Sui 13 morti delle rivolte di marzo nelle carceri
Un articolo di Vito Totire e testi del «Comitato per la Verità e la Giustizia sulle morti nelle carceri»
Morte per overdose? Troppo semplice
INVECE CHE ARCHIVIARE IL DECESSO di HAITEM KEDRI OCCORRE ARCHIVIARE I METODI CARCERARI
di Vito Totire (*)
La pm Manuela Cavallo ha chiesto l’archiviazione per la morte («overdose di farmaci») di Haitem Kedri, il detenuto tunisino 29enne, trovato cadavere l’11 marzo 2020 nella sua cella del carcere di Bologna, dove nei due giorni precedenti era scoppiata una rivolta.
Lascia contrariati la notizia della archiviazione della indagine relativa alla morte del detenuto Haitem Kedri; si parla di overdose, una “sintesi” semplicistica che rischia di confondere l’effetto con la causa.
Un approccio sistemico all’evento della cosiddetta “rivolta” del 9 marzo 2020 in carcere ci induce piuttosto ad alcune riflessioni:
1) Manca una ricostruzione obiettiva del clima interno al carcere precedente alla giornata del 9 marzo; è del tutto verosimile che la mancanza di informazioni corrette, la deprivazione socio-sensoriale più vari messaggi fuorvianti e negazionisti abbiano indotto un grave stato di ansia nella comunità delle persone detenute; che la situazione più “calda” si sia verificata nel settore giudiziario non è motivo di sorpresa trattandosi di un fenomeno costante; banali conoscenze di “psicologia carceraria” avrebbero indotto le riflessioni e deduzioni del caso che evidentemente non sono state fatte, visto l’epilogo;
2) In questo clima, fortemente ansiogeno e amplificato dalle condizioni di costrittività e di abuso di mezzi di correzione tipico e cronicizzato nel carcere di Bologna, si sono manifestati eventi che qualcuno ha definito rivolta;
3) In una situazione fortemente ansiogena ovviamente cresce la appetenza nei confronti di ansiolitici, essendo peraltro storicamente nota la appetenza per i paradisi artificiali (come si insegnava una volta agli studenti di psichiatria); fatto è che il sistema carcerario ha cronicizzato e reiterato il modello costrittività / disagio / mono-risposta psicofarmacologica (o tabagica); è necessaria una indagine generale sul’uso di sigarette e psicofarmaci nella comunità detenuta rispetto a un gruppo di confronto esterno per chiarire meglio (anche) la dinamica della supposta rivolta; lo faremo nel prossimo futuro;
4) Intanto una comunità reclusa portata alla esasperazione assalta – si dice – la infermeria del carcere! Solo una visione edulcorata della realtà carceraria potrebbe indurre un sentimento di sorpresa. Potremmo sorprenderci di un assalto ai forni da parte della plebe affamata o di un assalto al pozzo da parte di un gruppo di persone assetate e disidratate? Ci parrebbe accettabile che in una comunità con ospiti afflitti da pulsioni autolesioniste e suicidarie il gestore della comunità lasciasse in giro pistole cariche o altri mezzi atti a produrre lesioni?
5) Si narra o si insinua dunque circa un assalto agli armadietti della o delle infermerie. Ma le telecamere furono danneggiate (pare). Sono stati riscontrati segni di effrazione sugli armadietti? Non si sa nulla tranne l’epilogo finale asserito: overdose. A noi pare una ricostruzione superficiale e sbrigativamente assolutoria (a vantaggio della “organizzazione” cioè del carcere);
6) La procura della repubblica non ha intravisto nella dinamica dei fatti una responsabilità in termini di «omessa custodia» (dei farmaci)? E’ stata fatta la conta dei farmaci mancanti dopo la supposta “rivolta” ? E se la conta è stata fatta si è proceduto al recupero degli stessi?
7) Eppure nella cella della persona deceduta sono state trovate 103 pasticche, più 5 siringhe; se assalto c’è stato ha “saccheggiato” solo lui? A quanto ammonta dunque l’ammanco di farmaci – eufemisticamente – definiti dalla richiesta di archiviazione della pm Cavallo come «appartenenti alla tipologia di farmaci legittimamente presenti nella struttura , utilizzati per la cura delle patologie e il trattamento delle dipendenze». Si intravede una certa forma di pudore che porta a evitare i termini di “psicofarmaci” e “metadone”. Circa poi il «legittimamente»: non avevamo dubbi che, almeno nell’infermeria, non sarebbe stati reperibili sostanze stupefacenti illegali; ci troviamo di fronte a una excusatio non petita? Un articolo del quotidiano «Il resto del Carlino» usa nel titolo il termine «overdose di farmaci»: la rimozione dello “psico” è un lapsus o un caso? Certo è più difficile una overdose di farmaci che non siano psicofarmaci o analoghi;
8) Nulla si sa dell’altro evento a rischio di morte che ha riguardato un’altra persona detenuta. Se la persona deceduta aveva con sè 103 pasticche, considerato l’altro evento, l’ammanco deve essere stato ancora maggiore. Tutto questo – per tornare al recupero dei farmaci mancanti – in una istituzione carceraria (parliamo del carcere in generale non dello specifico di Bologna) che mai ha lesinato perquisizioni più o meno invasive e umilianti, comprese le ispezioni anali; molto impegno magari è stato dedicato alla ricerca di telefonini la cui nocività – sulle brevi latenze – è molto minore degli psicofarmaci… Il ben informato Resto del Carlino riferisce che la persona deceduta faceva già uso di farmaci «per il controllo dell’ansia e degli stati di agitazione»: allora la sua cella era tra le prime a cui lo psicologo doveva bussare per farsi riconsegnare qualcosa… Infatti non pensiamo che il modello “perquisizione” sia quello adeguato per salvare una persona dal rischio di overdose da psicofarmaci. Ma per affrontare tutto questo occorre cambiare registro e andare oltre la prassi del “sorvegliare e punire” a cui le istituzioni totali in Italia si uniformano salvo sbandare frequentemente volentieri verso il “punire” e basta.
CONCLUSIONI
La linea di condotta delle istituzioni rispetto alle condizioni di vita delle persone private della libertà lascia contrariati.
Abbiamo denunciato negli ultimi tempi:
un suicidio nei locali della questura di Bologna;
un suicidio nel carcere della Dozza;
due decessi di persone detenute covid-correlati;
la condizione di inagibilità igienicosanitaria e di abuso dei mezzi di correzione del carcere (denuncia reiterata ogni sei mesi a partire dal 2004) ;
Di tutte queste denunce non abbiamo avuto riscontri. Nulla da rilevare?
La Ausl: non ha neppur risposto alle reiterate richieste del report secondo semestre 2019 sulle carceri (vedremo se risponderà alla richiesta del report primo semestre 2020); non ha risposto alla richiesta di informazioni circa la situazione epidemiologica covi-correlata all’interno della Dozza.
Le istituzioni rispondono come se il carcere fosse “cosa loro” nella quale i comuni cittadini non possono in alcun modo interferire; ma da sole le istituzioni sono state capaci di gravi disastri.
Tuttavia noi interferiremo sempre memori della favola del lupo e dell’agnello…Per svelare finalmente chi ha davvero intorbidato le acque…
NON CONDIVIDIAMO LA ARCHIVIAZIONE DELLA MORTE DI HAITEM KEDRI E AUSPICHIAMO DI ENTRARE IN SINERGIA CON CHIUNQUE ABBIA TITOLO A FARE OPPOSIZIONE.
Parliamo del carcere di Bologna in attesa di “parlare” dei fatti di Modena.
Bologna, 21.7.2020
(*) Vito Totire, psichiatra, è portavoce della rete nazionale per l’ecologia sociale
Dalla newsletter #14 (22 luglio 2020) del «Comitato per la Verità e la Giustizia sulle morti nelle carceri» riproponiamo l’appello e un articolo di Dario Paladini
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Tredici morti dimenticate, tanti gli interrogativi
di Dario Paladini (**)
Non era mai accaduto dal secondo dopoguerra a oggi che morissero così tanti reclusi. Parenti e associazioni di volontariato chiedono verità e giustizia. Perché sono morti? Perché non sono stati resi pubblici i loro nomi? Perché quattro sono morti durante il trasferimento in altre carceri? Il Garante nazionale ha chiesto la consulenza dell’antropologa forense Cristina Cattaneo.
Domenica scorsa in un cimitero in provincia di Varese è stato dato l’ultimo saluto a uno dei 13 detenuti morti durante le rivolte scoppiate nei giorni dal 7 al 10 marzo in 49 carceri. Sono passati quattro mesi e parenti e volontari delle associazioni impegnate nei penitenziari chiedono che sia fatta chiarezza.
Cinque detenuti sono morti nel carcere di Modena e altri quattro mentre venivano trasferiti, una volta finita la rivolta, in altre carceri. Tre sono morti invece nel carcere di Terni e uno in quello di Bologna. Quei morti sembrano dimenticati. Eppure, non era mai accaduto, nella storia d’Italia dal secondo dopoguerra a oggi, che si consumasse nelle carceri una simile tragedia. Su dirittiglobali.it è possibile firmare una petizione-appello, in cui viene proposto alle associazioni, agli avvocati, ai Garanti dei diritti delle persone private della libertà e alla rete dei media sociali di «costituire assieme un Comitato che lavori da subito alla raccolta di informazioni sulle vicende di quei giorni e che si proponga – nel rispetto ma anche nella sollecitazione delle competenze istituzionali – di fare piena chiarezza sull’accaduto».
Le rivolte sono scoppiate nel pieno della pandemia da Covid-19 e sono da collegare a due fattori: il sovraffollamento e la tensione crescente in quei giorni per il rischio di contagio e per la sospensione dei colloqui con i parenti e di ogni attività trattamentale. Un mix esplosivo, che in molte carceri ha trovato sfogo in proteste pacifiche, mentre in altre in barricate, incendi, devastazioni e saccheggi. A Foggia sono anche evasi 72 detenuti (poi tutti rientrati, alcuni spontaneamente). Il carcere di Modena è stato chiuso perché inagibile e i detenuti trasferiti in altre città. Sono 40 gli agenti della polizia penitenziaria feriti.
Il Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà, Mauro Palma, nella relazione al Parlamento ha annunciato, il 26 giugno scorso, che per i 13 deceduti seguirà le indagini in corso attraverso la nomina di un proprio difensore e di «un consulente medico legale per le analisi degli esiti autoptici». Per i nove morti detenuti a Modena, il consulente legale del Garante nazionale è Cristina Cattaneo, ordinario di Medicina Legale all’Università degli Studi di Milano e direttore del Labanof, il Laboratorio di antropologia e odontologia forense della stessa Università. Una scienziata già molto nota per i tanti casi sui quali è stata chiamata a fare luce e per il progetto, portato avanti da anni, di restituire un nome ai migranti morti in mare.
Anche in questa vicenda i nomi hanno un significato importante. Dopo le rivolte, per molti giorni non si è saputo i nomi di chi era morto. Sono poi emersi solo grazie all’impegno di due giornalisti, Luigi Ferrarella, del Corriere della Sera, e di Lorenza Pleuteri (giustiziami.it), che con l’aiuto delle associazioni sono riusciti a rendere pubblici nomi, cognomi, età e qualche aspetto della loro vita.
La domanda principale ora è: perché sono morti? Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, intervenendo l’11 marzo al Senato con un’«informativa sull’attuale situazione delle carceri», ha affermato che «dai primi rilievi, sembrano per lo più riconducibili all’abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini». Sarebbero morti per overdose di metadone. Parenti, associazioni, ma in realtà lo Stato e ogni cittadino, hanno bisogno di sapere, non basta quel «per lo più». Una tragedia di queste dimensioni avrebbe bisogno di un dibattito parlamentare, di una commissione d’inchiesta. Per rispondere anche a questa domanda: come è potuto accadere?
Ci sono altri interrogativi a cui bisognerà dare una risposta. Come è possibile che ben quattro detenuti del carcere di Modena siano deceduti durante il trasporto in altri istituti penitenziari? Chi ha stabilito che potessero affrontare il viaggio invece di essere ricoverati in ospedale?
C’è infine il capitolo delle presunte violenze sui detenuti da parte degli agenti della polizia penitenziaria dopo che le rivolte erano cessate. Quindi violenze non per sedare la ribellione, ma per punire. L’associazione Antigone ha presentato quattro esposti ad altrettante Procure.
E anche il Garante dei detenuti di Milano, Francesco Maisto, ha inviato un’informativa alla Procura della Repubblica dopo aver ricevuto diverse segnalazioni da parte di parenti dei reclusi del carcere di Opera.
I nomi dei detenuti morti sono: Salvatore Piscitelli Cuono (40 anni), Hafedh Chouchane (36 anni), Slim Agrebi (41 anni), Alis Bakili (53 anni), Ben Masmia Lofti (40 anni), Erial Ahmadi (36 anni), Arthur Isuzu (30 anni), Abdellah Rouan (34 anni), Hadidi Ghazi (36 anni), Marco Boattini (35 anni), Ante Culic (41 anni), Carlos Samir Perez Alvarez (28 anni), Haitem Kedri (29 anni).
(**) ripreso da Redattore Sociale
LE VIGNETTE – scelte dalla “bottega” – sono di Mauro Biani: “vecchie” ma purtroppo sempre attuali.