MilanOltre 2018: dal 27 settembre al 14 ottobre

di Susanna Sinigaglia: prima parte (*)

I PARTE:  28 settembre-5 ottobre

Dopo un’anteprima “fuori catalogo” che ha inaugurato il connubio fra MilanOltre/MiTo SettembreMusica/Torino danza presentando Bach Project, prodotto da Aterballetto, la rassegna di danza si è aperta con una novità che ha conferito una coloritura inusuale a questa edizione: la partecipazione della compagnia di Seoul, Laboratory Dance Project, che ha interpretato quattro performance di straordinario interesse e perfezione – Look look, No comment, Bow e No film, tutte di coreografi diversi – di cui non sono riuscita a vedere Bow.

Look look

Coreografia di Dong-kyu Kim

Laboratory Dance Project

È lo spettacolo che ha prestato al festival l’immagine di copertina.

La coreografia inizia quando le luci in sala sono ancora accese: i danzatori, con una specie di calza nera o color carne che gli avvolge la testa e tutto il volto, completi giacca-pantaloni sgargianti e fantasie insolite – come quadri dipinti su stoffa – scendono in sala e ne risalgono la scalinata osservando il pubblico da dietro quella specie di cortina che ne occulta i lineamenti e lo sguardo. Iniziano un gioco d’imitazione dei gesti di alcune bambine che partecipano curiose allo strano scambio, mentre uno dei performer si carica la schiena di capi di vestiario sottratti ai compagni: frammenti d’identità rubati e indossati, un’identità ridotta a mero accessorio d’abbigliamento.

Quando i performer rientrano sul palco, ha inizio una sarabanda colorata e scatenata fatta di un mix di hip hop, break dance, acrobatica e arti marziali. Si muovono in gruppo e separati, a volte sparpagliandosi in tutto lo spazio e a volte concentrandosi in un angolo: sembra di assistere al gioco di un caleidoscopio che si frammenta creando ogni volta composizioni colorate diverse. Gli individui, separati e rivali, s’incontrano e scontrano come bizzarri arlecchini che si contendano, invece della pagnotta, un pezzo d’identità.

Sino a che, quasi arrendendosi, si compattano in un gruppo finalmente in sintonia con tutti coloro che lo compongono.

https://www.youtube.com/watch?v=ZZ259FiMB9E

 

No comment

Coreografia di Chang-ho Shin

Laboratory Dance Project

In No comment si dispiega con tutta la sua forza e perfezione la tecnica espressiva dei maschi della compagnia, che compaiono sulla scena in dieci. Si può così apprezzare appieno, per sottrazione, la qualità delle danzatrici, la loro grazia e leggerezza; e autoironia.

Alcuni danzatori indossano, anche in questo caso, camicie dai colori sgargianti ma giacca e pantaloni anonimi come quelli di uomini d’affari, si dice nel foglio di sala; o forse, più semplicemente, di qualsiasi impiegato che vada al lavoro ogni mattina.

La performance si sviluppa in crescendo da un battito, quello del cuore, mimato dalla mano infilata dentro la camicia che pulsa come se il cuore volesse schizzare fuori dal petto.

Poi è il battito del piede che dà avvio a un’altra serie di figure. Al contrario del gioco delle scatole cinesi, dove dalla più grande si arriva a scoprire la scatola più piccola, qui si procede dal piccolo gesto al più grande e alla massima amplificazione dell’impulso iniziale con salti acrobatici, scivolamenti e corse mozzafiato fino al limite del palco.

È come una liberazione progressiva tanto che, a un certo punto, le giacche volano in aria

e i danzatori invadono la sala trascinando il pubblico in un ritmo scatenato, sulle note di un brano di Goran Bregovic, al cui coinvolgimento non ci si può sottrarre.

Tornati sul palco, come in uno spettacolo pirotecnico o circense, i perfomer si librano in un finale scoppiettante fatto delle loro principali specialità: i voli, gli scivolamenti, le corse.

https://www.youtube.com/watch?time_continue=59&v=_QGA59NyJ48

 

No film

di

Sung-Hoon Kim

Laboratory Dance Project

 

Fiaba dark, molto suggestiva, inizia con l’entrata in scena di un personaggio in manto scuro, con il bastone (del comando) e la pelle tinta di nero; potrebbe essere fuliggine, inchiostro, in seguito si scoprirà che è petrolio. Irrompono sul palco i danzatori, la massa, il “popolo” che il tiranno schiaccia e rende schiavo ma si ribella anche, in un susseguirsi di sopraffazioni e riscatti, desolazione.

A un tratto il tiranno sembra definitivamente sconfitto e scompare dalla scena;

poi ritorna, si prende la rivincita e ingaggia un gioco crudele con una donna tutta vestita di verde – di sottile eleganza, fragile e flessuosa – che cerca a lungo di resistergli. Lui la tiene agganciata per il collo con il bastone e il suo agire assomiglia a quello del gatto col topo; la donna non ha nessuna chance di cavarsela e soccombe.

Fino a questo punto, tutto è perfetto. I danzatori sono eccezionali come nei lavori precedenti e quell’atmosfera oscura, rotta da tagli di luce che creano piani sovrapposti e incrociati, ha un fascino che inquieta e incanta nello stesso tempo.

Poi però la performance vira verso lo stereotipo, subisce una caduta di stile che non mi sarei davvero aspettata: “l’uomo nero” compare di nuovo da solo sul palco e rivolge un violento discorso in tedesco a una massa di gente invisibile che possiamo facilmente immaginare; troppo facile è l’analogia con Hitler, di cui il personaggio ha anche i baffetti. I danzatori rientrano in scena in divisa, marciano con passo marziale e malgrado quest’inserto non duri per molto e ritornino momenti di poesia, l’incanto si è rotto. D’improvviso si allunga sull’impiantito una gran chiazza scura, di petrolio, simbolo di potere e distruzione, quello stesso petrolio di cui è macchiato il viso del tiranno.

Questa volta non ha vie di scampo e soccombe anche lui, probabilmente schiacciato dalla macchina che lui stesso ha messo in moto.

http://www.milanoltre.org/ldp_nofilm/

Ju – Aware

di

Gao Yanjinzi e Luo Lili

Bejing Modern Dance Company

Una figura femminile seduta a terra di spalle avvolta in un gran manto di foggia cinese, i capelli lunghissimi, immobile sorge ai margini della scena mentre un’altra figura femminile, agile e flessuosa, all’ombra della prima e tutt’intorno a lei inizia – accompagnata da una nenia – una danza tradizionale.

L’immobilità della figura di spalle è tale che mi chiedo se sia una persona o un manichino; però quando la performer comincia a passare da quella tradizionale a una danza che attinge al linguaggio della ricerca contemporanea, la figura si muove e si rivela una donna in carne e ossa dal portamento maestoso.

Inizia così il confronto-scontro fra la madre-tradizione e la figlia-innovazione, dove la figlia cerca di svincolarsi dalle regole imposte da una lunga consuetudine per esplorare nuove forme e gesti di libertà. Certo non mancano i tentativi della madre di riportarla nell’alveo della cultura ancestrale, con la dolcezza e l’allusione a gloriosi giorni lontani

o con metodi più energici e autoritari.

Il desiderio di libertà è irrefrenabile e a un certo punto sembra avere la meglio;

tuttavia è anche forte la nostalgia delle gloriose tradizioni, l’amore verso la madre e quindi tutto ciò che ha sorretto la figlia per arrivare dov’è.

E a facilitare il riavvicinamento fra le due donne, come un folletto si palesa da sotto il gran manto della tradizione una bambina che, con la guida della figlia diventata a sua volta madre, inizia una danza dai gesti rituali imitando in modo gioioso quelli che la mamma le mostra sotto lo sguardo intenerito e riconciliato della nonna.

È una metafora che accenna a come la danza contemporanea affondi le radici in una tradizione che si perde nella notte dei tempi attraverso cui continuamente si rinnova.

http://www.milanoltre.org/beijing/

 

I” Is Memory

di

Benoît Lachambre e Louise Lecavalier

Assolo di Louise Lecavalier

A Milanoltre quest’anno è mancata la sezione tradizionalmente dedicata al Canada tranne che per questa performance di Louise Lecavalier, che ho visto la seconda sera del festival prima di Look look e No Comment.

Louise Lecavalier entra in una scena immersa nella penombra; indossa una felpa con il cappuccio calato su un berretto a visiera che le nasconde quasi completamente il viso, pantaloni da tuta e scarpe da tennis: gli indumenti ne rendono il corpo quasi informe. Nel silenzio, inizia a muoversi in modo quasi spasmodico, deforma l’andatura contorcendo i piedi mentre un suono insistente comincia a scandirne i movimenti.

Alle sue spalle, vediamo una sedia con braccioli posizionata davanti a un asse di metallo. Finché la danza si svolge sul palco, vedo solo una strana creatura che si dibatte senza ragione davanti agli occhi del pubblico, ma quando la performer comincia a usare la sedia e l’asse di metallo, il suo corpo in bilico fra l’una e l’altro disegnano immagini impensabili diventando lei stessa un terzo oggetto animato e snodabile.

Alla fine, Louise Lecavalier si toglie la felpa e il berretto restando in maglia nera, come finalmente libera da qualche tormentoso demone che l’avesse fino a quel punto abitata.

Ho letto che l’artista ha composto e interpretato questa performance dopo un’operazione all’anca che ha impresso una svolta decisiva alla sua vita e alla sua carriera. E allora credo d’aver capito il senso dei suoi movimenti iniziali e del titolo, “I” Is Memory, che penso si riferisca alla memoria del corpo: probabilmente, voleva esplorarne le potenzialità e verificare fino a che punto riuscisse a spingersi. Poi nel successivo gioco con la sedia e l’asse metallica, scopre che il suo corpo ha ancora moltissime risorse e una formidabile flessuosità: davvero una donna straordinaria e coraggiosa!

https://louiselecavalier.com/productions/#i-is-memory

(*) la seconda parte sarà in “bottega” domani sera

 

 

Susanna Sinigaglia
Non mi piace molto parlare in prima persona; dire “io sono”, “io faccio” questo e quello ecc. ma per accontentare gli amici-compagni della Bottega, mi piego.
Quindi , sono nata ad Ancona e amo il mare ma sto a Milano da tutta una vita e non so se abiterei da qualsiasi altra parte. M’impegno su vari fronti (la questione Israele-Palestina con tutte le sue ricadute, ma anche per la difesa dell’ambiente); lavoro da anni a un progetto di scrittura e a uno artistico con successi alterni. È la passione per la ricerca che ha nutrito i miei progetti.

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