Morire in mare, come quegli altri 11
di Christiana de Caldas Brito
L’anno scorso pubblicai in questo blog una recensione a «Undici», libro nato dall’impegno di Savina Dolores Massa, scrittrice di Oristano; db già aveva scritto una recensione su «Undici» ma postò lo stesso la mia, sfuggendo alla logica che non si torna sui libri “vecchi”.
Perché il blog oggi vi ripropone ancora quella recensione che ricordava la tragedia di 11 africani trovati morti, ammucchiati dentro una barca? Perché – lo sappiamo bene – tragedie come quella, avvenuta nel 2006, continuano a verificarsi nelle coste italiane. Si potrebbe moltiplicare per venti il numero dei morti nella recente tragedia di Lampedusa. Ancora una volta il mare, che è fonte di vita, si trasforma in tomba liquida. L’evento narrato nel libro «Undici» continua a essere attuale. Che responsabilità abbiamo noi come popolo, come cittadini, come esseri umani, nel vedere quei corpi di donne, uomini e bambini senza vita, stesi sulla sabbia? Profughi di guerra, persone che fuggono da situazioni insostenibili nei loro Paesi: stavolta erano somali, eritrei, ghanesi, coperti dai sacchi di plastica, vicino al mare. Scene raccapriccianti aggravate dalla presenza di una giovane donna in costume da bagno che corre sulla riva del mare: indifferente alla tragedia, quella donna fa la maratoneta, mantiene i suoi muscoli allenati: in lei è atrofizzato solo il muscolo alla sinistra del suo petto. Ma quella donna sono io, sei tu, è l’Europa.
Fino a quando la comunità europea si interesserà solo di problemi economico-finanziari? E noi, siamo disposti a lottare perché la legge Bossi-Fini non contempli il reato di immigrazione clandestina? Perché un pescatore che aiuta a salvare vite umane non sia più “colpevole” del reato di favoreggiamento di immigrazione clandestina? Ed è per chiedervi di rispondere a queste domande che vi ripropongo questo invito a leggere «Undici».
MORIRE IN BARCA CON I SOGNI
Immaginate una barca in fondo al mare dei Caraibi. Un pescatore avvista la barca affondata e vede dentro undici cadaveri. Dà l’allarme. Il giorno dopo i morti diventano notizia, una funesta notizia in un giornale.
Il giornale era «La Repubblica» del 4 giugno 2006. Il giornalista si chiamava Giovanni Maria Bellu.
In comode poltrone, leggiamo la notizia. Diamo un sospiro di sollievo: meno male che non è toccato a noi. Già. Pensiamo solo e sempre alla propria pelle.
Per molti di noi quella era e continuerà a essere solo una notizia. Forse ha pure provocato un’emozione. Ma chiuso il giornale, chiusa l’emozione.
Savina Dolores Massa (ah, nomen omen, questo “Dolores” già faceva presentire una sensibilità aperta alla sofferenza altrui) è una scrittrice speciale: ha delle antenne che la rendono capace di dialogare con il dolore del mondo.
La barca affondata avrebbe portato in Italia quegli undici uomini partiti insieme a quarantasei altri africani pieni di speranza. E con tanti sogni, anch’essi annegati.
Quegli uomini volevano una vita più degna. Ognuno di loro aveva pagato mille e cinquecento euro per approdare in Italia, paese dove – avevano detto – c’era lavoro ed era facile sbarcare. Ma la barca era stata mandata alla deriva dalla barca trainante che si staccò e lasciò gli africani in alto mare, senza guida.
Con «Undici» l’autrice entra in sintonia con quegli undici giovani africani traditi e mai arrivati a destinazione. Savina Dolores Massa, di Oristano, che con il suo libro è giunta finalista al Premio Calvino del 2007, ridà vita agli undici annegati rimasti in fondo alla barca. Con uno stile assolutamente lirico ricostruisce la storia di ognuno degli uomini rimasti confinati nello spazio angusto del paragrafo di un quotidiano.
L’autrice sa che i morti continuano ad esistere nella memoria dei vivi: prende uno a uno degli undici e, prima che sopraggiunga la morte, fa in modo che loro raccontino la loro storia. Ci dicono il loro nome, rivelano il loro vissuto quotidiano, i loro desideri e aspettative. Veniamo a capire i sogni che li accompagnano nell’abbandonare il loro villaggio.
Sono undici storie diverse, tutte raccontate a Saroyo, un griot, anche lui sulla barca. A sua volta, il griot, poeta contastorie che mantiene viva la tradizione orale della sua terra, parla alla kora, il suo strumento musicale.
Negli undici capitoli del suo libro, Savina riesce a restituire la dignità agli undici morti. Undici anonimi diventano persone con un nome, con una provenienza (Senegal e Mali) persone che vengono ricordate. Gli undici acquistano, grazie alla scrittrice, una propria individualità che vibra nelle pagine del libro.
Uno dei compiti della letteratura è proprio questo: dare visibilità agli esseri che non esisterebbero se non venissero raccontati. La loro storia lascia la profondità del mare e si trasforma nel libro-testimonianza di Savina, la scrittrice che essendo sarda vive circondata dal mare. Lei va oltre la notizia del giornale, non fa tacere la sua emozione quando chiude il giornale perché deve esprimere la sofferenza del morire in una barca che affonda, lei che non era in barca.
Che libro intenso!
Chi legge «Undici» non potrà dimenticare la luce che emana dalla scrittura di Savina Dolores Massa. Le sue parole scivolano nello spazio bianco delle pagine come se respirassero quell’aria che era venuta a mancare a Baba, Amdy, Ibra, Djibril e gli altri.
Del suo libro Savina ci dice: «So che non è semplice definire Undici. In molti ci hanno provato. Qualcuno ha voluto paragonarlo a un dipinto. Altri a Omero. Altri a Edgar Lee Masters. Molti dicono che è scontroso e difficile. Altri che è troppo lirico. Altri che è indefinibile. Si dice. Ma sono convinta che ogni libro, conclusa la scrittura, smetta di appartenere al suo”creatore”. Divenendo proprietà del lettore, ogni cosa si può dire su di esso. Così come un quadro o una musica. Undici cammina di mano in mano, io raramente dico cos’è stato per me. A parte il mio personale “divenire” morto in mare per undici volte, e soffrirne le pene. In pochi comprendono questo».
Savina-griot-kora ha salvato gli undici africani dalla vera morte che è l’oblio.
«UNDICI»
di Savina Dolores Massa
edizioni Il Maestrale, Nuoro, 2008.
Credo che sia un libro “speciale” fuori da ogni canone letterario, e per questo è stato sin dalle prime righe, per me, di una fascinazione a cui è difficile sottrarsi…surreale? lirico? che importano le definizioni? So soltanto che Savina è riuscita a rendere tutti gli “undici” reali, è riuscita a farmi “vivere” con loro e persino a morire con loro…e perciò a comprendere e com-patire tutti quelli alla ricerca di ciò che non possono avere in casa loro…pace, libertà e pane.
Ora siamo tutti chiusi a chiave…una volta le porte erano sempre aperte anche di notte. Penso che “Undici” può essere apprezzato solo da persone sensibili che conoscono il dolore, è la mia opinione e non fa testo naturalmente, ma ha ragione Savina, in pochi capiscono.
ricevo e posto
Ordine del giorno presentato al comitato direttivo della Fiom Cgil di Ravenna.
Le centinaia di vittime provocate dall’ennesimo naufragio in prossimità delle coste di Lampedusa ha provocato sgomento e commozione.
Oltre alla naturale pietas umana e alla solidarietà occorre tuttavia che ci interroghiamo seriamente sulle cause di questi drammi, altrimenti le lacrime versate rischiano di sembrare pura ed ipocrita retorica.
Sono numerose le stime che in queste ore si rincorrono circa il numero dei migranti deceduti durante il tentativo di approdare all’interno della “fortezza Europa”. Le stime più prudenziali parlano di oltre 7000 vittime dagli Novanta ad oggi, ma più di qualcuno si azzarda a triplicare tale numero.
Questi dati descrivono un fenomeno tutt’altro che casuale, questi dati ci dicono che ciò che è avvenuto ieri non è una tragica fatalità. Le morti di queste persone sono le inevitabili conseguenze delle politiche neoliberiste che hanno caratterizzato tutti i governi d’Europa.
Tali politiche hanno generato povertà, miseria e guerra nei Paesi cosiddetti in via di sviluppo. Il neoliberismo esprime tutta la sua cinica natura propugnando e praticando la libera circolazione dei capitali, ma proibendo e punendo la libera circolazione degli esseri umani attraverso leggi quali la Bossi-Fini o il sistema di controllo delle frontiere europee, meglio noto come Frontex, indifferente alle morti e alle sofferenze provocate.
L’Italia in primis e l’Europa devono trasformarsi da fortino spaventato a società inclusiva, modificando le legislazioni in materia d’ingresso e di cittadinanza, in modo da governare con realismo i flussi migratori, evitando di approcciarsi a un fenomeno strutturale in maniera demagogica, sicuritaria e anacronistica. Non solo, ma occorre sostenere la creazione di canali umanitari affinchè chi fugge da conflitti, povertà e miseria possa esercitare con la dovuta pienezza il diritto d’asilo, come stabilito dall’articolo 10 della nostra Costituzione.
La Fiom Cgil di Ravenna quindi farà quanto in suo potere per continuare a promuovere il radicale cambiamento del Testo Unico sull’Immigrazione, e favorire il diritto d’asilo per rifugiati.
(Piangipane, 4 ottobre 2013)
SEGNALO ANCHE QUESTO
Lampedusa: la “risposta” dell’Europa
In risposta alla strage di Lampedusa, l’Europa chiede il potenziamento di Frontex. Una vera e propria macchina da guerra contro i migranti, che negli ultimi anni ha gestito soprattutto le operazioni di rimpatrio, con ben poca considerazione, come ha notato anche l’Onu, dei diritti umani
di Grazia Naletto
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