Messatores

di Natalino Piras

 

Nico Orunesu-Campo, nuvola, volo, acquerello e inchiostro, cm 30×50

 

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Messatores, in lingua sarda, vuol dire mietitori, messatora, messatoras al femminile. Molte ragazze, poco più che bambine, ma pure giovani e donne mature erano messatoras nel tempo di luglio, triulas, da triulare, trebbiare, tutto quanto ruotava intorno all’aia. Dice una canzone: «Bella non bi annes a messare, ca su sole ti cochet sa bellesa», Bella non andare a mietere, ché il sole ti brucia la bellezza.

La bellezza delle mietitrici era forte e intensa, come il volto di Rosaria Revueltas nel film Il sale della terra (Salt of the Earth). È un film che, chi sa, lo avessero conosciuto, avrebbe potuto fare parte dei racconti dell’aia.

Il produttore del film si chiamava Paul Jarrico e il regista Herbert J. Biberman, uno dei dieci di Hollywood finito nelle liste nere al tempo del maccartismo. La realizzazione del film, nel 1953, subì molti e gravi ritardi perché ostacolato proprio dal maccartismo. Uscì nelle sale solo nel 1965, dopo censure e censure, in Italia col titolo Sfida a Silver City. Non è un western anche se ambientato in luoghi western. Narra di uno sciopero di minatori a Silver City, nel Nuovo Messico. I minatori fanno picchettaggio di fronte al luogo del loro sfruttamento, l’imbocco verso le viscere della terra, il loro stesso lavoro. Li arrestano. Saranno allora le loro donne, mogli e madri, a prendere il loro posto, a proseguire lo sciopero. L’Fbi espulse dagli Stati Uniti l’attrice messicana Rosaria Revueltas che si era prestata a dare corpo e volto a una delle combattive scioperanti.

Uno sciopero contro i padroni dei campi, a volte printzipales, altre poveri arricchiti, accadde qualche volta anche qui da noi. Riguardava messatores, messatoras e gente come loro.

Scrive lo storico Manlio Brigaglia: «Dal 1 al 3 maggio 1944, a Oniferi, provincia di Nuoro, i pastori occupano i pascoli ex-demaniali, ora di privati. Nello scontro con le forze dell’ordine, un morto e numerosi feriti». Nei fatti venne coinvolta Peppina Piredda, allora diciottenne. Nell’aprile del 1944 si era sparsa voce a Oniferi che i tempi di sfruttamento dell’ ex demanio da parte dei privati erano scaduti. Il Comune poteva così rientrare in possesso delle terre confiscate. Alimentava la voce un tale Farina, figlio del capostazione, laureato in giurisprudenza e che godeva fama di uomo di legge. La voce fece presa sulla popolazione. Si fecero delle riunioni e ad alcune presero parte anche sindacalisti di fuori. C’erano inoltre oniferesi reduci da esperienze in miniera, nel Sulcis. Il movimento restò spontaneo. Si decise di occupare i terreni, in particolare le località di Mattareddu, Tiddathi e Nurache Curzu. Le riunioni si susseguivano incessanti. Il movimento spontaneo non passò inosservato alle autorità. La Prefettura di Nuoro mandò un suo rappresentante per fare un’offerta: i terreni sarebbero stati ceduti per 10 anni al Comune senza canone di affitto e poi per altri 10 e così via. Gli oniferesi non accettarono e continuarono nell’occupazione. Il rappresentante del prefetto li avvertì che ci sarebbero state gravi conseguenze: arresti e contravvenzioni. Era accompagnato dall’ex podestà Paolo Soro che così si rivolse a un gruppo di ragazze, tra cui anche Peppina Piredda: «Che intenzioni avete?» Questa la risposta di Peppina: «Siamo andate ieri, avantieri, andiamo pure oggi». E l’ex podestà: «Non andateci, è sempre aperto il portale del cimitero».

Il 3 maggio vennero oltre 100 carabinieri. Gli occupanti avevano appena terminato di consumare un frugale pranzo comunitario. Gli spari iniziarono all’improvviso e durarono ininterrotti per una decina di minuti. Gli occupanti erano a mani nude, non avevano neppure una falce. Qualcuno pensò che gli spari fossero a salve fino a che Totoni Mossa non urlò: «Queste sono pallottole vere». Caterina Piras, Peppina Piredda, Pinedda Piras, Pina Forma e Baldassarre Bande restarono sul terreno gravemente feriti. Salvatore Fiori fu portato all’ospedale di Nuoro. «E questo perché me lo avete portato?» interrogò un medico. «Portatelo in cimitero. Ormai è già morto».

Tutto torna al tempo del mietere.

«La messe ondeggia sui campi biondeggianti», «nel campo allena, il mietitor» e altri canti di chiesa quali abbiamo imparato al tempo dell’infanzia, in memoria ben impressa la sequenza di quando Mosè, ancora principe creduto egiziano, nei Dieci comandamenti (The Ten Commandments, 1956) di Cecil B. De Mille, ordina, e lui dà per primo l’esempio, che per sfamare gli schiavi ebrei vengano aperti i silos che contengono le riserve di grano: un fiume giallo prezioso come l’oro, più dell’oro.

La messe e i mietitori sono elementi fondanti di vita vera ma pure di parabola. Una delle più importanti, nei tre Vangeli sinottici, è quella del seminatore e del raccolto. «Il seminatore uscì a seminare la sua semenza; e, mentre seminava, una parte del seme cadde lungo la strada: fu calpestato e gli uccelli del cielo lo mangiarono. Un’altra cadde sulla roccia: appena fu germogliato seccò, perché non aveva umidità. Un’altra cadde in mezzo alle spine: le spine, crescendo insieme con esso, lo soffocarono. Un’altra parte cadde in un buon terreno: quando fu germogliato, produsse il cento per uno».

Ci vogliono braccia allenate per mietere e non sempre, finita la mietitura, il frutto del lavoro e della fatica viene equamente ripartito. Il grano e la sua assenza segnano la storia del mondo, il tempo dell’abbondanza, della sopravvivenza, della fame, della guerra, della rivoluzione, della repressione in fiumi di sangue delle rivolte contadine, da Lutero e prima di Lutero, e nella carestia, l’Holomodor, che indotta da Stalin in Ucraina, dal 1932 al 1933 causerà milioni e milioni di morti. Da sacrale, l’atto del mietere, diventa il significante e il significato della signora con la falce: tagliare teste come canne, era un refrain non così criptato di esaltazione della rivoluzione cubana di Castro e Che Guevara. Marat, il sanguinario del Terrore nella Rivoluzione delle Rivoluzioni si beava nella visione di piramidi di teste ghigliottinate. Il pane, che viene dal grano, è qui ben lungi dall’essere referente, lo sfilatino librato in cielo azzurro de La légende dorée (1958), famosa pittura di René Magritte.

Il grano, economia indispensabile di molte civiltà, dall’antico al contemporaneo, bisognava bruciarlo perché non potesse sfamare il nemico, per sconfiggerlo.

Molto cinema, tutti i film che hanno Guerra e pace (‘Vojnà i mir, 1865-1869) di Lev Tolstoj come testo base, racconta di quando Kutuzov, generale contadino, fa bruciare immense distese di grano perché questo venga a mancare all’armata di Napoleone che ha invaso la Russia. Insieme alla neve, il grano assente sarà la causa principale della disfatta dell’armata francese figlia, almeno sino al 1917, l’Ottobre rosso di Lenin, della Rivoluzione per antonomasia.

Tutto torna nel racconto del mietere, del falciare e del distruggere: l’epico di tanto cinema da realismo socialista – dove Stalin diventa per il popolo un necessario piccolo padre, niente di più lontano dal vero – il tragico, il comico, il paradossale: come nel Medioevo inventato da Mario Monicelli e gli sceneggiatori Age &Scarpelli nell’Armata Brancaleone (1966). Vittorio Gassman e Gian Maria Volonté danno corpo a un duello infinito che si conclude con la mietitura di un campo di grano a colpi di spadone. Tanto simile questo campo, a colori, a quello, in bianco/nero, che brucia per errore, in una Unione Sovietica di finzione ma non così lontana dal vero, nel film Il compagno don Camillo (1965) di Luigi Comencini, da Guareschi. Tutti i film in bianco/nero, ormai classici, con Gino Cervi e Fernandel, il sindaco comunista e il parroco suo amico-avversario, hanno il grano, la sua storia, le sue leggende, come leit motiv. Nella stessa terra che contiene Novecento (1976) di Bernardo Bertolucci, film di agrari e di lotte per combatterli e abbatterli.

E su tricu siet a otto, il prezzo del grano venga ribassato all’otto per cento. Molte poesie-canzoni della civiltà de sas messatoras sognano l’abbordabilità del costo per molta gente del popolo, da sempre affamato, e l’aumento, impossibile, dell’abbondanza.

Reale e utopia basano su racconti di fatica e di rabbia.

Una volta, un committente, padrone di messi, dirgrassatu, disgraziato, privo di contezza della mente e di sapienza del cuore, arrostì per i mietitori un agnello, perché si ristorassero prima di riprendere l’immane fatica. In realtà uccise uno dei suoi cani e dopo averlo scuoiato e messo allo spiedo aspettò chi i mietitori finissero di mangiarlo prima di rivelare, con faccia da ghigno, la verità. Si dice che rischiò il linciaggio.

Raccontava mia madre contadina che una volta erano diverse donne a mietere un campo di grano. Lavoravano alacri, curve, abili nell’uso della falce e nel fare i mannelli. Avanzavano quasi a ritmo d’insieme, dopo aver contrattato il cottimo con il padrone del campo. Erano solo donne. L’unico uomo, lo chiameremo Pretu, Pietro, era uno misero, debole di forze e inadatto a mietere. Lo adibivano a svariate mansioni e commissioni, una delle quali era quella di andare a prendere acqua fresca dalla fontana non lontana dal campo. Ciascuna delle donne si era portata da casa pane e companatico. All’ora del pranzo, Pretu viene incaricato di andare alla fontana per portare acqua fresca alle donne. Avrebbero aspettato il suo ritorno per iniziare a mangiare. Pretu afferrò un capace fiasco di terracotta e mise a tracolla sulle spalle la tradizionale tasca di pelle che conteneva la sua razione di pane e formaggio. Le donne non fecero caso a quest’ultimo movimento. Sperimentarono poi, all’ora di riprendere la mietitura, di quanto quel gesto fosse stato per loro causa di inappagata fame e aumentata sete.

Arrivato alla fontana, ben riparata sotto querce e lecci secolari, Pretu vide che l’erba tutta intorno poteva fargli da comodo giaciglio. Bagnò il pane, tagliò il formaggio e nel mentre mise una bottiglia di vino a rinfrescare dentro la fontana. Poi, mangiato e bevuto, si addormentò.

Anche Pretu rischiò il linciaggio.

Il finale è un inizio, quello del Gladiatore (Gladiator, 2000) di Ridley Scott.

Prima della battaglia contro i Germani, vediamo un campo di grano, la mano del generale Massimo Decimo Meridio (Russel Crowe) che accarezza le spighe alte di un campo di grano. Il soldato pensa al suo, di grano, che mieterà al ritorno dalla guerra. Un tempo di luce. Invece Massimo Decimo Meridio sperimenterà di cosa sia capace il buio, la terra bruciata, la famiglia sterminata, il suo piccolo campo cancellato dal tempo giusto del raccolto.

Natalino Piras, da Diari di Cineclub – luglio 2024 – n. 129

profilo FB di Natalino Piras

Immagini: Nico Orunesu

 

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2 commenti

  • Carlos Catucci

    Il piccolo padre era lenin, non stalin, certe inesattezze rovinano uno scritto davvero bello e profondo

  • Domenico Stimolo

    A mio parere ” certe inesattezze” non rovinano affatto uno scritto certamente pregiato.
    ….quando si vede il pelo e non si aguzza la trave…..

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