Montagne del mè Piemont (*)

recensione di Sandro Moiso a «Resa dei conti alla Maddalena. 2010-2011» di Fabrizio Salmoni

Conosco l’autore del libro da almeno quarant’anni. Dai tempi di Lotta Continua e del suo servizio d’ordine. Molta acqua è passata, da  allora, sotto i ponti, ma la lotta NoTAV ha costituito il motivo del nostro tornare ad incontrarci oggi, ormai sessantenni. E ciò, più che un motivo di senile nostalgia, costituisce invece una delle chiavi di lettura di questa cronaca delle lotte valsusine del biennio 2010-2011.

Il diario di Salmoni (giornalista, animatore del blog Maverick, esperto di storia e di musica tradizionale americana) costituisce infatti una cronaca appassionata, ma mai trionfalistica. A tratti spigoloso nei giudizi, l’autore si tiene volutamente distante dal politically correct, non solo nei confronti di personaggi dai tratti istituzionali come Don Ciotti, ma anche nei confronti delle varie componenti del movimento. Una lettura stimolante, a tratti discutibile, ma sicuramente mai accomodante. Di fatto un contributo non secondario al dibattito sul TAV e sulle iniziative di chi gli si oppone. Con riflessioni che vanno dalle strategie comunicative (Volantino? Rete?) alle tattiche adottate (pacifiche e/o “militari”).

 Certo, nella cronaca sono le giornate del 2011 a risaltare: dallo sgombero forzato ed imponente dei presidi della Repubblica della Maddalena alla battaglia campale del 3 luglio, autentico showdown tra movimenti e forze del disordine. Ma anche la storia delle iniziative dei comitati locali, nella pianura pedemontana compresa tra Bussoleno e Torino, si rivelerà interessante per più di un lettore. Un lavoro paziente di organizzazione e protesta, dalle forme diverse, ma identico nel significato: “il TAV non passerà qui…e nemmeno un po’ più in là!”. Come il proliferare di comitati di lotta, anche nelle aree limitrofe, ha ben dimostrato negli anni.

 Spigoloso, dicevo, come il carattere delle popolazioni locali. Un carattere tipico dei piemontesi delle valli e delle campagne, che Fabrizio, in qualche modo, utilizza soprattutto nel non dimenticare i tradimenti di coloro che sono passati da un versante all’altro della lotta ( Mercedes Bresso,  Antonio Ferrentino), i nemici di sempre ( Mario Virano e Sergio Chiamparino) e, infine, i “picchiatori di Stato” ( il “duro “ Mortola, poi condannato per i fatti della Diaz).

 Sì, perché la cronaca di Salmoni non è soltanto una cronaca locale, ma è anche una cronaca dell’Italia di questi anni. Tutto si lega e non potrebbe essere altrimenti. Mentre allo stesso tempo, se fosse davvero isolata e ridotta a fatto locale, non si potrebbe spiegare il ruolo di attrattore fatale per i movimenti anti-capitalisti della lotta No TAV. Nel dialetto piemontese si potrebbe dire che l’autore “a l’à guærnaila” ( dal verbo guærnè o uærnè: legarsela al dito, ricordarsi di qualcosa o qualcuno per poi, col tempo, vendicarsi). Naturalmente con accompagnamento di poche, ma significative schede.

 Sì, alcune cose e scelte vanno ricordate per poi essere fatte pagare con il disprezzo dei cittadini e degli ex-elettori. Tipico atteggiamento di popolazioni e classi sociali che conservano, anche e non soltanto in senso negativo come qualcuno vorrebbe, il senso della rivalsa, intesa come memoria dell’offesa ricevuta e della necessaria resistenza che ne deriva. Alla faccia della pacificazione intesa come cancellazione della memoria. Popolazioni di valli e campagne, appunto. Di quelli che un tempo erano definiti i bogia nen (quelli che non si muovono, non si spostano). Non in senso sociale, ma nel senso militare poiché così erano chiamati i soldati piemontesi dei quadrati di fanteria che nelle guerre risorgimentali non arretravano e non cedevano davanti alle cariche degli ulani della cavalleria asburgica.

 Ma, la storia ci dice, quei bogia nen venivano dalle campagne e dalle montagne. I torinesi, soprattutto i borghesi e i membri della burocrazia e dell’aristocrazia sabauda, erano i “tiro an pet, auso le sole”, coloro che fuggivano anche solo al rumore di una scoreggia (letteralmente: se sentono qualcuno tirare un peto, alzano le suole, scappano). Ed eccolo qui, a quasi due secoli di distanza, ancora lo scontro tra barbari e moderni. Tra europeisti evoluti (Chiamparino, mafiosi calabresi legati alle imprese costruttrici, forze del disordine, Lega delle Cooperative, PD) e  arretrati montanari o possibili terroristi (tutti coloro che si oppongono al progetto).

 E oggi in quelle valli, di cui Fabrizio ci descrive sinteticamente la grande bellezza, ancora si  scontrano i bogia nen con i corrotti della vecchia capitale sabauda. E in questo, per ricollegarci con quanto detto in apertura, sta la forza del movimento, la sua capacità di attrarre ed organizzare forze diverse e, apparentemente, disperse. Il suo fascino, che ha fatto sì che tanti ex-militanti, i delusi di un tempo, tornassero alla battaglia e alla lotta contro il più ingiusto ed odioso dei modi sociali di produzione.

Vale però ora la pena di rivolgere alcune domande  allo stesso autore per fargli raccontare le sue impressioni “sul campo” e le difficoltà che ha incontrato (compresa una querela ) nel difendere la lotta No TAV attraverso il  suo blog Maverick.

      Per te l’incontro con la lotta NoTAV ha significato un ritorno alla “politica attiva”: come sei giunto  a prendere tale decisione? Pensi che la stessa cosa sia avvenuta anche per altri? 

 Come racconto nella parte introduttiva, sono incappato nella lotta contro il Tav un po’ casualmente e neanche troppo convinto. Quel poco che sapevo mi sembrava che riguardasse una questione molto tecnica. Inoltre, era dal 1978 (dalla stancante esperienza di Radio Città Futura) che non facevo politica e gli anni trascorsi in Texas mi avevano cambiato alcune coordinate culturali, integrando la mia formazione. E’ stato l’episodio del Seghino con il comportamento della polizia a indignarmi e a farmi capire che c’era veramente una lotta di popolo in corso. Da quei giorni, come racconto nel libro, ho cominciato a partecipare ritrovando uno scopo per cui valeva la pena rimettersi in gioco.

      Potresti raccontar quali problemi hanno accompagnato le tue prese di posizione attraverso il tuo blog e quali personaggi si sono particolarmente distinti nell’attacco nei tuoi confronti? 

 Gli unici “problemi” li ho avuti da: Massimo Numa, cronista de La Stampa, che ha tentato di disturbarmi a più riprese con messaggi che mi contraddicevano e anche con commenti sotto falso nome (come per il caso Alessio). Poi sono stato querelato dal vicequestore Sanna (oggi questore a Forli). Si è offeso perchè ho riportato un episodio dello sgombero di Venaus nel 2005 che lo vide protagonista violento e per i toni accesi dell’articolo.  Al giudice che mi ha interrogato ho portato numerosi precedenti riscontri scritti di quell’episodio, compresa un’intervista a un procuratore della Corte dei Conti, quindi mi aspetterei un’archiviazione. Ma con l’atteggiamento attuale della Procura di Torino non la dò per scontata.  Recentemente per l’articolo sugli operai/crumiri del cantiere ho subito gli attacchi mediatici di cui si sa, senza precedenti per me. Ma dato che sono “tignoso”, ho reagito querelando il senatore Stefano Esposito (Pd) per minacce e diffamazione, l’onorevole Silvia Fregolent (Pd) per diffamazione. Altre querele sono allo studio.

    Spesso traspaiono nel testo alcune tue considerazioni di carattere “militare” sulle iniziative portate aventi dal movimento NoTAV: quali ti sembrano essere le affinità e le differenze maggiori tra le azioni odierne e quelle dei servizi d’ordine degli anni settanta? Sono comparabili?

 Non ci sono affinità. Il movimento è basilarmente pacifico sia per natura che per giusta scelta strategica. E’ persino “disarmato” e direi ingenuo sul piano della controinformazione. Le aree più bellicose sono naturalmente i giovani, l’area anarchica e i centri sociali, ma l’organizzazione è scarsa. L’enfasi è sulla mobilitazione di massa. Le più recenti azioni di disturbo al cantiere mostrano un qualche livello di organizzazione se non altro per le condizioni notturne e “ambientali” in cui si svolgono. Il mio linguaggio “militare” nel descrivere certe situazioni viene dagli studi e dalle letture degli scritti di Raimondo Luraghi (**) di cui sono stato affezionato discepolo.

     Non ti sembra che il movimento attuale abbia una maggiore duttilità e capacità tattica rispetto alle forme imbalsamate della politica cui la sinistra, anche extra-parlamentare, ci aveva abituati?

 Il movimento No Tav è un movimento di popolo, è in grande quello che una volta si chiamava una lotta autonoma. E’ costituito da tante diverse componenti che trovano accordo e sintesi nell’obiettivo di sconfiggere il progetto Tav, ognuna per proprie motivazioni, non tutte omogenee. Per questa unità di intenti e per capacità di sintesi è diventato forte e un modello per tanti altri. La duttilità, l’imprevedibilità, la disorganizzazione, l’eterogeneità sono allo stesso tempo elementi di forza e di debolezza. Quello fondamentale è il numero. All’intermo, le dinamiche sono simili a quelle di qualsiasi movimento: un po’ di leaderismo, qualche rivalità personale, parecchi personalismi, qualche tentativo di prevaricazione, ma finchè la struttura territoriale tiene, l’attuale forma di governance collettiva funziona. Anche perchè ci sono elementi di grande intelligenza, ci sono saggezza popolare e buon vecchio senso comune.

   Perché dimostri tanta antipatia nei confronti della musica hip hop o altra che accompagna le manifestazioni dei centri sociali? Ha a che fare con il tuo amore per la country music? Per finire potresti spiegare questa passione che ti accompagna fin dalla gioventù?

 Grazie della domanda, direbbe la Santanchè… A dispetto di quanto possa sembrare estremo in certi scritti (colpa soprattutto del mio carattere, di una certa educazione di famiglia intransigente sui principi e del mio passato militante), mi considero un ambientalista-conservatore. Nei lunghi anni del mio disimpegno ho acquisito idee, interessi e valori che a un osservatore politicamente corretto possono sembrare contradditori ma che secondo me non lo sono. E’ un lungo discorso. Mi infastidisce molto il provincialismo culturale, soprattutto quello “di sinistra”, che pretende di misurare tutto sui propri modelli e stereotipi stabilendo cosa è “progressista” e cosa no, trascurandone pure l’aspetto commerciale. Cosi il rock, bandiera di cambiamento della mia generazione ma poi formalizzatosi in stilemi e atteggiamenti convenzionali, soprattutto in Italia è rimasto sempre etichettato come musica ribelle e quindi buono e sempre giovane; blues, jazz e derivati buoni a prescindere “perchè musica dei neri” reputati per qualche ragione sempre rivoluzionari o antagonisti, il folk buono perchè popolare e progressista, il country cattivo “perchè musica dei bianchi reazionari”.  Tutti giudizi in cui prevale ideologismo, ignoranza e pressapochismo. Si vuole ignorare per esempio che senza blues e country non ci sarebbe rock&roll e che il country è quindi una delle due matrici fondamentali della musica che consumiamo. L’ hip hop è un sottogenere sviluppatosi da una matrice culturale sottoproletaria dei neri americani che ha come modelli i comportamenti malavitosi, la droga, il sesso, il successo e i dollari facili. L’opposto di quello che dovrebbe essere una cultura “di sinistra” (per quello che oggi significa). La sua estetica si basa solo sul ritmo e sulla componente elettronica (io ritengo che far musica sia fatica, sudore nell’imparare e nel suonare, insomma che sia un elemento umano) mentre la componente vocale, intesa come interprete di una melodia, è sostituita da  un parlato cantilenante in cui non trovo valenza artistica (saper cantare è difficile).  Io ascolto da sempre rock e blues ma ho conosciuto il country quando facevo l’autotrasportatore nel 1978. Del country apprezzo l’importanza della melodia, della struttura-canzone, del virtuosismo strumentale e dei suoni, entrambi legati alla componente emotiva (come il blues), delle tematiche (storie di vita quotidiana e di miserie quotidiane, universali); condivido molti valori, in particolare la nostalgia e l’importanza di quanto di buono c’è nel passato, ma anche il legame con la terra, l’importanza della famiglia, della casa o della comunità come punto di riferimento a cui tornare (io sono tornato a casa, in Val di Susa). Può bastare?

    Potresti raccontare come è nato e come si è trasformato il tuo blog e il perché del suo nome: “Maverick”?

 Il blog è nato di recente, nel 2010 , a supporto della mia nuova professione di giornalista iniziata organicamente nel 2007 con la rivista American West. In gergo western, il maverick è il vitello che è nato sui pascoli quindi non è marchiato. Fino almeno al roundup stagionale non è proprietà di nessuno. La parola è stata adottata comunemente col significato di indipendente (un maverick in politica è uno che non appartiene a nessun partito…). Tale mi ritengo.

    La tua cronaca si ferma al 2011. Come pensi si sia evoluta la situazione in Valle dopo di allora, sia dal punto di vista del movimento che dei lavori? Pensi che la fiducia data da una parte del Movimento ai 5 Stelle e a Grillo possa aver aiutato o aiutare gli sviluppi futuri della lotta? Insomma: a che punto siamo con la TAV?

 Penso che come la carica di Pickett a Gettysburg abbia segnato il punto di “alta marea della Confederazione”, il 2011 lo sia stato per il movimento, in quella seconda fase di attività (la prima, vittoriosa, culmina nel 2005 nella presa di Venaus). Dal 2012 si è aperta una terza fase in cui la controffensiva dello Stato si è sviluppata drammaticamente con una combinazione di attacco mediatico e di repressione giudiziaria. L’impatto è stato durissimo e si è aggiunto all’ampliamento di un cantiere in una zona non visibile ai più (ottima la scelta del sito, dal punto di vista dei developers).  L’attacco mediatico si è sviluppato su due tematiche: affermare la falsa percezione che “tutto è deciso”, che il progetto è “irreversibile” (per spargere scoramento) e affondare sul tema della violenza (per dividere il movimento, disinformare l’opinione pubblica e costruire autogiustificazioni per aumentare la pressione militare e politica). Inoltre, l’atteggiamento dei partiti e dei poteri torinesi di chiusura totale e di rifiuto di riaprire qualsiasi discussione, ha contribuito a costruire una gabbia in cui il tema Tav doveva rimanere isolato (anche da rischi di cedimenti politici esterni).

La repressione giudiziaria, checchè ne dica Caselli, si è scatenata sul movimento con più di 700 procedimenti, arresti e processi. La giustizia è impiegata a senso unico: denunce ed esposti dei valsusini non procedono mentre al Tar vengono sistematicamente respinti (ad oggi 33 su 34). In sostanza, sul terreno è quasi impossibile muoversi perchè si viene identificati, filmati e denunciati per poco o niente. Emblematici gli esposti ai servizi sociali nei confronti delle famiglie di minori che distribuivano volantini o la recente condanna di alcuni No Tav a cinque mesi per aver attaccato un adesivo su un mezzo della polizia. La volontà è quella di bloccare qualsiasi iniziativa di contrasto al cantiere sperando di spingere i valsusini ad azioni d’avanguardia per alzare il livello di repressione. Malgrado questo, con la bella stagione il flusso di gente in Clarea è aumentato e l’estate porterà nuove manifestazioni e azioni di sabotaggio del cantiere.

L’irruzione in parlamento di una nutrita pattuglia di parlamentari No Tav (Sel e 5 S) ha portato speranza e respiro, la percezione che la dinamica tra opposizione popolare e opposizione istituzionale possono dare buoni risultati. C’è molta attesa. Il momento comunque è difficile, c’è frustrazione, confusione, dolore nel vedere devastare la Val Clarea, ma viene affrontato con realismo e la determinazione di sempre. Personalmente, credo che ci sia bisogno di qualche fatto nuovo che cambi gli equilibri. La controparte sta perdendo pezzi e spinge per portarsi più avanti possibile con lavori e appalti per sancire il “non ritorno”, l’impossibilità di fermarsi ma l’impressione è che scalcino e tengano duro per  non perdere la faccia. Sanno che la critica al Tav si sta diffondendo e che rischiano tutto alla distanza. Devono fare in fretta per prendere e distribuire più soldi possibile. Col Tav questi partiti vivono o muoiono definitivamente.

(*) Titolo di una canzone del cantautore torinese Gipo Farassino, spesso utilizzata come vero e proprio inno bandistico dai comitati NoTAV della Valle di Susa

(**) Raimondo Luraghi (1921-2012), storico militare e dell’America Settentrionale, autore di una delle opere più importanti  sulla guerra di secessione americana: Storia della guerra civile americana 1861-1865, Einaudi 1966, Rizzoli 2009

Fabrizio Salmoni

«Resa dei conti alla Maddalena. 2010-2011. Diario di due anni di lotta contro l’Alta Velocità in Valle di Susa»

Lu::Ce Edizioni Massa

pagine 272, 14 euro

testo ripreso da www.carmillaonline.com

 

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