Mauro Antonio Miglieruolo: perché amo «Grande Sertão»
Il meglio del blog-bottega /112…. andando a ritroso nel tempo (*)
Leggendo le 12 dichiarazioni d’amore verso i libri pubblicate il 23 maggio 2011 nel super blog di Daniele Barbieri, mi è venuta voglia di scriverne una anche io. Parlo di amore vero, di amore sviscerato, non di semplice predilezione. Parlo del libro della vita, di uno che, a mio parere, non ha uguali nel Novecento: Grande Sertão di João Guimarães Rosa.
Come tutte le storie d’amore che si rispettano la passione per questo libro
ha la sua giusta origine casuale e un tormentato avvio.
Dove, come e quando ho reperito il libro (sicuramente frutto del mio continuo rovistare sulle bancarelle dell’usato) non saprei dire. Rammento solo di averlo tenuto a disposizione per anni, fino al 1994 circa, in vari luoghi della casa, senza mai effettuare un serio tentativo di affrontarne la lettura. O piuttosto senza mai effettuare un serio tentativo di venire a capo delle difficoltà che mi sembrava riserbasse (si è poi dimostrato che non ne conteneva nessuna: si trattava solo di resistenza mia all’innamoramento). Capitava spesso infatti, credo sia successo una decina di volte, di aprirlo e, lette alcune frasi, di chiuderlo non so se più quanto annoiato o indisponibile nei confronti di quelle inaudite prime righe: “Nonnulla. I colpi che vossignoria ha sentito non erano di rissa di uomini, no, Dio ne guardi. Ho sparato contro un albero, dietro della casa, dalla parte del torrente. Per esercizio. Lo faccio tutti i giorni, mi piace: fin da quando era appena un ragazzo. E lì, son venuti a chiamarmi. Per via di un vitello: un vitello bianco, erratico, gli occhi che manco un cristiano – che era apparso; e con faccia di cane. Così m’hanno detto. Io non l’ho voluto vedere.” (João Guimarães Rosa, Grande Sertão – Feltrinelli 2003)
La svolta nel 1994, al ritorno da uno dei miei favolosi viaggi in Messico, il ritorno peggiore di tutti, in un momento pieno di infelicità, essendomi appena giocata la primogenitura per un piatto di lenticchie. Il testo mi capita miracolosamente nelle mani (è l’edizione precedente a quella di cui qui presento le immagini e le citazioni, rovinata dalle troppe riletture e smarrita nell’eterno disordine in cui ordinariamente seppellisco il meglio di me stesso). Lo apro e per giorni e poi settimane non riesco più a staccarmene. Trovo nel libro tutto ciò che, secondo me, cultore sorgivo della fantascienza, deve contenere un libro. Anzitutto la vita, per quello che è, ma anche per quello che dovrebbe essere. Poi il sogno. L’epica. Il senso della storia. La storia come civilizzazione. Grandezze e miserie umane. Le donne, gli uomini, le armi, le audaci imprese. E il piacere, la tragedia, la fragilità umana, il trascorrere del tempo, la morte e la resurrezione.
Affascinato dal testo, dall’enorme romanzesco diffuso a piene mani e piena sapienza, affascinato dalle soluzioni linguistiche, dalla forza dei personaggi (veri giganti: Zé Bebelo, ad esempio, o Sor Candelario), dal fluire della vita, dalle passioni e dalle illusioni che riempiono ogni pagina, quasi ogni momento dello scritto, lo ripercorro più volte dalla prima all’ultima riga: ma anche da una pagina qualsiasi fino a qualsiasi altra. Segno evidente della capacità di coinvolgimento del testo, che magari non ti prende (non subito: così è accaduto al me che scrive), e però quando ti prende non ti lascia più andare.
Non posso, forse neppure voglio riassumere la trama del libro, troppo complesso da affrontare. Posso solo minimizzare affermando si tratta di un classico testo di iniziazione nel quale il protagonista scopre se stesso e l’insieme di inganni che lui come noi tutti immaginiamo (ingannandoci) essere il vero senso della vita; il cui imbroglio scopriamo troppo tardi per potercene guardare. Non siamo che canne al vento, che una qualsiasi piena può sradicare e portare a valle.
Mi limiterò pertanto, dopo aver minimizzato con la sintesi complessiva (romanzo di iniziazione) a allargare la prospettiva attribuendo non al Riobaudo “Io narrante” la funzione di protagonista, ma proprio al luogo dove si svolge il più delle esistenze narrate: il Sertão. Recita l’ultima di copertina: “Favoloso altipiano del Brasile profondo, deserto-brughiera dei Campos Gerais rinverdito di improvvise palme giganti, il sertão di Guimarães Rosa è uno spazio magico percorso nell’intrico dei suoi sentieri da santoni e banditi, popolato di mandrie e di piccoli uomini dai nomi altisonanti come eroi di saghe remote.” Ma non è il sertão a essere metafora del mondo (come più avanti l’ultima di copertina afferma), lo è il combinato disposto del luogo vero/immaginario che ospita la vicenda (le vicende) più l’Io narrante protagonista Riobaudo e il coprotagonista Reinaudo, anima sua e sua guida e meta. È l’insieme di questi tre elementi a comporre quella metafora del mondo a cui più avanti l’ultima di copertina allude; metafora che poi non è altro che sintesi di tutte le storie che tutti gli uomini, da quando l’umanità ha iniziato a raccontare, hanno inventato e narrato. Sintesi della vita e di quell’aspirazione a una vita più alta e piena di senso alla quale attraverso l’arte ogni uomo (in ogni uomo c’è l’aspirazione all’arte) cerca di approdare.
Non nascondo che l’amore per il libro è frutto in gran parte dell’amore per i suoi personaggi. Alcuni nomi li ho già fatti: Sor Candelario, che “bisognava temere per quant’era lungo”, sorta di rustico brigante votato alla morte e ai principi della lealtà e dell’onore; Riobaudo “Tatarana”, che inizia fanciullo e diventa poi Capo dei Capi, sorta di re del sertão; Reinaudo il cui nome segreto è “Diadorim” (nome che lui stesso affida alla discrezione di Riobaudo), persona che non conosce paura (ma sì la passione, l’odio, la furia e la vendetta); Zé Bebelo, testa fina, uomo di grandi energie e iniziative, che finirà con il salvare Riobaudo, dopo essere quasi stato sul punto di tradirlo. Titone Passos, gigante buono, che sapeva attendere aspettando che il “tempo diventasse cosa”; bandito per sbaglio, probabilmente. E poi ci sono i tanti altri non nominati: il cattivo per antonomasia, l’Ermogene con il compare Riccardone, che costerà tanto eliminare; Joca Ramiro, nobilissimo capo dei briganti del Sertão, una sorta d’uomo d’onore dei tempi che furono, se mai vi furono; Otacilia, creatura di bellezza, donna di casa, alla quale far fare figli e accompagnare in chiesa la domenica, che scatena la gelosia di Diadorim e crea l’unico dissapore tra quest’ultimo e Tatarana. Per finire nella congerie dei tanti compagni di ventura o sventura: il Fafafa, Alaripe, Sesfredo, il Vupes, il Quipes, sor Ornelas, Gnorignà, Gian Butterato, Gian Goagnà, Gianni Curiol, il Giribibe, Selorico Mendes e i tanti altri che occorrerebbe una intera pagina per poterli citare; insieme ai luoghi dai nomi astrusi e poetici che hanno contribuito a evocare ricordi d’infanzia: Curralino, Barbaragna, Santa Caterina, il deserto dell’Onza Rossa, Porto Passerino, I-Porci (remoto luogo che ha dato i natali a Diadorim). Su tutti campeggia quello di “Compare Clemente” il cui nome aleggia in vari punti del romanzo senza mai essere mostrato, per poi comparire alla fine e dare possibilità alla sua funzione di realizzarsi: sciogliere i nodi del dolore e permettere la catarsi di Riobaudo; e con la sua quella di noi tutti.
Un romanzo che è molti romanzi insieme, che è la dimostrazione (lo dico in aperta polemica con tanti intellettuali di casa nostra) a quali alti traguardi possa addivenire il romanzesco e l’avventuroso, anche quello considerato di infimo ordine (vedi il western, a esempio), una volta che sia trattato “come si deve” dalla penna di scrittori di qualità. Si ridetto una volta per tutte, l’ultima delle tante che seguiranno: non è il genere a determinare il valore di un libro, lo è la tempra dello scrittore. E la capacità di abbandono del lettore.
Concludo con una seconda breve citazione dal romanzo (pag. 241): “Mi venne nostalgia di qualche palmeto di buritìs, andando per una vereda, dall’erba ultraverde, fino al pianoro. Una nostalgia di quelle che rispondono al vento, nostalgia dei Gerais. Vossignoria vede. Il rigirare del vento nelle foglie di tutti i buritìs, quando c’è minaccia di tempesta. Qualcuno se lo può dimenticare? Il vento è verde. Lì, nell’intervallo, uno prende il silenzio e se lo mette sulle ginocchia. Io sono di dove nacqui. Sono di altri luoghi. Ma, là, a Guararacavan io stavo bene. C’era anche il bestiame che pascolava, mio vicino, odore di buoi sempre dà allegria”.
Procuratevi il libro. Siate ostinati, leggetelo. Non ve ne pentirete.
(*) Anche quest’anno ad agosto la “bottega” recupera alcuni vecchi post che a rileggerli, anni dopo, sono sembrati interessanti. Il motivo? Un po’ perché circa 12mila articoli (avete letto bene: 12 mila) sono taaaaaaaaaaanti e si rischia di perdere la memoria dei più vecchi. E un po’ perché nel pieno dell’estate qualche collaborazione si liquefà: viva&viva il diritto alle vacanze che dovrebbe essere per tutte/i. Vecchi post dunque; recuperati con l’unico criterio di partire dalla coda ma valutando quali possono essere più attuali o spiazzanti. Il “meglio” è sempre soggettivo ma l’idea è soprattutto di ritrovare semi, ponti, pensieri perduti… in qualche caso accompagnati dalla bella scrittura, dall’inchiesta ben fatta, dalla riflessione intelligente: con le firme più varie, stili assai differenti e quel misto di serietà e ironia, di rabbia e speranza che – speriamo – caratterizza questa blottega, cioè blog-bottega. (db)
Grazie Daniele per aver riesumato questo scritto, che ho riletto con qualche timore. Il timore di essere rimasto troppo sotto il valore del testo (e dell’autore) di cui ho trattato.
Un libro troppo bello, valido ed efficace per piacere si signori che dominano le belle lettere attuali. Che vivono nel piattume e del piattume di libri (riporto una frase non mia, che faccio mia) il cui contenuto non vale il costo della carta su cui sono scritti. A volte anche se sono stati segnalati per il Premio Strega.