MilanOltre 2020
di Susanna Sinigaglia
Milanoltre 2020
È stata inevitabilmente un po’ sottotono la rassegna di quest’anno con un’unica compagnia proveniente dall’estero, quella del franco-algerino Hervé Koubi, autore di uno spettacolo che non ho potuto vedere per averlo adocchiato troppo tardi ma di cui ho sentito parlare un gran bene.
Fra le performance cui sono riuscita ad assistere segnalo Excelsior di Chiasma, compagnia di Salvo Lombardo; A[1] bit, spettacolo itinerante dei Sanpapié; Lute e The Wilderness. Niente di tutto ciò è reale con Le Supplici di Fabrizio Favale.
Ho inoltre seguito la “Conferenza danzata” condotta da Alessandro Pontremoli, professore ordinario di Discipline dello spettacolo presso l’Università degli Studi di Torino con la compagnia di danze storiche Il leoncello, e la presentazione di due libri: Enzo Cosimi. Una conversazione quasi angelica. 10 oggetti per uso domestico, a cura di Maria Paola Zedda, pubblicato da Editoria & Spettacolo, Napoli 2019; Tempo perso. Etica dell’inazione e coreografia contemporanea, di Stefano Tomassini, pubblicato da Scalpendi, Milano 2020.
Per il resto né Davide Valrosso con Love, paradisi artificiali né gli MK di Michele di Stefano con Bermudas né i Nexus + Next di Simona Bertozzi, con Tra le linee, mi sembra che abbiano mostrato una ricerca di danza contemporanea che sconfinasse in altri territori e avesse una drammaturgia-regia coinvolgente per la forza delle proprie immagini. Forse fra i tre, più interessante potrebbe essere considerata la coreografia di Michele Di Stefano dietro cui s’intuiva un’intenzione: quella di costruire con un unico gesto ripetuto (l’estensione laterale delle braccia che imprimevano al corpo un moto rotatorio) immagini capaci di modificare-creare spazi. E tuttavia tranne che in pochissimi momenti, quest’intenzione si è persa forse anche per la velocità delle entrate e delle uscite dei danzatori, che non consentiva allo sguardo d’individuare forme create dai corpi nei loro spostamenti attraverso il palco.
Excelsior
Coreografia di Salvo Lombardo
I Chiasma
Excelsior nasce da un’idea interessante, che fa riferimento al Ballo Excelsior, una coreografia italiana rappresentata prima alla Scala e poi esportata in tutto il mondo dopo aver partecipato all’Esposizione universale di Parigi del 1889.
La coreografia è la sintesi del pensiero occidentale sulla presunta propria superiore civiltà dovuta alle sue scoperte tecniche e scientifiche, sul trionfo della ragione davanti alla “barbarie” di popoli di altre latitudini (1). A partire da queste premesse, la coreografia di Salvo Lombardo sembra essere una denuncia amaramente ironica delle estreme conseguenze cui ha portato la visione occidental-colonialista del mondo. Su uno schermo luminoso formato da due specie di sportelli socchiusi che ricordano quelli di un saloon, scorrono sia immagini di repertorio che rimandano ai tempi in cui si svolse il Ballo Excelsior (donnine leziose vestite di bianco, uomini con cappelli di paglia a falda larga), sia immagini odierne che ripropongono modelli umani stereotipi (fra gli esempi, la donna dai lunghi capelli lisci mostrata di spalle a riprova che l’elemento che la caratterizza non sono i lineamenti, ma l’acconciatura standard dei suoi capelli) ormai imposti-diffusi in tutto il mondo e, come schiacciasassi, cercano di appiattire ogni cultura riportandola a un unicum. Anche i danzatori rappresentano personaggi standard: la donna mascolinizzata con la divisa pantaloni-al-ginocchio-camicia-sneakers, il cowboy o il colonizzato con calzoncini su cui è disegnata la bandiera britannica, o il turista mordi e fuggi o il soldato in tuta mimetica…
Entra in scena anche la finta natura; ricorda quella degli alberelli piantati in poca terra racchiusa da vaschette di cemento, all’ultima moda qui a Milano. Questa e la scelta di certi personaggi e immagini sullo schermo mi ricordano alla lontana alcuni lavori di Señor Serrano, anche se in uno stile completamente diverso. Simili immagini sono a volte interrotte da momenti che sembrano di rivolta in cui i danzatori si scatenano sul palco in danze quasi scomposte, o formano piramidi umane che possono rimandare sia all’idea di uniformazione di massa sia invece a forme di solidarietà (nella costruzione piramidale ci si sostiene a vicenda).
Ma una delle scene finali, agghiacciante, ci rivela un’altra possibile lettura della piramide umana: mentre sullo schermo appaiono due cani che fanno a brani la bandiera italiana, al centro della scena compare come se si trovasse in grande lontananza l’immagine sfocata di un ammasso di corpi nudi.
E la performance si chiude sul danzatore che indossa i pantaloncini con l’emblema della bandiera britannica riverso sul palco, prima sovrastato da forme luminose in corteo che richiamano figure da Ku Klux Klan
poi alle sue spalle sullo schermo compare una belva nera sdoppiata, le fauci minacciosamente aperte. Forse tali scene ci vogliono ricordare che il colonialismo è stato ed è una belva anche quando esercita il suo potere solo sulla mente e i comportamenti, e che in questo momento uno dei suoi obiettivi è fare a pezzi le costituzioni e i diritti umani così come erano stati scritti dopo la Seconda guerra mondiale.
https://www.milanoltre.org/festival/salvo_lombardo_excelsior/
A[1]bit
Coreografia di Lara Guidetti
I Sanpapié
Spettacolo itinerante
Non è nuova l’idea dello spettacolo itinerante con il pubblico che segue in cuffia le indicazioni di una o più performer-guida e i testi da loro sussurrati. È comunque originale e divertente, con un pizzico di mistero, questa versione di Lara Guidetti e i Sanpapié che ci hanno portato a spasso attraverso le parti normalmente non visibili dell’Elfo. Dopo averci condotti fino all’entrata dell’atrio che si affaccia su c.so Buenos Aires per un ultimo sguardo sul corso pullulante di persone e veicoli, la guida ci ha invitati a rientrare e a seguirlo per uscire sul retro silenzioso e vuoto del teatro e salire la scala di ferro antincendio antistante a un lungo cortile. La guida ci ha così ricordato che fino a non molto tempo prima quel vuoto silenzioso pervadeva tutta la città.
Man mano che salivamo le scale, la guida ci faceva notare come il nostro sguardo andasse sempre più allargandosi scorgendo vari cortili contigui, le loro piante, le finestre delle case, la sommità dei palazzi vicini.
Arrivati in cima alle scale, a un tratto il cortile sottostante ha cominciato a popolarsi e alcuni performer hanno iniziato a sciamare attraverso i suoi spazi, a giocare ai quattro cantoni, a spalmarsi sul pavimento, ad arrampicarsi lungo le scale, a formare lunghe catene con le braccia intrecciate e i corpi protesi l’uno verso l’altro, a esplorare tutti gli angoli possibili sotto gli occhi attenti e un po’ stupiti del pubblico.
E gli spettatori si sono visti circondati da un nugolo di performer che, risalendo le scale dal piano sottostante, con grandi gesti d’incoraggiamento li invitavano a partecipare a quel gioco-baraonda.
Il pubblico, un po’ intimidito, si è tuttavia limitato a guardare tranne in un paio di casi e così dopo poco, lanciandoci un ultimo sguardo di saluto i performer sempre sciamando sono corsi giù per le scale sparendo alla nostra vista.
Per ritornare però quasi subito a raccogliere i meritati applausi insieme alla loro coreografa e all’autore e interprete dei testi, la “guida”, Marcello Gori.
Lute + The Wilderness
Coreografia di Fabrizio Favale
Le Supplici
Il primo lavoro, Lute – un titolo particolarmente geniale che in un antico dialetto italico indica lo scintillio della brace – sembra il prologo del secondo, The Wilderness. Nel primo in scena ci sono soltanto due danzatori che si muovono nella semioscurità dando vita a forme insolite, fra l’umano e l’animale o addirittura l’inanimato. La cortina alle loro spalle è di un blu tenebroso mentre sul loro corpo si accendono a tratti piccoli bagliori, come lucciole che appaiano improvvisamente in una notte d’estate senza luna.
Sono tutti elementi che concorrono a creare un’atmosfera incantata ed è un peccato che l’incanto venga un po’ bruscamente interrotto a causa del cambio palco. In The Wilderness la scena si amplifica, il fondale sembra costituito da carta argentata con chiazze dai colori cupi, che ricorda certe opere di Vedova. I danzatori entrano in scena a 3 o a 7 piroettando, indossando neri mantelli e sbattendoli come fossero le ali di pipistrelli spaventati all’accendersi di bagliori improvvisi. Oppure su una scena resa improvvisamente soffusa di luce, compiono una specie di rito con le braccia che si alzano e abbassano in omaggio al creato;
a volte si esibiscono invece in assoli trascinanti o dai gesti calcolati e perfetti.
Purtroppo non ho trovato online foto sufficienti a illustrare i vari passaggi. Per averne un’idea più precisa, si può guardare il video a questo link
La danza è costituita da 13 movimenti su musiche di Alex Somers, Sigur Rós, M83:
1. Intro
2. Dragonflies
3. Third Eye
4. Ibis Tanz
5. Frattale
6. Ice Fall
7. The Wilderness
8. Tornado
9. The Turing Machine
10. A Simple Canon
11. Away From Everything
12. Another Language
13. Outro [2].
È sicuramente il lavoro che ho apprezzato di più fra quelli che ho visto. Unica pecca: avere almeno tre possibili finali che si sono perciò sovrapposti rendendo uno spettacolo ricco di immagini potenti e visioni poetiche un po’ troppo lungo e ripetitivo. Un particolare curioso: Lute è dedicato ad Alan Turing e in The Wilderness la macchina di Turing è protagonista del 9° movimento.
Come accennato sopra, alle performance di danza si sono alternate presentazioni di libri e conferenze. Molto suggestiva la “Conferenza danzata”. L’intento del relatore, Alessandro Pontremoli, è tracciare una sintesi della storia della danza occidentale in tutte le sue sfaccettature. Infatti già l’anno scorso aveva tenuto una conferenza sullo stesso tema a Milanoltre e così riprende il discorso da dove l’aveva lasciato, ossia dal Cinquecento. Da un secolo all’altro le funzioni e i canoni della danza si trasformano di pari passo con i mutamenti sociali, quindi nel rapporto degli esseri umani con il proprio corpo che si esprime nei gesti quotidiani, e le mode delle varie epoche. Resta però immutato il suo ruolo socializzante.
Per esempio nel Cinquecento, le danze si svolgevano alle feste di corte e dovevano rispettare determinate regole, quelle delle “buone maniere”. Veniamo quindi a sapere che le buone maniere furono inventate dagli italiani, che poi le esportarono in tutto il mondo, e avevano una finalità estetica (il loro scopo era di mostrare la bellezza). Inoltre la danza aveva una funzione terapeutica (come del resto tuttora), quella di mantenere il nobile in salute.
Già alla fine del Q la danza aveva ricominciato a salire in palcoscenico, un evento che non si era più prodotto dai tempi degli antichi greci. Chi la praticava tuttavia non era considerato ancora un vero e proprio artista, ma un nobile che si esibiva davanti ai suoi pari.
In particolare a Milano e malgrado la dominazione spagnola (1530-1714) c’era una delle corti più splendenti, e una vocazione imprenditoriale già abbastanza forte si affermò in tutta la Lombardia dove si creavano stoffe intessute di metalli preziosi, poi esportate in tutta Europa. E questo spirito imprenditoriale si esplicava anche nella danza. A Milano operava Cesare Negri, uno dei coreografi più importanti dell’epoca, che nel 1602 pubblicò un libro in cui descriveva le danze di società e quelle da lui coreografate per la scena. Aveva inoltre una scuola di danza molto affermata e “teneva a bottega” dei giovani perché diventassero a loro volta maestri di danza.
La prima danza del Cinquecento che il professore ci presenta si chiama “Spagnoletta”. L’uomo indossa un manto nero con bordi dorati, un cappello nero a larghe falde e la culotte al ginocchio; nel Cinquecento il nero andava molto di moda soprattutto fra gli uomini. La dama ha un ampio abito il cui colore s’intona con i bordi dorati del cavaliere. La danza consiste in piccoli saltelli e giravolte di avvicinamento e allontanamento, fino al commiato che avviene a più riprese con cenni del capo e inchini; prima esce il cavaliere e poi la dama.
Nel Seicento, la foggia degli abiti cambiò piuttosto decisamente mentre in Europa si andava creando un linguaggio coreografico comune riprendendo danze cinquecentesche come la “Gagliarda” e la “Pavana”. Ma soprattutto venne scritto un libro, The English Dancing Master, ristampato per quasi cent’anni in cui si riproponevano alcune danze, le English Country Dances, che risalivano all’epoca medievale ma riadattate al gusto dell’epoca. Nel libro ne vengono fissate le regole, il tipo di musica che le doveva accompagnare, le distanze da mantenere nello spazio. La Country Dance era ballata da tutte le classi sociali permettendo loro di mescolarsi. Prima si diffuse in Francia e poi in Europa: in Italia venne “maccheronicamente” tradotta “contraddanza”. È un ballo di gruppo che segue certi moduli precisi, prese e figure. Il relatore ce ne dà una breve dimostrazione insieme a delle danzatrici, sua moglie. Infatti i danzatori che le interpreteranno dopo di loro, causa Covid dovranno usare espedienti appositi per non toccarsi le mani e le braccia. Sono danze modulari: hanno una struttura strofa-ritornello dove a volte cambia la strofa, a volte il ritornello e a volte entrambi, però musicalmente seguono la medesima struttura. Fra le varianti troviamo le cosiddette longways, danze che si svolgevano con tante persone – a volte anche cento – disposte in lunghe file, da cui il nome. I musicisti ripetevano all’infinito la stessa melodia perché tutti dovevano ballare con tutti; così la prima coppia risaliva progressivamente la fila scambiandosi a ogni passaggio il partner.
La prima danza di gruppo a 4 che vediamo si chiama Rusty Tufty, tratta dalla raccolta di John Playford [3]. Rispetto alla prima a 2 (la “Spagnoletta”), è maggiormente armoniosa e tutta al femminile, ha movimenti molto più fluidi fatti ugualmente di saltelli e giravolte ma anche di passeggiate e scambi di partner nelle coppie; gli abiti delle danzatrici sembrano di raso, arricchiti di pizzi sullo scollo e la finitura delle maniche.
La terza danza è ancora a 4 ma stavolta le coppie sono miste, uomo-donna, e si chiama Parsons, sempre tratta dalla stessa raccolta; seguiranno Dargason e Picking Crossing. La Parsons è una danza molto impegnativa ma dà anche molta soddisfazione a chi la esegue; la Dargason è una danza a 6 e si svolge lungo una linea, il professore la chiama un po’ “bauschana”, mentre Picking Crossing è molto divertente, con una serie d’intrecci simili a quelli della danza popolare perché veniva ballata dai nobili insieme ai contadini durante le feste estive all’aperto. Rispetto alla “Spagnoletta”, sono danze più semplici perché si basano sul passo doppio mentre la prima era composta di una serie di saltelli e piccoli movimenti di assoluta maestria che però dovevano sembrare perfettamente naturali. Al contrario questi balli sono maggiormente ariosi, con un uso più ampio dello spazio, incroci (Picking Crossing), scambi di coppia su una o due file e in cerchio. E soprattutto in Picking Crossing, la musica è molto più vivace. Seguono Mister Beveridge’s Maggot e The Hole in the Wall, entrambe più complesse delle altre che venivano eseguite anch’esse in lunghe file (ma qui i danzatori sono solo 6), e Saint Martin, ancora una danza a 4. A questo punto si può notare come man mano che ci si avvicina al Settecento, alcuni movimenti ci ricordino quelli del minuetto e della quadriglia, che s’imporrà nell’Ottocento.
Prima di passare al Settecento bisogna sapere che mentre fino a verso la prima metà del Seicento era l’Italia ad avere il primato della danza, durante la seconda metà, con il Re Sole, del primato si era impossessata la Francia.
Infatti nel 1661 Luigi XIV fondò l’Académie royale de dance, dove si formavano i danzatori, gettando le basi della danza accademica come la si conosce oggi, dalla prima fino alla quinta posizione. Il ballerino di punta dell’accademia era il re stesso, che avrebbe assunto il nome di Re Sole perché in una celebre coreografia, Le ballet de la nuit, aveva interpretato Apollo, il sole. E la danza diventò uno strumento di potere e della politica. Infatti il re obbligò tutta la nobiltà francese che cospirava contro di lui a trasferirsi a Versailles e a ballare otto ore al giorno; e chi ballava male, veniva degradato in relazione alla vicinanza con il re. La danza che si affermò a corte era il minuetto: se il nobile sapeva ballare il minuetto poteva restarvi, altrimenti veniva allontanato. I nobili inauguravano le feste con il minuetto e lo danzavano avvicinandosi progressivamente al re; inoltre danzavano esattamente come i professionisti, con la stessa tecnica. Il minuetto era inserito in suite di cui facevano parte danze come la Bourrée e il Passepied.
Nel nostro caso, il minuetto ci viene presentato da un’unica ballerina, che interpreta sia la donna sia l’uomo con una serie di gesti molto raffinati ed espressivi, cui fanno seguito accenni di Bourrée e Passepied. Si sanno ricostruire esattamente le danze settecentesche perché alla fine del Seicento, per la prima volta, fu inventata un’annotazione grafico-simbolica da Pierre Beauchamp [4], una tecnica che però nel 1700 gli fu rubata da Raoul-Auger Feuillet [5] e da lui pubblicata attribuendosene il merito. Per ristabilire una giustizia storica, ora la tecnica si chiama di Beauchamp-Feuillet.
Ora si entra nell‘Ottocento, un’epoca molto meno castigata del Settecento (la danzatrice in scena ha le spalle scoperte e un abito rosso vivo), quando l’Italia riprese il primato della danza con la nascita del balletto accademico le cui regole fissate da Carlo Blasis – danzatore, coreografo e teorico – servirono a portare al Teatro alla Scala una drammaturgia storica e mitologica. Sempre a Milano, negli anni ’20 Salvatore Viganò – ballerino, coreografo e compositore– elaborò una danza neoclassica dalla dimensione corale, il coreodramma. Circa vent’anni dopo tuttavia, risalì alla ribalta la Francia con Giselle per la cui creazione un coreografo, un musicista e un librettista unirono le forze per dare vita a un’opera di danza. Infatti in precedenza, la danza entrava in scena durante l’esecuzione delle opere liriche e le coreografie, per quanto lunghe, venivano spezzettate e rappresentate fra un atto e l’altro per alleggerire l’atmosfera drammatica dell’opera (come le nostre interruzioni pubblicitarie?). Nell’Ottocento nacque anche il valzer come lo conosciamo oggi. In realtà le sue origini risalgono al Cinquecento ma mentre fino all’Ottocento la coppia restava aperta, con l’Ottocento si chiude con l’uomo che prende anche l’altra mano della donna. Dall’Europa, il valzer venne esportato nelle Americhe diventando, come è tuttora, una danza internazionale.
Ora davanti ai nostri occhi, la ballerina vestita di rosso volteggia sul palco da sola mentre il cavaliere – che pure è presente – si limita a guardarla, volteggiando a distanza con lei, non molto convinto, solo sul finale.
Infine il professore ci mostra una quadriglia, l’erede ottocentesca delle danze di Playford e con la stessa funzione sociale, suggerendoci di pensare al Gattopardo, contesto perfetto per questo ballo. E se tutto va bene, il prossimo anno la “Conferenza danzata” riprenderà proprio dal Gattopardo, dalle quadriglie e dal valzer però si spera ballato in coppia, e si concentrerà sul Novecento che sarà il suo tema centrale.
https://www.facebook.com/watch/live/?v=339781073752657&ref=watch_permalink
Anche la presentazione dei due libri – Enzo Cosimi. Una conversazione quasi angelica. 10 oggetti per uso domestico, a cura di Maria Paola Zedda, e Tempo perso. Etica dell’inazione e coreografia contemporanea, di Stefano Tomassini – è stata molto stimolante. In particolare mi è parso che il lavoro di Maria Paola Zedda avesse uno sguardo originale, presentandoci il danzatore-coreografo nell’ambiente domestico, nel suo rapporto con il quotidiano. L’opera di Stefano Tomassini è più teorica e fa parte di una sua ricerca-riflessione sul rapporto fra la danza e le arti contemporanee.
Note:
[1]. La questione un po’ curiosa e preoccupante è che, dopo ben due guerre mondiali scoppiate in Europa, il cuore dell’Occidente, nel 1967 ne viene presentata una nuova versione, che rielabora quella realizzata nel dalla Compagnia Carlo Colla & Figli, al Maggio Musicale Fiorentino grazie all’opera di Filippo Crivelli che riproponeva lo spettacolo con danzatori in carne e ossa. Nelle due stagioni successive lo spettacolo dei Colla entra nei cartelloni della Piccola Scala di Milano e del Festival dei Due Mondi di Spoleto. Da quel momento, riprende la sua fortuna: diventa uno degli spettacoli-simbolo fra i più rappresentati della Compagnia Carlo Colla & Figli … (tratto da https://www.teatrionline.com/). In seguito (come si legge su Wikipedia): “Nel 1983 e nel 1984 il Ballo Excelsior viene allestito, con grande successo di pubblico, all’Arena di Verona. “Sul finire del secolo è stato riproposto a Roma prima dall’Accademia Nazionale di Danza (estate …) e poi dal Teatro della Tosse (giugno 1999 alTeatro Eliseo)”. Infine: “alla Scala di Milano è stato allestito per festeggiare l’arrivo del nuovo millennio con Roberto Bolle , Massimo Murru e Isabel Seabra e presentato poco dopo in tournée all’ Opéra Garnier di Parigi”. Si ha notizia di un’ultima versione per marionette, molto edulcorata, realizzata e rappresentata dal Teatro dei Piccoli di Vittorio Podrecca e dei Fratelli Colla di Milano nel maggio 2015 (notizia tratta da https://www.teatrionline.com/).
[2]. 1. Introduzione, 2. Libellule, 3. Terzo occhio, 4. Ibis Tanz (danza in coppia su tappeto rosa con danzatori scalzi in tuta rosa); 5. Frattale, 6. Caduta di ghiaccio, 7. La natura selvaggia, 8. Tornado, 9. La macchina di Turing, 10. Un canone semplice, 11. Lontano da tutto, 12. Un altro linguaggio. 13. Outro (titolo di una composizione degli M83).
[3]. Editore e compositore musicale inglese del Seicento.
[4]. Danzatore, coreografo e musicista francese, dal 1680 direttore dell’Académie royale de danse.
[5]. Anche lui maestro di danza dell’Académie royale.