Morire di fatica nel mondo a misura di profitto

di Vito Totire (*)

Appena conclusa l’assemblea di fondazione della «RETE NAZIONALE LAVORO SICURO» (**) tutti i temi al centro vengono riproposti da fonti attendibili che confermano la necessità di continuare a lavorare politicamente anche in un’ottica europea – e planetaria – affrontando la contraddizione capitale-lavoro.

In concreto ci dobbiamo porre la necessità e l’urgenza di allargare da subito – almeno con i primi contatti – la rete oltre l’ambito italiano. La nostra ultima fonte di riferimento è la rivista Internazionale (1462 pubblicato il 27 maggio, proprio il giorno dopo la nostra assemblea fondativa). Il settimanale Internazionale cita Der Spiegel che a sua volta riporta dati Oms-Ilo (cioè dell’Organizzazione mondiale della samità e dell’Ufficio internazionale del lavoro) pubblicati nel 2021 ma relativi al periodo precedente la pandemia. Secondo questi dati nel mondo ogni anno morivano 745.000 persone «a causa del troppo lavoro»; un numero superiore a quello causato da “incidenti” e uso di sostanze nocive. Uno degli autori dello studio dell’OMS Frank Pega, citando a sua volta studii dell’Università di Harvard spiega che a causa della pandemia i tempi di lavoro si sono allungati almeno del 10%. In Germania nel 2020 ci sono state 1.7 miliardi di ore di straordinario non retribuite mentre le assenze per problemi psicologici si sono raddoppiate.«Tutto lavoro – conclude Der Spiegel – che è toccato sbrigare a chi è rimasto».

Non è un caso se nei mesi passati abbiamo proposto – in analogia con l’amianto – che i due anni di lavoro con il covid siano riconosciuti come tre anni dal punto di vista pensionistico, appunto per il sovraccarico psicofisico lavorativo. La proposta ha riscosso interesse e condivisione anche se non ha avuto, al momento, “le gambe su cui marciare”. Certo è più facile (e spesso ipocrita) dedicare lapidi, cippi e concerti alle vittime del covid che riconoscere i veri danni subiti.

I dati che abbiamo visto sopra sono certamente frammentari ma importanti perché confermano valutazioni di fondo che abbiamo messo al centro della nostra assemblea fondativa e in particolare: la drammatica e colpevole sottostima del vero impatto sanitario, fisico e psicosociale dell’organizzazione capitalistica del lavoro sulla speranza di vita e di salute dei lavoratori (di conseguenza anche dei loro familiari anche se i dati relativi restano molto aleatori e ancor più fortemente sottostimati). I dati portati da Der Spiegel sono aggiornati ma niente affatto nuovi: confermano quanto già noto dall’epoca della pubblicazione della «Guida europea per la prevenzione del distress lavorativo» (1999) secondo cui le conseguenze negative del distress sono dello stesso ordine di grandezza degli eventi “infortunistici” e delle malattie professionali. Con la differenza – lo diceva già nel 1999 la «Guida» citata – che gli effetti del distress sfuggono quasi sempre alla possibilità di essere riconosciuti e indennizzati (cioè ancora di più e quasi nella totalità dei casi rispetto ai risicati risarcimenti per “infortuni” e malattie professionali). Una situazione – scrive sempre la «Guida» citata – che configura un quadro di «privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite». I fatti dunque confermano la fondatezza della proposta politica della RETE NAZIONALE LAVORO SICURO: occorre costruire una società non più di schiavi ma di persone libere da nocività e costrittività lavorative.

(*) Vito Totire è portavoce della «Rete europea per l’ecologia sociale»

(**) cfr Nasce la «Rete nazionale lavoro sicuro»…

La foto riguarda Reuf Islami, un morto sul lavoro (nero) che il Comune di Bologna non vuole ricordare; è meglio rimuovere la memoria o invece rimuovere il ceto politico che soffre di amnesia selettiva?

 

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