Messico: il Tren Maya della discordia

Il presidente Andrés Manuel López Obrador ricatta le comunità indigene: miglioramento delle condizioni di vita in cambio dell’approvazione incondizionata di un progetto devastante per l’ambiente e per le popolazioni maya.

A beneficiarne, come sempre, saranno le grandi imprese e gli uomini più ricchi del paese. C’è da chiedersi se è questa la “quarta trasformazione” sbandierata da Amlo in campagna elettorale.

di David Lifodi

Sul Tren Maya il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador (Amlo) rischia fortemente di ripetere gli errori di Evo Morales, quando il mandatario boliviano si era intestardito nel voler costruire un’autostrada all’interno del Territorio Indígena Parque Isiboro Sécure (Tipnis).

Allora in Bolivia, come oggi in Messico, ad insorgere furono le comunità indigene. Per tutta la campagna elettorale che poi lo ha condotto alla presidenza del paese, Amlo aveva più volte espresso la propria contrarietà alle grandi opere, salvo poi cambiare rapidamente idea una volta giunto a Los Pinos.

La storia pare non aver insegnato niente ad Amlo, il quale sembra davvero intenzionato ad infilarsi in un pasticcio molto simile a quello del Tipnis, a partire dagli attacchi agli “pseudoecologisti e ai radicali di sinistra”, definiti con disprezzo da Amlo come “conservatori”.

Dal Tren Maya, che dovrebbe collegare le più importanti aree turistiche del sud del Messico, fino al Corredor Transístmico e al Proyecto Integral Morelos, ce n’è abbastanza per far sollevare le comunità indigene, da tempo in rotta con il presidente della cosiddetta “quarta trasformazione”.

Definito El Tren de las Élites, il Tren Maya finirà per trasformarsi in un’opera pubblica al servizio degli investimenti privati, con buona pace dei propositi di tutela dell’ambiente e dei diritti degli indigeni. Dietro al progetto del Tren Maya si cela la volontà di scommettere ancora di più sull’estrattivismo minerario e sul turismo di lusso, mettendo così a rischio, tra le altre cose, la sostenibilità idrica dell’intera regione e accelerando la deforestazione.

Tra i principali sostenitori del Tren Maya figura quell’oligarchia che, fin dall’inizio, è stata beneficiata dalla svolta di Amlo sul versante delle megaopere, a partire da Carlos Slim, Bernardo Quintana e Manuel Muñozcano, gli amministratori delle imprese che costruiranno il treno, oltre ad essere i committenti del Nuevo Aeropuerto Internacional de la Ciudad de México (NAICM), un altro progetto che in campagna elettorale il presidente sembrava voler rifiutare.

Tra coloro che si arricchiranno grazie al Tren Maya, di cui un terzo del trasporto sarà destinato ai combustibili fossili, vi è BlackRock, impresa che ha già investimenti in altri 12 progetti energetici in Messico. Quanto alle comunità indigene, il governo e le multinazionali coinvolte hanno cercato di presentare il Tren Maya come un’opportunità di sviluppo mascherata però dal solito do ut des: riceverete migliori servizi nell’ambito dell’istruzione e della sanità e cresceranno le opportunità di lavoro a patto che da parte vostra ci sia una totale approvazione del progetto.

Questo tentativo di comprare le comunità, dividerle al proprio interno e distruggerne il tessuto sociale non rappresenta una novità, ma, in tutti i paesi latinoamericani resta il sistema più utilizzato da governi e transnazionali per far cadere le forti resistenze indigene.

Del resto, è proprio per questo che gli zapatisti non si sono mai fidati di Amlo, ha ricordato Claudia Fanti in un lungo reportage sul Tren Maya pubblicato sul manifesto del 21 dicembre scorso: «Potranno cambiare il capataz, i servitori e i capisquadra, ma il proprietario continuerà a essere lo stesso», aveva sottolineato l’Ezln già oltre due anni fa, quando la popolazione celebrava il governo di “centrosinistra” che era finalmente giunto al potere dopo aver sconfitto panismo e priismo.

I movimenti sociali indigeni e contadini degli stati interessati dai lavori del Tren Maya (Chiapas, Tabasco, Campeche, Yucatán e Quintana Roo) da tempo hanno denunciato che a trarre vantaggi da questa grande opera saranno soltanto le imprese costruttrici e non certo i popoli originari, ma il governo potrebbe aver buon gioco a presentare il progetto come un’opportunità per la popolazione, soprattutto in un periodo in cui, a causa della pandemia da Covid-19, solo a Cancún oltre 70.000 persone sono rimaste disoccupate per la mancanza dei turisti. Gran parte dei lavoratori negli hotel e nei resort di lusso, in maggioranza indigeni maya, sono tornati infatti nelle proprie comunità perché senza lavoro.

Per questo motivo è ancora più grave che Andrés Manuel López Obrador lucri sulla disperazione delle persone, che hanno inevitabilmente bisogno di lavorare e che quindi potrebbero essere spinte a intravedere nel progetto del Tren Maya una reale opportunità ed è significativo che, proprio da Cancún, il presidente abbia dato il via libera a questa grande opera.

Per il collettivo Puerto Morelos Sustentable il Tren Maya è solo un treno che cerca di esportare il modello di turismo massiccio in tutta la penisola dello Yucatán. Del resto, la stessa Cancún, 50 anni fa, era stata trasformata in un agglomerato di grandi alberghi, resort di lusso e catene turistiche transnazionali grazie allo sfruttamento dei lavoratori, in gran parte indigeni maya.

Oggi il Tren Maya rischia di replicare, amplificandolo all’ennesima potenza, ciò che già si è verificato con la principale meta turistica del Caribe messicano e la cosa peggiore è che il principale artefice di tutto ciò è un presidente acclamato come di “centrosinistra”.

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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