Mini dossier fantascienza – 8
a cura di Mauro Antonio Miglieruolo
Tuffo nel passato
Un tuffo nel passato, risalendo e raggiungendo la bella età dei quattordici-quindici anni, un’età in cui si è ignari del mondo, ma in cui ancora il mondo è in grado di produrre effetti duraturi su di te. Non certo l’età più bella e però la più proficua. In quell’età feci le mie scelte, che ancora oggi non rinnego. L’età (letterariamente parlando) della svolta.
Quando sulla bancarella gestita da una vecchina che un mio amico d’allora chiamava poco rispettosamente “vecchia rimbambita”, pur rimbambita non essendo per niente, scoprii insieme ai “I Romanzi di Urania” la meravigliosa serie degli “Urania Rivista”, che mi intrigò molto più della stessa ineguagliabile serie maggiore (I Romanzi d’Urania, appunto).
Iniziai a frequentare quella bancarella subito dopo aver comprato, con i primi soldi risparmiati andando e tornando a piedi da scuola (risparmiavo le trenta lire giornaliere del biglietto), il mio primo Urania, Il Pianeta proibito (n 148). Una lettura quella che produsse grande delusione, delusione che non potei correggere subito per mancanza di fondi.
Delusione che non fu sufficiente a distogliermi dalla decisione che qualche tempo prima avevo assunto. Una motivazione del tutto irrazionale. La decisione, della quale mai ho saputo scoprire cosa l’abbia determinata, di eleggere la Fantascienza, prima ancora di aver avuto un fascicolo tra le mani, mio genere preferito. Un giorno mi balenò il pensiero che quel che faceva per me, che avrebbe fatto decollare la passione per la lettura non poteva che essere la fantascienza e dal quel pensiero non mi sono mai staccato. Non allora, nonostante “Il pianeta proibito”, non dopo, negli anni ottanta, quando il moltiplicarsi di testi mediocri mi convinse a sospendere le letture, non la predilezione per il genere.
Ma ecco, subito dopo “Il Pianeta Proibito”, la scoperta della bancarella della “vecchia rimbambita”, vecchia energica e lucida, se mai ve ne furono. Da lei e per lei, che con invidiabile intuito, non appena mi accostai, mi indicò la zone della bancarella dove avrei potuto trovare ciò che sicuramente mi piaceva, la scoperta dei quei meravigliosi fascicoli, che il prezzo ridotto mi permetteva di moltiplicare quanto a numero di acquisti: i grandi rimasti tali e ineguagliati; e i buoni autori, Clarke, Wyndham, Russell, Miller (Gorilla Sapiens, vertiginoso già nel titolo), Leinster, Vance ecc. in testa, che contribuirono, al loro livello, a legarmi indissolubilmente al genere. La lettura di tutti questi autori sollevò il generico e ancor vago interesse al livello della passione irrefrenabile. Ogni risorsa economica, ogni pensiero iniziò a ruotare sui modi per procurarmene altri di quei fascicoli nei quali letteralmente mi immergevo. E dal quale emergevo bramandone di nuovi, per poter tornare in quelle atmosfere sospese tra favola e realtà, possibilità e immanenza, l’inenarrabile che prendeva forma e sostanza di testo. Avido di sempre nuovi fascicoli, facilissimi a trovarsi negli anni cinquanta e sessanta, una vera miniera d’oro quella bancarella, per tutta quell’epoca me ne rimpinzai, senza per altro saziarmi. Non potevo saziarmi. Immerso in un sovrastante grigiore quotidiano fatto di miserie, angustie e mediocri prospettive, quei sogni pieni (strapieni) di sotterranee allusioni alla attuabilità di stili di vita differenti, pieni di meraviglie intorno al possibile e all’impossibile, rappresentavano un sicuro rifugio, una garanzia di sanità mentale. Ero sedotto e direi pure travolto, senza che ne avessi coscienza, dalla qualità e grandezza dei temi svolti; e dal modo rivoluzionario di concepire la letteratura che Urania e Scienza Fantastica (seguiti più tardi da Galaxy, Cosmo Ponzoni, Galassia, Futuro Aldani, Interplanet e infine Robot) avevano inaugurato. Non ci si confonda, però. Il carattere rivoluzionario di quei testi non risiedeva tanto nel modo nuovo e in parte originale di procedere verso il futuro; ma proprio dal vecchio che la fantascienza aveva promosso, dopo averlo ereditato: il recupero degli aspetti più ludici della letteratura, dell’avventuroso e dell’epico, che nella prima metà del Novecento le Avanguardie avevano decisamente ricusato. Cioè il rifiuto del romanzo in quanto romanzo, in quanto scrittura e esperienza ludica; e in quanto strumento per affrontare i grandi enigmi e grandi temi che agitavano i sonni degli ideologi e dei filosofi, azzardandosi persino a denunciare senza timidezze le pesanti tare di inciviltà e arretratezza che gravavano sull’umanità. Che era prevedibile continuassero a gravare sulla umanità ultratecnologica non nel futuro, ma nel lontano futuro. Oggi sappiamo che quei dubbi, più o meno sotterranei, più o meno frutto di una coscienza matura, non erano gratuiti.
Già allora, pur con strumenti critici molto più rozzi e inefficaci, mi resi conto e per questo rendermi conto amai di più la fantascienza, che si poteva fare letteratura senza bisogno di ricorrere alle raffinatezze (alle fredde e spesso astratte raffinatezze) degli avanguardisti; che si poteva scrivere buona letteratura senza lo spropositato bagaglio di cultura che tanti scrittori militanti esibivano. Cultura anzi che a volte sbattevano in faccia ai loro lettori. Sia quando occorreva, sia quando non occorreva. In ambedue i casi per scelta, per adesione intellettualistica alla cultura. I grandi del passato, Dante, Ariosto, Shakespeare, non esibivano questa loro cultura, tant’è che non esitavano a appellarsi alla “pancia” dei loro contemporanei; se ne servivano per alzare il livello del “prodotto finito”, per approfondire e trascinare verso l’alto il lettore. Non l’avevano come idolo, come meta la raffinatezza, un elitario modo di sentire. Manifestavano il loro essere, la loro passione per l’espressione compiuta delle passioni umane. Al contrario di molti artisti del Novecento, specialmente primo Novecento, che consideravano deteriore essere “popolari”.
Chi è ancora oggi in grado di leggere anche il più semplice Ulisse di Joyce (per non parlare della “Veglia di Finnegan” del quale non sono mai venuto a capo) senza faticare? Senza essersi muniti di una formazione che sempre meno è alla portata dell’uomo della strada? E Joyce è uno dei grandissimi del Novecento: immaginiamo la fatica e la noia che autori molto meno pregnanti e molto meno dotati di genio per la scrittura producevano nei lettori! Ma Joyce è giustificato dal risultato, anche se diminuito (Finnegan’s Wake) dall’insistito avanguardismo, quasi un’esibizione. Tuttavia responsabile di aver troppo insistito nel percorso che si era scelto, che era quello della ricerca per la ricerca, per il gusto di vedersi in questo ruolo. Perché non è colpevole chi è (colto e raffinato), sarebbe assurdo sostenerlo, ma chi si mostra e si compiace di mostrare d’esserlo. E invece ecco il sopravvenire di questi scrittori naif, dei quali ripeto compiacendomene (aumentandoli) i nomi: Van Vogt, Hamilton, Williamson, Sturgeon, Heinlein, Hubbard, Brackett, Dick, Silverberg, Pohl, ecc. ecc. che invece, pur spaziando sui grandi temi del senso dell’essere al mondo, sui doveri che questo essere al mondo comportava, sulla natura e gli scopi della vita, sapevano affascinare mille volte più degli autori che l’ufficialità segnalava come maggiori.
Tra le collane che scoprii sul carrettino (a giochi ormai fatti: la collana era stata da tempo chiusa) una menzione particolare merita “Urania Rivista” serie che più delle altre ebbe il merito di prepararmi alla scoperta successiva della meno letteraria e più antica e vertiginosa, molto più vintage, Scienza Fantastica (molto più fantastica Scienza Fantastica). Ambedue le collane, pur di breve durata, ebbero una profonda influenza sul mio modo di sentire e concepire la fantascienza. Ambedue ebbero a produrre, oltre che diletto nella lettura, grande frustrazione. Rammento che, completata la raccolto dei primi 14 numeri, per anni cercai (inutilmente) il quindicesimo, o l’ottavo di Scienza fantastica. Per anni mi aggirai per le edicole e le librerie dell’usato per sperare nella scoperta di un numero ancora delle bellissime collane. Senza per altro rassegnarmi al fatto di non trovarle. Da buon fantascientista ponevo il mio desiderio davanti alla realtà. Aspiravo a cambiare il presente attraverso la finzione consolatoria che fosse diverso da quello che con tutta evidenza era. Solo quando presi i primi contatti con il fandom e appresi dell’effettiva prematura fine delle due riviste mi piegai alla suprema ragione e concretezza della realtà. Il mondo aveva preso una strada diversa da quella da me auspicata, dovevo lavorare su quella nuova strada, non più sulla vecchia. Da buon fantascientista, anche su questo punto da buon fantascientista, mi adeguai senza più recriminare.
Tra le tante collane che rammento (ben venti) quelle che più mi hanno affascinato sono le numero uno di ciascuna. Sarà perché ogni inizio possiede un suo fascino particolare e magari viene letto con attenzione particolare, ma il primo numero è quello che meglio rappresenta il tutto della serie. Le copertine di questi numero uno cui mi riferisco pur essendo molto diverse tra loro, sono però unificate dalla capacità di affascinare e fornire il senso pieno di ciò che il lettore troverà dentro. Ma anche il due e il numero tre. La personalità della serie ben rappresentata infatti in quei primissimi fascicoli in cui prende corpo. L’illustratore, attingendo chissà dove (presentendo il futuro?), riesce bene a fornire il lettore di che farsi una idea di quel che troverà dentro. Quel che troverà nel fascicolo che ha avuto la ventura di reperire e in quelli che riuscirà a procurarsi. Non parlo della sola tendenza o inclinazione della serie, ma della stessa importanza dei testi. Forse perché generalmente la qualità della copertina non è molto distante da quella del testo. Ma forse anche perché il lettore interpreta la copertina in modo da trovare nel fascicolo ciò che esattamente vuole. Completando in questo modo l’opera di valorizzazione intrapresa dall’illustratore. O, infine, forse semplicemente perché quello che vuole (sono abbastanza sicuro che questo vale per gli altri: sicuramente vale per me) è, almeno all’inizio, qualsiasi cosa in grado di farlo sognare. Questi, oltre all’inventiva di tanti scrittori, è il motivo per cui la fantascienza è sempre stata piena di cose in grado di far sognare. Il suo valore aggiunto: la perfetta combinazione tra lettore e scrittore, fenomenologia specifica della letteratura di fantascienza.
Prendiamo ad esempio al copertina del n. 1 di Urania Rivista. I diversi inauditi elementi. La Grotta, Lo Scimmione Alato, l’Astronave in panne sullo sfondo – un’astronave deliziosamente improbabile, con il muso ammaccato – i due astronauti acquattati o in procinto di acquattarsi. Tutti elementi, si dirà, adattissimi a solleticare i gusti approssimativi di un adolescente. Tutti elementi, dico io, senza vergognarmene – anzi, vantandomene – che a tutt’oggi producono gradevoli sensazioni in me. Che mi permettono di spogliarmi dei miei panni e di vestire quelli più gradevoli non degli avventurosi che vi sono rappresentati, ma del cittadino finalmente consapevole di se stesso, del suo diritto a una vita piena, libera dalle pastoie burocratiche, dalle facce sempre più feroci che lo Stato presenta, dalle angustie degli avidi miliardari, miserabili esseri che nella vita conoscono solo quello: la possibilità degli altri miliardi da accumulare. Quando invece esiste la possibilità (vedi copertina n. 2) di astronavi, nelle quali prendere posto, che procedono nel vuoto dello spazio stellato; uomini con tre occhi e che perciò stesso aprono a possibilità di vita infinite: aprono la strada a coloro che ne hanno “solo” due, o solo uno, costruendo un mondo non omologato, il mondo del possibile, una realtà quantistica. Quando invece esiste la possibilità di sognare, al riparo nelle propri case (n. 3), battaglie stellari tra astronavi e dischi volanti, o (n. 4) paesaggi lunari bellissimi illuminati da un chiaro di Terra inconcepibilmente bello, dato per illuminare una realtà inconcepibilmente bella: la realtà dell’invenzione della vita, sotto la specie dell’invenzione tecnologica, che la prima rende attuabile.
Scienza Fantastica invece mi ha colpito per il diverso formato e l’accentuata propensione naif delle immagini. Non solo: Scienza Fantastica aveva il merito-demerito di portare con sé il mondo d’anteguerra, la sensibilità e lo stile degli anni quaranta, che oggi è visibile nelle copertine (e confrontabile) nelle collane popolari e persino nella pubblicità dell’epoca. Una testimonianza del recente passato travestita dal desiderio di futuro. Anche le storie all’interno, letterariamente più deboli, conservavano più e meglio della collana Mondadoriana la sensibilità che stava morendo e che si manteneva nelle spoglie di quella nuova in formazione.
Altro elemento che la mantiene nelle mie preferenze, quantunque consapevole delle minore densità letteraria, è la semplicità essenziale delle illustrazioni e dei racconti. Ambedue adatti a quell’andare al sodo di cui all’epoca abbisognavo (andare allo spazio, all’avventura senza limiti, alla fantasia grande, il mistero dello spazio e del tempo che raddoppiava quello della vita, che appena cominciavo a sperimentare), l’una vinceva in quanto più immediata, più descrittiva; mentre l’altra, più elaborata e consona al gusto dei tempi, moltiplicava gli allettamenti già nei titoli, nei nomi esotici degli autori, incolonnati sulla destra, finendo con lo stravincere nella competizione (per perire poi a sua volta).
Chi le guarda oggi forse penserà male di me, non riterrà appropriate queste parole. Il fatto è che le emozioni di allora, quell’essere trascinati a forza dentro prospettive ampie, molto più grandi di quelle che offriva la provincia italiana, possedevano una forza che nella realtà di oggi forse è diventata invisibile (forse pure inefficace). Teniamo presente che anche Roma, dove pure abitavo, era una provincia rispetto all’Impero di allora; una italietta uscita dalal guerra povera di risorse materiali e intellettuali, ma ricca di volontà e di speranze. Forse è a quelle speranze che la fantascienza di quegli anni si aggrappò per realizzare il fulminante successo che ottenne (si parla di una tiratura di 50-60.000 copie per i Romanzi di Urania; e due-trecentomila lettori a numero: non solo le bancarelle funzionavano da moltiplicatore, ma anche i singoli entusiasti lettori, che si trasformavano volentieri in propagandisti). Bisognerebbe vi fosse la possibilità di provare, anche solo per pochi minuti, le emozioni e l’intensità di quelle copertine, la loro capacità di far sognare e di trascinare nei Mondi Nuovi propria alla fantascienza tradotta in quegli anni (il meglio di una produzione ormai più che trentennale) per riuscire a accettare senza porre riserve queste mie considerazioni. Non si è trattato del solito rapimento che ogni generazione conosce, ma di qualcosa che si ripete molto raramente nella storia: di una ubriacatura generazionale che fece da spartiacque profondo tra il prima dell’irruzione della fantascienza e il dopo. Il fatto era che la nuova forma di lettura non si limitava a soddisfare la fame di nuovo e di esotico che cresceva in ognuno di noi; creava essa stessa questa fame, la moltiplicava per mezzo di una specie di fascinoso West moltiplicato per mille che rendevano irresistibili le pagine che andavamo leggendo. Le buone perché appunto buone; e le meno buone in ragione di quelle buone già lette e che facevano presentire e auspicare le altre che sarebbero seguite. Ogni fascicolo dunque era il condensarsi di speranze che o venivano realizzate o rimandavano a ulteriore momenti fortunati. Una promessa che ci bastava. E che solo intendendola con vasto sforzo immaginativo chi legge, non avendo vissuto quegli anni, può sperare di rendersi conto dell’importanza che il genere ebbe nella formazione dei tanti giovani di allora.
Certo, conta molto l’età acerba, la facile contentatura. Ma a quell’età altre letture, altre possibilità non operarono il medesimo effetto di trascinamento. Non dettero luogo a quella fusione straordinaria tra l’ingegno degli scrittori d’oltreoceano e dei disegnatori della riva opposta (che ben seppero interpretare: segno di un mondo che andava sviluppando una sensibilità comune, generalizzata), che produsse un entusiasmo e una adesione tale che solo il grande sogno di liberazione del Sessantotto avrebbe saputo uguagliare e persino superare. A questo proposito non esito a individuare nelle utopie che hanno percorso la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta il sogno di libertà e di autonomia decisionale che sottostava al senso generale di tanta fantascienza. Come “Sulla strada” di Kerouac, la cavalcate galattiche di improbabilissimi ma fascinosissimi eroi improntarono almeno questo: il desiderio di contare di più sulle proprie vite, di portare in esse l’elemento nuovo della autonoma decisione: della possibilità di essere e di contare.
Mauro Antonio Miglieruolo