Moncler e dintorni: affari d’oro in Romania
di Saverio Pipitone (*)
«Tranquilli! Tranquilli! Son sempre io, gran gallo, l’unico paninaro professionista, troppo giusto!». Molti ricorderanno le battute del comico Enzo Braschi nello show televisivo Drive In su Italia 1 o nel film Italian Fast Food degli anni Ottanta.
I paninari erano all’epoca giovani benestanti urbani abbigliati rigorosamente con autentico e costoso vestiario griffato. Uno degli indumenti che portavano come status symbol è il piumino Moncler, acronimo della località francese Monestier de Clermont dove nel 1952 l’omonima impresa produttrice fu fondata dall’artigiano d’attrezzature da montagna René Ramillon. In origine fabbricava solo sacchi a pelo e tende, mentre i primi giacconi imbottiti vennero realizzati come abiti da lavoro per i propri operai nel 1954. L’alpinista Lionel Terray li notò proponendone una speciale linea per le scalate e nello stesso anno il piumino equipaggiò la spedizione di Lino Lacedelli ed Achille Compagnoni con la conquista della vetta del K2 scalando gli 8.609 metri della seconda montagna più alta del Pianeta.
Dal 1992 Moncler è italiana con quartier generale a Trebaseleghe in provincia di Padova, dal 2013 è quotata alla Borsa di Milano e oggi produce per l’80% il tradizionale capospalla e per il 20% maglieria, calzature e accessori, con articoli di lusso che costano fino a 1000 euro, distribuendoli in 260 boutique, di cui 200 a gestione diretta, in 70 Paesi fra Europa, America e Asia.
La fabbricazione è delocalizzata in Romania e per anni è stata affidata ad Antonello Gamba. Lui è un imprenditore bergamasco che nel 1987 prese “ago e filo” per trasferirsi in territorio romeno, fondando le imprese Wear Company e Sonoma, con l’apertura di un opificio tessile di 33.000 metri quadri a Bacǎu. Dava lavoro a 5mila persone, pagandoli l’80% in meno rispetto a uno stipendio medio italiano. «Sino a fine anni Novanta è stata una pacchia» diceva Gamba ai giornalisti che lo intervistavano, ma poi i romeni, stanchi della miseria dei salari, presero “armi e bagagli” per emigrare alla ricerca di una vita migliore nel ricco Ovest.
Il Gamba restò a corto di manodopera ed ebbe l’idea di importarla. Nel 2006 fece arrivare dalla Cina 400 operai, con contratti biennali o triennali legati al permesso di soggiorno, per lavorare dalle 40 alle 60 ore settimanali; unico giorno di riposo la domenica. La paga mensile era di 350 euro, a cui erano sottratti oltre 100 euro per vitto e alloggio dentro la fabbrica: cibo scarso e fatiscenti dormitori con letti a castello di tre piani.
I cinesi non resistettero a lungo e nel 2007 scioperarono, reclamando paghe più alte e migliori condizioni di lavoro e di vita: non ottennero nulla e molti di essi tornarono in Cina. Quelli che restarono continuarono a essere sfruttati, compresi circa 500 operai giunti dal Bangladesh nel 2008. Nel medesimo anno uno dei lavoratori cinesi andò nel centro di Bacǎu con addosso un cartello per attirare l’attenzione sul fatto che stava per scadergli il contratto e l’azienda non lo aveva pagato, trovandosi senza denaro per tornare a casa: «Niente soldi, niente Cina, niente domani». Gli asiatici dovettero pure indebitarsi con le agenzie interinali o mezzani dei Paesi d’origine che li selezionavano per il lavoro e a cui pagarono una tassa di intermediazione dai 2.000 ai 3.500 dollari, ricorrendo ai prestiti bancari e ipotecando le abitazioni di famiglia.
Le cose non andavano bene nemmeno per i romeni che in quegli anni – nei commenti a un articolo di cronaca sulla fabbrica nel giornale online «Observator de Bacǎu» – lamentavano anonimamente: «non consiglio a nessuno di lavorare in Sonoma», «lo stabilimento sembra una prigione», «se vai in bagno più di due volte in quattro ore, vieni ammonito», «talvolta siamo morti di sete sino alla fine del turno», «gli straordinari non sono pagati».
Dopo avere raggiunto un giro d’affari dagli 11 ai 14 milioni di euro e utili di oltre 250.000 euro all’anno, la Sonoma di Gamba consegue nel 2014 per la prima volta una perdita di 770.000 euro, nel 2015 è insolvente e fallisce.
Nel 2016 Moncler rileva in affitto l’opificio perché “The low-cost production must go on”, vale a dire che anche nelle difficoltà la macchina dei profitti non può fermarsi, per poi acquistarlo nel luglio 2018 divenendone proprietaria. Vi lavorano circa 900 operai, di cui 300 provenienti dalla fabbrica tessile Dialma a Sărata nel distretto di Bacǎu, a cui Moncler commissionava la produzione: nel 2015 la comprò, per poi chiuderla al fine di accorpare le attività in un’unica struttura nell’ambito del potenziamento della capacità produttiva diretta in un Paese definito come “l’eccellenza della piuma” con un programma di investimenti per 5 milioni di euro, prendendo aiuti pubblici dallo Stato romeno (oltre 3,5 milioni di euro) e usufruendo di una vantaggiosa legislazione del lavoro con salari minimi di 400 euro lordi e 250 euro netti mensili corrispondenti a 2,45 euro/ora: la retribuzione più bassa d’Europa.
Giuseppe Iorio – autore del saggio-reportage Made in Italy? Il lato oscuro della moda, edito nel maggio 2018 da Castelvecchi – ha un’esperienza trentennale da responsabile-tecnico della produzione per i più importanti marchi della moda di lusso ed è colui che nel 2014 contattò la trasmissione televisiva d’inchiesta «Report» portandola fino in Transnistria per svelare cosa c’è dietro l’industria tessile che per fare i miliardi tratta i lavoranti quasi ai limiti dello schiavismo.
Nel libro scrive che, quando ha collaborato per 4 anni con Moncler, andava spesso a Bacǎu e ha conosciuto Antonello Gamba: «Di lui colpisce soprattutto lo sguardo freddo, tagliente. Un uomo sicuro di sé, con un carattere deciso, determinato, totalmente votato alla religione del denaro, disposto a tutto per guadagnarne. […] Prima rileva dei grossi capannoni industriali da una vecchia fabbrica di non so che e all’interno ci mette le “catene di produzione” cioè le linee di confezionamento dalle quali esce il prodotto finito. […] In mezzo a queste “catene” di produzione si muoveva instancabile una direttrice di reparto che credo fosse di Bergamo. Passi rapidi e dito sempre puntato a riprendere, a correggere, a spronare. Una furia. […] Gli operai di Sonoma – racconta ancora Giuseppe Iorio – e ormai sarebbe meglio chiamarli con il nome giusto, schiavi, devono essere efficienti al massimo delle loro possibilità perché non sono ammessi ritardi per la consegna delle commesse. […] La fabbrica “criminale” di cui vi ho parlato, la Sonoma, c’è, esiste. Anche se recentemente e come ciclicamente accade… è fallita. Fallisce ogni due o tre anni a quanto mi dicono. E sapete qual è il motivo per cui la Sonoma-Sodoma fallisce? Il basso costo della produzione. Gli stilisti o chi per loro abbassano sempre più il prezzo delle commesse e lui, l’imprenditore, accetta. Si barcamena. Fa venire centinaia di “lavoratori” dall’Estremo Oriente. Li sfrutta su scala industriale. Fa lo schiavista e poi fallisce».
Adesso lo stabilimento di Bacǎu è condotto da Moncler che probabilmente sapeva dei metodi scorretti di gestione del lavoro adottati in Sonoma in quanto come riporta – alla sezione “Profilo della filiera di fornitura” – nel proprio sito internet: «L’intero processo di confezionamento è attentamente monitorato dai tecnici Moncler che ne verificano l’allineamento con gli standard richiesti attraverso una metodologia rigorosa e verifiche settimanali sul campo». Seguendo i valori aziendali interni di “Responsabilità” e “Rispetto”, manifesta l’impegno a implementare iniziative specifiche per promuovere il benessere dei dipendenti in Romania, ma penso che prima dovrebbe attuare provvedimenti di “degambanizzazione” dei “kapo” reparti come Marian Bodron, che per parecchi anni ha lavorato nel ruolo di controllore e direttore di produzione per il Gamba, e dal suo profilo su Linkedin (portale web di relazioni professionali) si apprende che è rimasto nella fabbrica di Bacǎu svolgendo l’identica mansione per Moncler.
Dal 2013 al 2017 l’azienda del piumino di lusso ha raddoppiato il fatturato da 580 milioni a 1,19 miliardi di euro, con il contestuale incremento dei profitti (da 92 milioni a 249 milioni) e anche dei dividendi azionari, da 25 milioni a 70,7 milioni.
L’alta redditività – determinata dall’abbattimento dei costi di produzione, senza che il reale fabbricatore del prodotto, cioè il lavoratore, riceva neppure un cinquantino di aumento salariale – porta un mucchio di soldi ai proprietari dell’azienda.
Ma chi sono e come usano questo denaro che straguadagnano?
L’azionista di riferimento è Remo Ruffini con una quota di maggioranza relativa del 26,75%. Di origine comasca, inizia la carriera imprenditoriale della moda negli Stati Uniti nell’azienda di famiglia. In seguito rientra in Italia realizzando diversi marchi di abbigliamento, nel 1999 ricopre l’incarico di direttore creativo di Moncler e dopo qualche anno ne diviene socio. Ha una ricchezza personale stimata sui 2 miliardi di dollari. Indossa esclusivamente pullover di cashmere scozzese di marca William Lockie. Vive sul lago di Como nella magnifica Villa Palatina che sembra un museo storico con pavimenti in marmo, sculture, dipinti, lampadari lussuosi e un cortile verde con piscina da sogno. Trascorre i weekend o le vacanze natalizie nello chalet a St. Moritz in Svizzera fra mille accessori d’arredo, dagli oggetti in corno e teste di alce alle grandi fotografie alle pareti del fotoreporter umanista brasiliano Sebastião Salgado. Per un aperitivo o per rilassarsi bazzica nello storico Badrutt’s Palace Hotel con annesso centro benessere. Naviga con lo yacht di proprietà Atlante (circa 55 metri) battente bandiera britannica – valore 35 milioni di dollari – che somiglia a una cupa corazzata austro-ungarica: nell’aprile 2017 la vidi “sfigurare” il paesaggio della bella Portofino.
Altro principale azionista è il fondo di investimento Eurazeo con il 4,77%, mentre le restanti azioni flottano sul mercato fra investitori minori. Dietro il fondo vi sono le dinastie Decaux e David-Weill. La prima è del francese Jean-Claude Decaux che, deceduto nel 2016, è stato “l’anima del consumismo” con l’invenzione della pubblicità esterna in ogni luogo, dalle stazioni ferroviarie o metropolitane alle fiancate o fermate degli autobus, dalle hall degli aeroporti alle colonnine degli orologi pubblici, fino ai rivestimenti di tela per impacchettare i palazzi in ristrutturazione. La famiglia ha un patrimonio personale stimato in 4-6 miliardi di euro. Mantiene, nelle vicinanze di Parigi, una sfarzosa residenza tra boschi e laghetti a Plaisir e un sontuoso appartamento a Neuilly-sur-Seine con maggiordomo che nel preparare le serate mondane telefona agli ospiti per conoscere i loro gusti culinari. Possiede un paio di jet privati di tipo Cessna, registrati a tassazione agevolata in Lussemburgo, per viaggiare nel mondo. Il maggiore dei figli, Jean-François, è un fan del polo, capitanando la squadra di proprietà La Bamba de Areco, che prende il nome da un’estensione terriera di 150 ettari che ha acquistato nel 2009 costruendoci un resort campestre ultrachic. L’altro figlio, Jean-Charles, è appassionato di regate e ha una Wally di 24 metri, il top delle barche a vela, di nome J One e acquistata per 7 milioni di euro, con cui ha vinto alcune gare.
La seconda dinastia discende dall’ottocentesco banchiere ebraico francese Alexandre Weill, uno dei fondatori della banca d’affari Lazard. Durante l’occupazione nazista della Francia nel 1940, la famiglia si vide confiscare 2.687 opere d’arte che furono caricate, insieme ad altri 19.216 pezzi razziati, su 30 vagoni ferroviari per destinarli al progetto del Museo del Führer a Linz in Austria. La quarta generazione è rappresentata dall’aristocratico finanziario Michel David-Weill, padre di quattro ragazze. La terzogenita Béatrice sposò Edouard Stern: rampollo di un’antichissima stirpe di banchieri francesi, con un carattere dispotico ed eccentrico, nonchè gran mangione (a cena ingeriva fino a 70 bocconi di sushi); nel 1992 entra in Lazard come potenziale successore del suocero, con cui ebbe però duri scontri e venne silurato, per poi divorziare nel 1998 e fondare un proprio fondo di investimento. Il 28 febbraio 2005 Stern fu trovato morto nell’appartamento di Ginevra con il corpo crivellato di proiettili, mentre era sul letto in un completo sadomaso di lattice, e per l’omicidio venne arrestata l’amante prostituta Cécile Brossard. I David-Weill detengono una ricchezza personale stimata in 2-3 miliardi di dollari. Hanno una villa nella località francese di Cap d’Antibes, con arredi di design dell’artista Sol LeWitt e banchetti con piatti creati da Picasso.
Saputo ciò i lavoratori di Bacǎu – e non solo -possono piangere per la vita dura e “consolarsi” rammentando il concittadino poeta George Bacovia che nel 1926 decantava La serenata dell’operaio: «Io per voi sono un mostro / Perché un desiderio covo di tempi nuovi / Per me nel mondo vostro non c’è posto… / Ma mi leverò in piedi presto. / Oh, dormi bene, sempre così / In sogni dolci, orrido borghese / Sospirando, i palazzi che ti innalzo / So bene anche distruggerli. / In questa notte, ecco, risuona / Una rozza serenata / Agli amanti persi sotto la luna / Poeti dall’amore putrido. / Oh, dormi nella notte infinita / Borghese dall’aria trionfale / Ma preistorico animale / Per la ragione dorata / Non si piange sotto la bionda luna / Ma si placano le vendette / Ai martiri bagnati di sangue / Canto l’ultima serenata. / Oh, dormi… ma salirò verso il sole / In volo sublime di aeroplano… / Con sogni dolci, borghese tiranno / È la terribile aurora…».
(*) da saveriopipitone.blogspot.com)
Buongiorno.
Leggo solo ora. Complimenti. Bell’articolo, dettagliato, che va fondo.
Grazie.
Seguite stasera su Report ore 21,20.
Giuseppe Iorio.
Molto interessante spesso non sappiamo cosa si nasconde dietro a un capo di abbigliMento