai loro compagni. Nel nostro percorso abbiamo fornito a tutte gli strumenti per essere consapevoli della propria situazione e per affrontarla, poi è ovvio che ogni donna fa la propria scelta… Noi all’autodeterminazione ci crediamo per davvero. Se le inducessimo ad allontanarsi dai loro contesti di origine faremmo la stessa cosa che hanno sempre fatto i loro mariti o le loro comunità: le priveremmo della libertà di scegliere».
Nello studio esplorativo condotto dalla vostra associazione è riportato un ampio dibattito sulla distinzione tra matrimonio forzato e matrimonio combinato. Quali sono le principali differenze?
«Il matrimonio forzato è sempre combinato, mentre non è vero il contrario. Mi spiego: il matrimonio combinato è deciso quando i futuri sposi sono ancora molto giovani, ma spesso conoscendosi vi è anche un’adesione all’unione da parte loro. Il matrimonio forzato, invece, prevede che ci si sposi senza il consenso degli interessati. Le ragazze vengono riportate nel loro Paese di origine con l’inganno, i padri riferiscono che la nonna sta morendo o che il cugino prediletto si sposa, e lì vengono costrette al matrimonio: se dicono no vengono minacciate di morte e in certi Paesi la minaccia è molto concreta, perché ci sono zone del mondo dove la vita di una donna non vale niente».
I matrimoni forzati rappresentano una tradizione molto radicata in alcune culture. Quali sono le nazionalità più interessate? Come siete riusciti a coinvolgere le comunità in una riflessione sull’opportunità di questa pratica?
«India, Bangladesh, Sri Lanka sono fra i Paesi più interessati. Preciso che questo fenomeno non è legato all’Islam, né più in generale ha a che fare con la religione, ma con un modello di società patriarcale. Le donne straniere subiscono una forte pressione familiare e sono spesso rassegnate al loro destino; noi italiane/i invece, attaccati al nostro relativismo culturale, abbiamo difficoltà a riconoscere che quando parliamo di matrimonio forzato parliamo anzitutto di stupro e di violenza di genere.
Io credo che sia necessario agire anzitutto nelle scuole e in quelli che noi chiamiamo i non-luoghi come biblioteche e centri di ritrovo. Molti ritengono che occorra lavorare con le comunità di appartenenza, ma è sbagliato, perché sono proprio quelle comunità a fungere da controllo totale per la vita delle donne. Le persone con cui occorre impegnarsi di più in assoluto sono le mamme: spesso vittime di violenza a loro volta (si pensi alle mutilazioni genitali) decidono che anche le figlie subiscano la stessa sorte. Oppure, come è accaduto qualche anno fa a Novi, in provincia di Modena, le mamme possono spezzare la catena della barbarie. Pagandone le conseguenze: Begm Shnez è stata uccisa a sassate dal marito perché difendeva la figlia».
I matrimoni forzati sono considerati una forma di discriminazione contro le donne in base alla Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948 e alla Convenzione di Istanbul (ratificata dall’Italia nel 2012). Eppure anche gli uomini possono rimanere vittime di matrimoni forzati, soprattutto se ancora bambini. È possibile dire che i matrimoni forzati, oltre che una violenza di genere, sono anzitutto una violazione dei diritti dell’infanzia?
«A mio parere no. Sono soprattutto le donne a rimanere vittima di matrimoni precoci, i loro mariti invece sono tutt’altro che giovani. Indubbiamente esiste qualcosa di violento anche per questi uomini, penso ad esempio a un pakistano che si è ribellato alle scelte della famiglia ed è scappato… Attenzione però: questi uomini possono dire di no, sono loro che detengono il potere. Ciò che accade in un matrimonio forzato è veramente impari: è il maschio che violenta e la donna che viene violentata. Per questo sostengo che il matrimonio forzato è una manifestazione di estrema violenza patriarcale contro le donne».
(*) http://www.gruppoabele.org/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/7371
L’IMMAGINE QUI SOPRA E’ STATA RIPRESA DI RECENTE DA «TRAMA DI TERRE» PER ALCUNE INIZIATIVE.