Monica Lanfranco: femminista a chi?
Non è da oggi che si indaga sull’impatto, la trasmissione e la sedimentazione del femminismo sulle giovani generazioni; le domande,(e l’angoscia per le temute risposte) scivolano di volta in volta da donna a donna quando le giovani che hanno incontrato i movimenti di emancipazione e liberazione diventano adulte, e poi anziane, e nel frattempo si guardano intorno, verificando i risultati e l’incarnazione delle proprie conquiste e convinzioni nelle figlie, nella sorelle minori, nelle allieve, nelle conoscenti e nella società tutta.
Quando, nel 1989, avevo appena compiuto trent’anni uscì il mio primo libro, Parole per giovani donne – 18 femministe parlano alle ragazze d’oggi, con la postfazione di Lidia Menapace. Evidentemente già da allora (sono passati vent’anni esatti) io che ero appena uscita dall’età della prima giovinezza sentivo il bisogno di fare il punto della situazione, e non sentendomi ancora in grado di offrire da sola una visuale critica precisa avevo rivolto una domanda a quelle che all’epoca erano state, in vario modo, delle figure di riferimento per me e per molte giovani donne della mia generazione. La domanda, che avevo girato, tra le altre, a Tina Lagostena Bassi, Elena Gianini Belotti, Silvia Vegetti Finzi, Dacia Maraini era:”Nei confronti delle giovani donne tu ti senti più una madre o una sorella maggiore?”. L’interrogazione che mi stava a cuore, dando per scontato che quelle donne avessero fatto della trasmissione del proprio vissuto personale e politico del femminismo uno dei fulcri della loro attività, non era se qualcosa fosse passato di generazione in generazione, ma il come. La mia convinzione era che fosse interessante e importante ragionare sulle modalità di passaggio del testimone del patrimonio politico e culturale del femminismo: di certo ero molto coinvolta in prima persona da quella domanda, essendo io stessa un po’ figlia e un po’ sorella minore di quelle donne e delle milioni di altre che mi avevano, senza che io le conoscessi, fornito strumenti di crescita, emancipazione, liberazione e autodeterminazione.
Quando, oggi come ieri, e come purtroppo anche domani, si inciampa nella banale giaculatoria del “non esiste più il movimento femminista di piazza”, oppure del “il femminismo è morto”, dobbiamo chiederci attentamente, credo, quale sia lo scopo di queste affermazioni. Da una parte sarebbe assurdo non considerare la crisi, soprattutto italiana, delle pratiche e del pensiero dei partiti e dei movimenti per il cambiamento, che in questo nostro Paese scontano in modo pesantissimo il perdurante consenso della cultura omologante, fondamentalista, semplificatoria e repressiva della destra. In questo quadro spicca l’affermazione della giovane ex soubrette ed oggi ministra delle Pari opportunità Carfagna che ha pubblicamente affermato che “c’è bisogno di più donne al lavoro e di meno femministe in tv”; proprio lei, che dalla sua presenza in tv ha guadagnato una posizione di potere e autorevolezza, veicola una visione antipatizzante del movimento delle donne, relegandolo ad una posizione di mera apparenza contrapposta al ‘fare’ di chi, dimenticando la fatica e le conquiste delle donne più anziane, le hanno spianato la strada al successo e alla visibilità. C’è, indubbiamente, un forte elemento di ingratitudine e di ignoranza da parte delle giovani generazioni verso le precedenti, e in particolare delle giovani donne italiane verso quelle femministe che hanno preso parola, prima di loro, per se stesse ma anche per quelle che sarebbero venute dopo. Se, in parte, il rifiuto per l’ingombro delle anziane è fisiologico per la crescita (ma non è giustificabile quando diventa disprezzo, smemoratezza e sottovalutazione) c’è però anche una necessità urgente di interrogarci e agire da parte di chi, oggi passata nella posizione di adulta di riferimento, è potenziale fonte e risorsa.
Faccio un esempio pratico per spiegarmi meglio: di recente ho svolto per due anni una docenza all’università di Parma, pagata malissimo e quindi accettata perché, se non opportuna per la mia situazione economica, sembrava una occasione per fare attivismo culturale e politico. E questo è stato: nella generale assenza di luoghi collettivi grandi e riconoscibili dove la teoria e la pratica del femminismo potesse arrivare a molte giovani donne e qualche giovane uomo ho colto l’occasione e ho trasformato le lezioni e gli spazi che avevo in una piccola agorà di trasmissione, nell’ambito del mio corso, di saperi e pratiche femministe. Fare vivere il femminismo per me ha significato dare corpo e parola al mio essere femminista. Sono più che sicura che, se avessi domandato alle ragazze del corso cosa pensavano del femminismo (e lo abbiamo fatto come Marea, con un piccolo video disponibile in rete al sito www.mareaoline.it e su www.arcoiris.tv ) le risposte sarebbero state generiche, forse anche deludenti e di scantonamento e sottrazione. La cultura nella quale la maggior parte di loro è cresciuta ha raccontato il femminismo in modo distorto, o caricaturale, o semplicemente l’ha rimosso. Come ho detto, in parte questo è il risultato di una mutazione antropologica e politica nella quale sono venuti meno ancoraggi e riferimenti essenziali per la costruzione del senso e del valore della politica. Tuttavia non condivido affermazioni funeree circa lo stato di salute dei movimenti delle donne; credo, molto semplicemente, che si sia dato per scontato che il processo di coscientizzazione si trasferisse per osmosi e che fosse stato sufficiente vincere sul piano legislativo su alcune questioni, pur importanti, perché le nuove generazioni si riconoscessero nelle precedenti, e, ancora più importante, accettassero il testimone. Sono anche convinta che pezzi del femminismo italiano abbiano smesso di parlare con la società e con le giovani generazioni, svolgendo un lavoro teorico apprezzabile ma di scarso impatto e comunicazione allargata; il pericolo della omogeneizzazione e del ritorno al neutro imperante è , anche nei movimenti altermondialisti, sempre in agguato, e sta a noi femministe con qualche capello bianco incipiente attivare ogni possibile risorsa, individuale e collettiva, per continuare (o ritornare) a parlare con le e i giovani, con la società, ridando attualità ed eros al femminismo. Non basta la soggettività femminile a fare delle donne soggetti capaci ci autodeterminazione e di cambiamento: anche la giovane ministra ex soubrette o quella post fascista alla gioventù a buon titolo e diritto hanno potere, soggettività e visibilità: Il problema è: era questa la soggettività che desideravamo costruire quando criticavamo le strutture patriarcali della società, dei partiti, dei sindacati e dei movimenti sociali tre, quattro decenni orsono? Una cosa è certa: non bastano né sono sufficienti, per dare da soli la misura della diffusione e della sedimentazione della coscienza di genere né le manifestazioni di piazza né i centri di studio; quello che penso è che, per la sua originalità e la sua inscindibile qualità di movimento che nasce dall’intreccio fra pratica e teoria (il personale è politico) il femminismo si possa trasmettere se resta viva e vivace la comunicazione, anche conflittuale, che le donne singole e i gruppi sanno alimentare nella relazione con le altre, mettendo al centro, anche nei movimenti misti, il conflitto di genere. Altrimenti come potranno le giovani donne e i giovani uomini ‘imparare’ il femminismo e poi assumerlo senza averne fatto esperienza diretta? Come nell’utopico finale del romanzo Farhenheit 451 (i Ray Bradbury) questa, pur se faticosa e a tratti dolorosa, è la fase della ricostruzione dentro l’uragano della dittatura totalitarista: mi sento molto simile alle donne e agli uomini libro, che si assumevano l’impegno, per le generazioni future, di imparare a memoria un testo per trasmetterlo, nell’impossibilità di poterlo far leggere. Siamo, anche noi stesse, frammenti vivi e palpitanti di storia. Questo, anche questo, è femminismo. Questo, anche questo, è memoria da raccontare a chi viene dopo di noi.