Mirmema, per sgrovigliare senza la spada
Questo castoro atipico si aggira in quel groviglio che io – quando non mi sente nessuno – chiamo mirmema (è un fooooooooooolle acrostico per Migrazioni Interculture Razzismi Meticciato E Molto Altro). Per muoversi nell’intreccio, cambiare la trama, sciogliere i nodi bisogna studiare, dialogare, capire e applicare buone pratiche. Ai miei tempi la scuola ti rifilava in tutte le salse quella favoletta di Alessandro che tagliava il nodo gordiano con la spada; una barzellettina che anche gli ignoranti incravattati finiti a governarci ricordano e citano. Ma quasi sempre tagliare i nodi con la spada produce disastri. Ecco 10 libri fondamentali, presentati in ordine alfabetico (intendo per il cognome di autori-autrici) con qualche altro rimando.
Se non li potete comprare (grazie Giulio, grazie Silvio) leggeteli nelle biblioteche pubbliche… ancora aperte mi pare, nonostante Gelmini e soci.
«Richiesti e respinti» (Il saggiatore: 262 pag, 20 euri) è un bel titolo, rivelatore della schizofrenia che accompagna chi migra ma anche chi voglia ragionare di «immigrazione in Italia, come e perchè» (è il sottotitolo). Libro completo che in un capitolo affronta anche il caso «estremo» ovvero «il trattamento delle minoranze rom e sinti». Ben fatto, sempre documentato e con un linguaggio accessibile Ne è autore Maurizio Ambrosini, docente a Milano di sociologia dei processi migratori. Belle le citazioni – da Camilleri a Coetzee passando per Elle Kappa – in apertura di ogni capitolo. Un’analisi capace di guardare al futuro.
Giacomo Leopardi, Giovanni Papini, leggi razziali, ebrei, neri, fascismi, colonie, persecutori e soprattutto complici (in doppio petto) animano le pagine di «Spettri dell’altro: letteratura e razzismo nell’Italia contemporanea» (Il mulino: 228 pagine per 22 euri) di Riccardo Bonavita. Indagando fra romanzi e racconti svelano come la letteratura italiana abbia alimentato pregiudizi e bugie ma anche viceversa come cioè tanti sedicenti intellettuali siano stati megafono di teorie e pratiche razziste. Un buon libro che si può leggere in parallelo con altri tre (di Levi, di Perri e di Germinaro) che segnalo in coda.
Nel 2009 le Librerie Feltrinelli lanciarono la campagna «Il razzismo è una brutta storia» che tuttora campeggia su sacche e quaderni. Ad accompagnare l’iniziativa fu un libretto di Giuseppe Caliceti, insegnante a Reggio Emilia, che ora viene ampliato in «Italiani, per esempio» (Feltrinelli: 240 pag per 14 euri) con il sottotitolo «l’Italia vista dai bambini immigrati». Tenero, doloroso, involontariamente sarcastico, a tratti disperato o geniale: comunque da non perdere e da proporre nelle scuole…semprechè la signora Mariastella ne lasci qualcuna in piedi.
Imprevisto ma concreto (tant’è che esce una seconda edizione ampliata) il successo per «(H)ombre(s) migranti» ovvero «compagni di speranza» che Andrea Cantaluppi pubblica da Ediesse (230 pag, 12 euri) con la prefazione di Luisa Fantinel e una post-fazione di Pietro Soldini che in un certo senso trasporta questo libro nell’Italia dove lui è un dirigente sindacale impegnato nella difesa dei diritti. Le pagine di Cantaluppi infatti nascono altrove, sul confine (e sul muro) fra Usa e Messico, all’interno della lunga esperienza di lavoro volontario in una missione di religiosi scalabriniani. Interviste e riflessioni etiche, tragedie e politica, voglia di capire e confronto con il Vangelo, speranza e capacità di raccontare.
Chi conosce Armando Gnisci sa che, come l’Eta Beta dei fumetti, è capace di tirar fuori dal suo marsupio (cervello, in questo caso) ogni cosa in un mescolarsi dada e fecondo: infatti Platone e De Gaulle, Vespucci e Kapuscinski, Edouard Glissant e il museo italiano delle migrazioni, il principio antropico e santa Teresa si mescolano con Disney (appunto) e Chris (sarebbe Christiana De Caldas Brito), Nat King Cole e Roberto Saviano. «L’educazione del te» – titolo spiazzante, vero? – sorprende quasi a ogni pagina; eppure anche le domande più strambe («Che ci fa il Mediterraneo in mezzo al mondo?») ricevono risposte geniali e passpartout. Lo trovate (144 pag, 14 euri) in una nuova collana della Sinnos che si intitola «Nuovo immaginario italiano».
Chiunque poteva scaricarlo da www.terrelibere.org e moltissime persone lo hanno fatto. Ne era autore Antonello Mangano. Il titolo oltraggioso e geniale era «Gli africani salveranno Rosarno» ma subito sotto, la provocazione (o profezia?) continuava con «e probabilmente anche l’Italia». A partire dal ferimento nel 2008 di due africani, Mangano tornava indietro nel tempo per raccontare 10-20 anni di sfruttamento e mafia, di violenza e di Stato assente, di contraddizioni laceranti e di speranze. Poi all’inizio del 2010 i riflettori dei media si accendono (perlopiù malamente, in ritardo, senza capire) su Rosarno. Ora quel libro – ampliato, aggiornato e corredato di altri documenti – esce da Bur Rizzoli come «Gli africani salveranno l’Italia» (180 pag per 9,50 euri) con i contributi di Valentina Loiero, Tonio Dell’Olio, Giuseppe Lavorato e Fulvio Vassallo Paleologo. Un testo importantissimo e questo spiega perché così poco se ne parli.
Sul versante dell’attualità (ma fino a un certo punto, occorre sempre un minimo di respiro storico e qui c’è) «Atlantico latino: gang giovanili e culture tradizionali» prova a fotografare quel che accade nelle sottoculture migranti emarginate di Milano, Genova, Barcellona, New York ma anche Quito e Guayaquil. La definizione «atlantico latino» allude a uno spazio entro cui si muovono corpi migranti ma anche musiche, riti, memorie. Il curatore è Luca Queirolo Palmas, Carocci l’editore: 160 pagine per 15,50 euri. Se in Italia i servizi sociali funzionassero questo sarebbe uno dei testi per il loro aggiornamento professionale.
C’è la Calabria violenta (ma anche capace di speranza) che finisce sui media con il volto di Rosarno però nella stessa ragione esiste anche un’altra realtà che i giornalisti e i politici non sanno (o non vogliono) raccontare e capire, salvo poche eccezioni. Come titola Mario Ricca è «Riace, il futuro è presente» (Dedalo: 190 pag, 16 euri); più complesso ma intrigante il sottotitolo, «naturalizzare il “globale”, tra immigrazione e sviluppo interculturale». Che in alcuni Paesi della Calabria, immigrati e rifugiati invece di essere osteggiati e respinti siano chiamati e accolti è apparso talmente straordinario al regista Wim Wenders che ha deciso di farci un film. Ma oltre l’emozione e la bellezza dell’incontro qui c’è un caso politico da discutere. L’autore sceglie la via della metafora da giardiniere: sono «fiori nel deserto»? quali i petali e quali le spine? Cosa intravediamo dei frutti maturi e delle prossime gemme?
Siamo «Il paese delle badanti» spiega Francesco Vietti nel suo libro che esce da Meltemi (240 pagine, 20 euri). L’autore si muove – e ci fa viaggiare – fra Italia e Moldavia, tra villaggi e città, fra la Western Union (quella concreta ma anche la sua metafora), e le code e/o sanatorie. Molto belle anche le foto. Forse un lettore o una lettrice davvero incontentabile avrebbe potuto chiedere una sola cosa in più: riflettere a fondo su quanto il lavoro di cura (realizzato o negato, vilipeso o messo al centro) sveli diverse idee del mondo e denunci una persistente cecità – soprattutto maschile – sulla civiltà dell’oggi. Ma forse per scavare abbastanza a fondo serviva – o servirà – un altro libro.
Fra le molte antologie che potrebbero avere per sottotitolo «Gli scrittori stranieri raccontano l’Italia» a me pare che questa intitolata «Permesso di soggiorno» (Ediesse: 216 pag, 10 euri) sia una delle migliori. Nomi noti e meno: Adrian Bravi, Laila Wadia (con due racconti), Gabriella Kuruvilla, Muin Masri, Ingy Mubiayi, Karim Metref, Tahar Lamri, Carmine Abate, Cheikh Tidiane Gaye, Paul Bakolo Ngoi, Mao Wen con un reportage fotografico («Quando emigravamo noi») di Mario Dondero più tre scrittori che dovrebbero essere conosciuti a chi sbircia questo blog: Kossi Komla-Ebri. Mihai Mircea Butcovan (con 2 racconti) e Hamid Barole Abdu che fra l’altro è il mio “socio di scena” in «Le scimmie verdi». Interessante la postfazione di Angelo Ferracuti come l’introduzione di Enrico Panini. Non per pignoleria ma faccio notare che non solo di scrittori ma anche di scrittrici si tratta e che dunque il sottotitolo avrebbe dovuto evidenziarlo: non se ne può più di un linguaggio (e di uno sguardo sul mondo) sempre al maschile e infatti l’Italia è uno dei pochi Paesi dove ancora accadono queste “distrazioni”. A parte questo peccato di linguaggio, il volume è eccellente. Il quadro che emerge da questa antologia – magari messa a confronto con la simile, «Rondini e ronde», di cui si è già parlato – dice molto sulla situazione che attraversiamo; ci tornerò con un’analisi dettagliata dei racconti.
A questi 10 libri ne aggiungo una manciata che mi sembrano interessanti ma (confesso!) sinora li ho solo sfogliati.
In primo luogo quello di Laura Boldrini, portavoce in Italia dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e detestata dal ministro Maroni (io lo considero un titolo di merito per lei): il suo «Tutti indietro» esce da Rizzoli.
Sulla delicatissima ma soprattutto inquietante persecuzione dei rom sono usciti molti testi interessanti e ne voglio ricordare almeno uno, pacato e documentato: «Rom e sinti in Italia: fra stereotipi e diritti negati», curato da Roberto Cherchi e Gianni Loy per Ediesse.
Titolo duro ma purtroppo necessario, realistico quello scelto dall’editore Melampo e da Giuseppe Civati: «Regione straniera: viaggio nell’ordinario razzismo padano».
Non solo un problema del Nord-Italia il razzismo. Purtroppo, tant’è che Antonio Esposito e Luigia Melillo hanno curato «A distanza d’offesa» ovvero «cronache di razzismo quotidiano, la questione migranti in Campania», con una prefazione di Alex Zanotelli, pubblicato dalla casa editrice A est dell’equatore.
In qualche modo paralleli al libro di Bonavita sopra citato tre testi freschi di stampa: «Costruire la razza nemica» (Utet) di Francesco Germinario, «La persecuzione antiebraica dal fascismo al dopoguerra» (Zamorani) di Fabio Levi e «Il caso Lichtner» (Jaca Book) di Giuseppe Perri.
Intorno alla tragedia di Erba e a vicende simili Rosetta Loy ha costruito alcuni racconti che ora escono in «Cuori infranti» (Nottetempo); ma sul delitto del “buon vicino di casa” vorrei anche consigliare una approfondita analisi del 2007: «Il mostro quotidiano» (Città Aperta) ovvero «il caso Azouz Marzouk e la costruzione della notizia» di Marco Ovipari; sul blog ne ho già parlato.
Si torna al meridione con «Vite clandestine» (Gesco edizioni), un’opera collettiva curato da Andrea Morniroli: «frammenti, racconti e altro sulla prostituzione e la tratta degli esseri umani in provincia di Napoli».
Vinicio Ongini e Claudia Nosenghi: «Una classe a colori» è un manuale «per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri», edito da Vallardi: vale il discorso linguistico già fatto prima (per gli scrittori)… e le straniere? Chi non viene nominato resta nell’ombra: è così difficile da capire… e correggere?
Su via Padova, ormai etichettata come il «quartiere più multi-etnico di Milano» il giornalista Matteo Speroni ha scritto un romanzo, «I diavoli di via Padova» (Cooper). Se ci sono i diavoli da qualche parte ci saranno gli angeli, no?
Gian Antonio Stella continua il suo prezioso lavoro sulla nostra memoria: «Il viaggio più lungo, l’odissea dei migranti italiani» esce da Rizzoli.
Il direttore di «Famiglia cristiana», Antonio Sciortino, ha scelto la via del saggio: «L’immigrazione, la Chiesa e la società italiana» (da Laterza) è un libro abbastanza ottimista. Evviva.
Molto chiaro il titolo scelto da Riccardo Staglianò per il suo reportage: «Grazie: ecco perché senza gli immigrati saremmo perduti» (Chiarelettere).
Nuova ristampa da Emi per «Fogli di via», venti storie di clandestini trasformate in favole e allegorie (alcune davvero molto belle) da Giampaolo Trevisi, un poliziotto anzi il capo della squadra mobile di Verona.
Poi c’è l’instancabile Mauro Valeri che pubblica due volumi che sembrano interessantissimi (ne riparlerò): «Che razza di tifo» da Donzelli e «Negro, ebreo, comunista» da Odradek.
BOX: famiglie globali fra assenze, badanti, sbadati e lavori di cura
Cancelleremo dal vocabolario (e dalla legislazione?) la parola «famiglia»? Del tutto? O la sostituiremo con «famiglie»? Accadrà presto? E se così sarà dobbiamo considerarlo un bene, una catastrofe o un normale mutamento come altri ve ne sono stati nella storia del “vivere insieme”?
Mentre in Italia si riflette – molto nei libri, meno e/o in modo più isterico nel dibattito sociale e politico – su questo tema epocale (scusate: mi è scattato l’aggettivo, forse un poco esagerato) vale fare i conti con un aspetto collaterale ma importantissimo e non solo dal punto di vista economico.
Come scrive Paola Bonizzoni «ormai da anni, il nostro Paese trae beneficio dal lavoro domestico e assistenziale di donne migranti (…) che si allontanano dai figli, dalla famiglia, dalla casa natia»; solo di recente «la sociologia ha cominciato a prendere seriamente in analisi questa spiccata connotazione femminile e familiare del fenomeno migratorio».
Grazie anche alle ricerche del Limes (Laboratorio immigrazione, multicultarlismo e società dell’Università di Milano) Paola Bonizzoni affronta la dimensione transnazionale e i temi collaterali, dalla maternità a distanza ai ricongiungimenti e allo sforzo delle madri espatriate «per esercitare ruoli genitoriali nonostante il tempo e le distanze».
La ricerca è uscita pochi mesi fa da Utet (230 pagine, 19 euri) col titolo «Le frontiere della maternità», con la prefazione di Maurizio Ambrosini. Nell’indice spiccano titoli (molto suggestivi pur nel rigore scientifico) come «catene, doro, sangue e amore: le reti familiari transnazionali» oppure «ricollocare legami: di nuovo insieme sotto un diverso tetto».
Un approfondito lavoro di analisi che si avvale di 65 interviste con persone di origine straniera (America latina, Romania, Moldavia, Filippine): 35 le madri, 9 i padri e 21 i figli adolescenti (8 maschi e 13 femmine). Altre 15 interviste coinvolgono testimoni privilegiati cioè assistenti sociali, psicologi, mediatori, culturali, educatori e ricercatori. Ma il linguaggio neutro ancora una volta nasconde che molte di queste persone sono donne.
Come ho accennato qui sopra (a proposito del libro di Vietti) le nostre riflessioni sulla famiglia, sul rapporto giovani-anziani e sul lavoro di cura sembrano mutilate (una consapevole censura?) di una riflessione sul perché questa società non sia capace di mettere gli affetti al centro e comunque deleghi alle donne (e/o a persone “straniere”) un lavoro che non è solo assistenza ma dovrebbe nutrirsi anche di amore, condivisione, empatia. Noi sbadati (e sbadate), loro badanti.
Per chi fosse interessato a riflettere su questa “mutilazione” e invece sulla potenzialità che potrebbe aprirsi se gli affetti fossero ripensati come centralità politico-sociale, rimando a due voci molto stimolanti – Cura di Barbara Mapelli Politica di Chiara Zamboni – dentro il volume «Il dolce avvenire» (Diabasis: 16 euri per 348 pagine) curato da Alessandro Bosi, Marco Deriu e Vincenza Pellegrino.
Queste recensioni e segnalazioni usciranno su un prossimo numero della rivista «Come solidarietà». Come sempre quel che scrivo non è sottoposto ai vincoli di un ambiguo “diritto d’autore” e dunque può essere ripreso del tutto o in parte purchè non a scopo di lucro; mi sembra però corretto citare la fonte.