Mezzo secolo di educazione popolare

Nel segno di Paulo Freire: per trasformare la realtà bisogna lavorare con il popolo e non per il popolo

di Raúl Zibechi

Tra le molteplici creazioni che hanno illuminato la “rivoluzione mondiale del 1968” (concetto coniato da Immanuel Wallerstein), l’educazione popolare è una delle più trascendenti, poiché ha cambiato in profondità i modi con cui concepiamo e pratichiamo l’atto educativo, in particolare all’interno dei movimenti anti-sistemici.

Nel 1967 Paulo Freire pubblicò il suo primo libro, L’educazione come pratica della libertà, e nel 1968 redasse il manoscritto Pedagogia degli oppressi, che venne pubblicato nel 1970. Questo libro ha avuto influenza su diverse generazioni ed è arrivato a vendere l’astronomica cifra di 750 mila copie, qualcosa di straordinario per un testo teorico. A partire dagli anni Settanta, i lavori di Freire vennero dibattuti nei movimenti, che adottarono le sue proposte pedagogiche come modo per approfondire il lavoro politico dei militanti con i popoli oppressi.
Una delle principali preoccupazioni di Freire consisteva nel superare l’avanguardismo che imperava in quegli anni. Difendeva l’idea che per trasformare la realtà bisogna lavorare con il popolo e non per il popolo, e che è impossibile superare la disumanizzazione e l’interiorizzazione dell’oppressione solamente con la propaganda e con discorsi generali e astratti.
In questo modo entrava in sintonia con i principali problemi legati all’esperienza dell’Unione Sovietica, ma affrontava criticamente anche i metodi di lavoro delle guerriglie nate sotto l’influsso della rivoluzione cubana. Con la quasi la totalità della generazione di militanti delle decadi del 1960 e 1970, noi eravamo fermamente convinti di rappresentare gli interessi dei settori popolari (compresi i popoli originari e i discendenti degli schiavi strappati dall’Africa), ma non eravamo neanche sfiorati dall’idea di consultarli in merito ai loro interessi e ancora meno sulle loro strategie come popoli.
Credo che l’educazione popolare sia una delle principali correnti di pensiero e di azione emancipatrici nate nel contesto della rivoluzione del 1968. Buona parte dei movimenti hanno qualche legame con l’educazione popolare, non solamente nelle loro pratiche educative e nelle pedagogie che assumono, ma soprattutto nei metodi di lavoro all’interno delle organizzazioni.

Paulo Freire, al centro con la maglietta a righe. foto tratta da jatengpost.com

Freire si preoccupava di trasformare i rapporti di potere tra i rivoluzionari e tra questi e i popoli (il vocabolo “rivoluzione” è uno dei più usati in Pedagogia degli oppressi), probabilmente perché stava tentando di superare i limiti del processo sovietico. Le sue proposte metodologiche cercavano di potenziare l’autostima degli oppressi, gerarchizzando i loro saperi, che Freire non considerava inferiori ai saperi accademici. Si propose di accorciare le distanze e le gerarchie tra gli educatori-soggetti e gli alunni-oggetti, con metodi di lavoro che hanno dimostrato un’enorme utilità per potenziare l’organizzazione dei settori popolari.
Grazie ai metodi di lavoro dell’educazione popolare, gli oppressi sono stati in grado di identificare il luogo strutturale di subordinazione che li attanagliava, il che contribuì alla creazione delle più diverse organizzazioni di base in tutto il continente.
Negli anni Novanta, il decennio più neoliberale, l’educazione popolare andò prendendo altri percorsi. Un eccellente articolo della sociologa brasiliana Maria de Gloria Gohn sottolinea come si sia verificata una profonda svolta che ha portato alla “professionalizzazione” degli educatori popolari, all’indebolimento dell’orizzontalità e al consolidamento delle relazioni di potere tra chi insegna e chi apprende. Gli educatori popolari stanno accantonando il rapporto militante con i loro alunni per vincolarsi con la popolazione come “gruppi di beneficiari”.
La maggioranza degli educatori lavora per le ONG (prima erano militanti organizzati che, ovviamente, non ricevevano uno stipendio) e si diffonde l’idea che “i governi non sono più il nemico bensì promotori di iniziative sociali per includere gli esclusi”. Più avanti, l’educazione popolare si rivolge a individui e non più a soggetti collettivi, le metodologie occupano un posto centrale rimpiazzando i dibattiti politico-ideologici e il concetto di “cittadino” sostituisce quello di “classe”.
Gli educatori popolari tendono a trasformarsi in ausiliari al servizio dalle politiche statali quando, segnala Gohn, smettono di lottare per l’uguaglianza e il cambiamento sociale e lavorano “per includere, precariamente e marginalmente, gli esclusi”. I laureati occupano il posto che prima avevano gli educatori-militanti e predomina uno stile che lascia da parte l’organizzazione per la lotta per adottare l’agenda dei finanziatori internazionali interessati a progetti “per imparare a inserirsi in un’economia deregolamentata e in un mercato del lavoro senza diritti sociali”.
Naturalmente, non tutti gli educatori popolari hanno preso questa strada. Sebbene un settore maggioritario si sia incorporato, magari esprimendo critiche e insoddisfazioni, nei Ministeri dello Sviluppo Sociale durante i governi progressisti (dell’América Latina, ndt), il settore più attivo e ribelle lavora assieme ai nuovi movimenti, alle fabbriche recuperate e ai contadini senza terra, e dedica tempo e sforzi alla formazione con settori popolari rurali e urbani.

Paulo Freire, a destra, con Ivan Illich, al centro. Foto www.acervo.paulofreire.org

Una parte considerevole della nuova generazione di educatori popolari (senza titolo e senza nome) si dedica ad apprendere i saperi popolari nei suoi territori, non per codificarli né per usarli per fini propri ma per potenziare l’organizzazione de los de abajo. Lo storico cileno Gabriel Salazar, sostiene che i settori popolari si educano da soli, nei loro spazi e sulla base dello loro cosmovisioni. “L’obiettivo dell’autoeducazione popolare è creare potere”, sostiene.
Le strade si sono biforcate, come di solito succede in tutti i processi di emancipazione. L’importante è che l’educazione popolare sia viva, che stia mutando con l’emergere di nuovi soggetti collettivi e che abbia la capacità di incorporare i saperi dei popoli. Una parte degli educatori ha deciso che la pedagogia critica consiste nello scendere e non nel salire.

Pubblicato su La Jornada con il titolo “Medio siglo de educación popular”. Traduzione per Comune-info di Daniela Cavallo

(*) tratto da https://comune-info.net

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