Morire d’amianto
di Alberto Gaino (*)
Clementina Ruffino era un’insegnante elementare torinese. Aveva scelto di lavorare in periferia, con allievi più in difficoltà. La sua era una vocazione.
E in periferia erano stati costruiti in fretta, all’inizio degli anni 70, grandi prefabbricati per ospitare gli allievi del baby boom del decennio precedente nati a Torino o emigrati qui al seguito dei padri che a Torino avevano trovato lavoro nell’industria metalmeccanica soprattutto.
Quei prefabbricati erano imbottiti di amianto. E Clementina usava ricoprire le pareti delle sue aule con i disegni e i lavori degli allievi. Per appenderli, ne bucava con un martelletto le pareti tutt’intorno alla cattedra e ai banchi.
L’idea era di rendere più accoglienti ambienti da caserma e gratificare bambine e bambini che crescevano in una periferia lontana dalle luci del centro.
Quei fori sono costati la vita alla maestra Clementina, anche se formalmente è morta di un tumore alla mammella, per curare il quale si scoprì che era affetta anche da un mesotelioma pleurico, riconosciuto universalmente come malattia professionale dell’amianto.
Clementina si è spenta il primo novembre 2017, a 68 anni. Era andata in pensione da non molto.
Maria Luisa Mattiuzzo, preside in pensione e in passato collega di Clementina, racconta che al funerale della cara amica un’altra ex maestra che aveva insegnato nello stesso plesso scolastico di via Monteponi, a Mirafiori Sud, le aveva confidato di essere stata colpita dallo stesso male di Clementina. «Qualche anno prima – aggiunge – era mancata un’altra maestra della stessa scuola, di tumore del polmone. Non fumava».
Il prefabbricato imbottito di amianto, e diventato scuola elementare di Mirafiori Sud, è stato demolito da molto tempo per iniziativa della dirigente del complesso scolastico da cui dipendeva, la stessa Mattiuzzo. Oggi quell’area è uno spicchio del parco che sorge nella zona.
Non c’è una targa che ricordi il sacrificio delle tre maestre, insolito per i grandi numeri di morti provocati dall’esposizione all’amianto, ma non così insolito se nell’autunno 2010, quindi in precedenza alla morte di Clementina Ruffino, l’Osservatorio dei tumori professionali di Torino aveva segnalato all’allora procuratore aggiunto Raffaele Guariniello almeno 33 casi accertati di insegnanti elementari colpiti da gravi malattie “amianto correlate”.
Anche alcuni fra i più noti consulenti di Guariniello si sono concentrati sul cuore del disastro dell’amianto: le fabbriche e i cantieri navali dove si faceva un uso massiccio di quel materiale. Fra i loro dipendenti i decessi professionali si sono ormai esauriti, o quasi. Tant’è che a Casale Monferrato, continuano a morire solo più cittadini che mai entrarono nello stabilimento Eternit di via del Ronzone o nei suoi magazzini dislocati intorno. Cittadini che, all’epoca della chiusura della fabbrica dell’amianto per antonomasia (1986) erano per lo più bambini e alcuni non erano ancora nati.
Circostanza che la stessa Procura Generale della Cassazione, nel 2013, ignorò chiedendo la prescrizione dell’accusa di disastro doloso a carico di Stephan Schmidheiny, l’ultimo patron della multinazionale che la gestì per un decennio: il reato doveva ritenersi prescritto a partire dalla chiusura della fabbrica del Ronzone.
Eppur si muore ancora a causa dell’amianto, a Casale Monferrato come altrove. Quegli oltre trenta maestri elementari torinesi, un esempio, non fanno notizia. Come è apparentemente inspiegabile e non fa notizia, di conseguenza, la recente scomparsa di una nota commercialista torinese per mesotelioma pleurico. Sembra fatalità. Ma non può esserlo.
L’amianto a Torino, come altrove, grandi e piccole città, fu disseminato in abbondanza non solo nelle scuole, ma pure in edifici destinati a residenze private, uffici pubblici e privati, università. Veniva spruzzato sulle pareti, come coibentante, e questo sistema l’ha reso più sbriciolabile e pericoloso.
Solo a Torino, dopo Palazzo Nuovo, la Rinascente di via Lagrange, Palazzo Rai di via Cernaia, anche la storica sede della Sai assicurazioni, costruita in un’area Fiat ai bordi del Parco del Valentino, ne doveva essere piena se da anni è in corso una ristrutturazione al suo interno per rimuovere materiali e rivestimenti contenenti amianto. Diventa lecito, a questo punto, chiedersi come sia possibile che non sia stato predisposto un piano dettagliato e straordinario, con fondi europei, per la rimozione dell’amianto ovunque, incluse le condutture dei 125 mila chilometri di acquedotti pubblici in tutto il Paese.
Nel 2018 risultavano bonificati solo 8 milioni di tonnellate delle 32 stimate al varo della legge (1992) di messa al bando dell’amianto in Italia. Si deve continuare a rimanerne esposti a caso, come in una lotteria della sfortuna nera per la morte che può seguire, lasciando che il silenzio sommerga un’emergenza che raggiungerà fra non molto i centomila decessi?
“Il silenzio dell’amianto” – che dà anche il titolo scelto per un mio studio sull’argomento pubblicato da Rosenberg & Sellier, fra le più antiche case editrici italiane in attività – anestetizza tutte queste morti da ascrivere all’amianto e che all’amianto vengono sì ascritte, ma senza conseguenze per i responsabili storici di un disastro umano e ambientale.
Con la clamorosa prescrizione per il reato di disastro doloso decisa dalla Cassazione nel 2014, che ribaltò le due sentenze di merito torinesi, il padrone dell’Eternit si vide annullare 18 anni di carcere inflittigli in appello.
E, a maggio scorso, la quarta sezione penale della stessa Cassazione ha cancellato la condanna residuale a 1 anno e 8 mesi dello stesso Schmidheiny per la morte di un lavoratore Saca di Cavagnolo, provincia di Torino (Giulio Testore) rinviando gli atti a una diversa Corte d’Appello torinese.
L’operaio era deceduto nel 2008, colpito da asbestosi, malattia causata certamente dall’esposizione all’amianto e per cui non vi erano mai stati tentennamenti nella giurisprudenza. Le motivazioni non si conoscono ancora, ma è altrettanto fuor di dubbio che il nuovo processo di merito, quando si aprirà, formalizzerà l’ennesima prescrizione del reato.
La quarta sezione penale della Cassazione si è fatta strumento di una giustizia di classe, che, approfittando del silenzio dell’amianto, cancella sistematicamente ogni condanna relativa a morti sul lavoro e soprattutto ambientali causate dall’amianto, dalle politiche industriali di fine Novecento e dall’incuria successiva.
Un messaggio chiaro anche per il futuro: è concreto il rischio di rendere ancora più vani i sacrifici delle maestre come Clementina Ruffino e delle ormai centinaia di vittime ambientali casalesi, per cui si attende il processo d’appello a Torino dopo l’ennesima condanna di Stephan Schmidheiny a 12 anni di carcere.
Pure quest’ultima sarà cancellata?
(*) Tratto da Volere la Luna.
***