Messico: i normalistas di Ayotzinapa senza giustizia

La posizione ambigua del presidente Obrador, che a parole vuole la verità sulla strage dei 43 studenti avvenuta nel 2014, ma rifiuta di mettere in discussione l’esercito e la Sedena (Secretaría de la Defensa Nacional), hanno spinto i familiari degli scomparsi a sospendere qualsiasi forma di interlocuzione con il governo.

di David Lifodi

                                    Foto: https://contralinea.com.mx/

Fue el Estado: ancora oggi, a quasi dieci anni dalla strage dei normalistas della Scuola Normale Raúl Isidro Burgos di Ayotzinapa (stato del Guerrero, Messico), avvenuta tra il 26 e 27 settembre 2014, i familiari dei desaparecidos ribadiscono che si è trattato di un crimine di stato.

Non c’era bisogno che, già nel 2022, la Commissione per la Verità su Ayotzinapa, promossa dal presidente Andrés Manuel Lopez Obrador, certificasse le responsabilità di Enrique Peña Nieto e dello Stato messicano poiché, da anni, hanno ribadito i genitori dei normalistas fatti sparire, la Sedena (Secretaría de la Defensa Nacional) aveva messo nel mirino la Escuela Normal Rural Raúl Isidro Burgos.

Sullo stesso Obrador, sottolineano i familiari degli studenti scomparsi, pesa il credito sempre maggiore attribuito dal presidente all’Esercito, secondo lui tornato nell’alveo della legalità, tanto da scagionarlo dalle responsabilità e dal coinvolgimento nella mattanza dei 43 studenti di Ayotzinapa.

È in questo clima che si inserisce lo sconcertante balletto dell’annunciata liberazione, e del successivo, recente, nuovo mandato d’arresto, per otto militari accusati di aver rivestito un ruolo di primo piano nella sparizione dei 43 normalistas. La nuova richiesta di cattura, per gli otto appartenenti alla Sedena, è giunta dal Ministero Pubblico Federale, che li accusa dei crimini di delinquenza organizzata e sparizione forzata. Gli otto, detenuti dal giugno dello scorso anno nel Campo Militar 1-A di Città del Messico, erano stati messi in libertà condizionale tra l’indignazione generale e adesso torneranno nello stesso carcere, a disposizione del giudice, per essere interrogati ancora una volta.

Sulla strage di Ayotzinapa, fin dall’inizio, lo Stato messicano aveva cercato di far calare l’oblio, tanto da derubricarla ad un episodio di criminalità comune. L’insabbiamento era proseguito con l’ex presidente Enrique Peña Nieto, il quale più volte dichiarò di non esser stato a conoscenza del caso, e la stessa Sedena, che non si adoperò né per fermare il massacro né di tutelare la sorte di uno dei suoi tre infiltrati tra gli studenti della scuola rurale per controllare le loro attività politiche e divenuto a sua volta uno degli scomparsi.

Anche di fronte alle prove fornite dal Grupo Interdisciplinario de Expertos Independientes (GIEI), che ha reso pubbliche ben sei informative sull’accaduto, lo stesso Obrador ha sempre minimizzato e tenuto un comportamento ambiguo, nonostante le prove del collegamento tra due battaglioni dell’esercito e il cartello dei narcotrafficanti Guerreros Unidos, che ebbero un ruolo rilevante nella strage.

Non è tutto. La Sedena, grazie alla sua intelligence, aveva creato i cosiddetti Órganos de Búsqueda de Información che riportavano periodicamente le attività promosse dai normalistas con dettagli così particolari da poter definire le mosse della stessa Secretaría de la Defensa Nacional come una vera e propria mobilitazione contrainsurgente. Sempre la Sedena ha giocato un ruolo chiave nell’associare i normalistas alla guerriglia nello stato del Guerrero e, contemporaneamente, nel chiudere un occhio, sui crescenti legami tra le istituzioni di quello stato e la criminalità organizzata.

Anche la libertà condizionale concessa agli otto militari era stata subito messa in discussione dalla Fiscalía General de la República perché Raquel Ivette Duarte Cedillo, giudice del Segundo de Distrito de Procesos Penales Federales nello stato di Messico, e i magistrati del Tribunale corrispondente, avevano agito concedendo una serie di misure vantaggiose per gli imputati, disconoscendo quanto sancito dai giudici in relazione al carcere preventivo per i militari e adottando una procedura processuale che non tutelava i familiari delle vittime della strage.

Gli stessi familiari dei desaparecidos, nei primi giorni di gennaio, hanno deciso di chiudere qualsiasi interlocuzione con il governo sia a causa della sfiducia dichiarata da Obrador nei confronti del Grupo Interdisciplinario de Expertos Independientes sia per il diniego opposto dal governo alla richiesta di accesso agli archivi sul caso. L’incontro tra il sottosegretario ai diritti umani Medina e i familiari degli scomparsi era avvenuto il 3 gennaio, ma si era concluso rapidamente e con un nulla di fatto perché il governo non aveva alcuna intenzione di sollecitare la Sedena a mettere a disposizione della Commissione per la Verità la documentazione in possesso del Centro Regional de Fusión de Inteligencia, attivo a Iguala, la città del Guerrero dove siera consumata la strage, a partire dalla trascrizione delle chiamate telefoniche realizzate dai principali protagonisti coinvolti nell’accaduto.

Obrador ha sempre dichiarato di non appartenere al cosiddetto “patto del silenzio” sulla strage avvenuta a Iguala e, del resto, ne è una prova la creazione, per sua volontà, della Commissione per la Verità su Ayotzinapa, ma al tempo stesso risulta evidente, come sostengono gli avvocati dei familiari dei normalistas scomparsi, che lo Stato non ha alcuna intenzione reale di procedere sulla strada del chiarimento storico sulla mattanza.

Gli stessi concetti, già lo scorso anno, sono stati ribaditi dal Grupo Interdisciplinario de Expertos Independientes: l’esercito rifiuta di consegnare i documenti, non risponde agli ordini presidenziali e, proprio per questo, risulta incomprensibile sia la rivalutazione dei militari, e della Sedena in particolare, da parte di Obrador, sia il timore nel definire la strage dei normalistas un crimine di stato.

L’unica certezza, per il momento, è che le vittime di Iguala difficilmente, nel breve periodo, avranno giustizia.

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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