«Musica Migrante»
db vi consiglia questo libro di Luca D’ambrosio. A (s)proposito: sapevate che uno dei “tormentoni” dell’estate è una preghiera a Dio in lingua Bantu?
«Come il blues, la musica dei poveri, aveva alimentato l’opera di Gershwin, o la sarabanda, una danza degli schiavi africani, aveva influenzato J.S. Bach … la musica africana, con il suo potere ispiratore e unificante, continuerà a ricordarci un messaggio che non dovremmo mai dimenticare: siamo tutti africani!». Angélique Kidjo
A volte ho fortuna: mi hanno chiesto di presentare (a Imola) il libro di Luca D’ambrosio «Musica migrante: Dall’Africa all’Italia passando per il Mediterraneo» e così l’ho “dovuto” leggere. Ed è stato per me un gran piacere e un arricchimento, dunque ve lo consiglio assai e vi racconto qualcosa.
Lo ha pubblicato Arcana: belle le prefazioni di Angélique Kidjo (cantante del Benin) e di Valerio Corzani; intriganti i disegni di Laura Colucci.
Luca D’Ambrosio presenta così il suo libro: «la mia unica certezza era da dove stessi iniziando, ovvero dalla musica di quei giovanimigranti africani arrivati in Italia in questo inizio di terzo millennio. Dunque, prendendo spunto dai racconti e dalle drammatiche testimonianze dei ragazzi incontrati a due passi da casa, ho deciso di partire alla scoperta delle musiche di un intero continente: l’Africa. Un viaggio narrativo, intrapreso con curiosità, slancio emotivo e persino un pizzico d’incoscienza, in cui ho provato a mettere in evidenza taluni aspetti umani, storici, culturali ma soprattutto musicali di un territorio decisamente vasto ed eterogeneo, da dove si sta muovendo una nuova generazione costretta a sradicarsi dalle proprie origini». Cercando un futuro migliore i migranti si portano dietro la propria cultura fra tradizione e nuove contaminazioni.
«Musica migrante» è (almeno) due libri diversi. Nellla prima parte infatti ci sono storie della migrazione: «Gli occhi di Youssuf» (del Burkina Faso) e poi le altre da Nigeria, Mali, Gambia, Camerun, Senegal, Egitto, Guinea, Niger, Ghana, Tunisia, Marocco, Sierra Leone, Togo e Costa d’Avorio.
Nella seconda parte inizia un interessantissimo viaggio nella musica – tradizionale e contemporanea – delle molte Afriche.
Perfino i più ignoranti di musiche negli ultimi anni avranno ascoltato Fela Kuti, Cesarìa Evora o Youssou N’Dour. Qualcuno conosce l’oud oppure la kora (magari per averne letto nel romanzo «Undici» di Savina Dolores Massa) e forse ha una vaga idea di cosa siano djembé e balafon. Ma chi saprebbe dire – nel mucchio selvaggio mi ci metto anche io – cosa sono agogô, bendir, darbuka, goje, mvet, ngoni, rebab, sanza, shekere, sintir, taarab o zouglou? L’inanga – come spiega Corzani in una delle prefazioni – è «una sorta di cetra a otto corde, uno degli strumenti utilizzati dai musicisti del Burundi, ma viene raramente associato a questa cultura nell’immaginario extra-africano, a tutto vantaggio di altri nobili “arnesi” come i celeberrimi tamburi» Se qualcosa so è perchè l’anno scorso sono passato dal MIMM, il museo interattivo della musica, a Malaga – se post Covid andrete in Spagna vi raccomando di farci tappa – e ho potuto vedere come sono fatti molti di questi strumenti e per quasi tutti quelli in mostra ascoltarne il suono e conoscerne la storia grazie alle schede sui monitor.
Musica africana ovviamente significa nulla; come dire musica europea… Forse se qualcuno parla di afrobeat, di raï o della canzone cabila qualche orecchio meno ignorante ricorda e intende. Ma che suoni ci aspettano con apala, chaâbi, chimureng, fuji, gnawa (chi è stato in vacanza nella bellissima Essaouira magari ha incrociato il festival) oppure highlife, kwaito, isicathamiya, makossa, malouf, marabi, mbalax, mbaqanga, mbube, rumba congolese, sakara, zamrock, zouk, juju o la più recente hiplife?
Il libro spiega bene e ci fa venire voglia di ascoltarle, indicando anche da dove cominciare per saperne di più e per “alimentare” le orecchie.
Quanto alle ricadute italiane – fra mercato discografico e scene alternative – non c’è solamente Mahmood che con «Soldi» vince il Festival di Sanremo 2019. La società globalizzata e multiculturale (nonostante le resistenze di sovranisti e/o ignoranti) del terzo millennio – spiega D’Ambrosio – porta con sé «giovani nati o cresciuti in Italia ma di origini straniere…. A dispetto dei nomi e dei tratti somatici, parlano e soprattutto cantano in italiano, e volendo anche in altre lingue, iniziando a conquistare il mercato discografico italiano e persino globale con milioni di visualizzazioni su YouTube e altrettante riproduzioni su Spotify». E infatti a conclusione del libro ecco una playlist di “canzoni migranti” «che è possibile ascoltare su Spotify, in versione ampliata e aggiornata, all’indirizzo www.musicletter.it/canzonimigranti».
In chiusura del libro l’autore scrive: «È opportuno ricordare a questo proposito che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione 68/237 del 23 dicembre 2013, ha proclamato il periodo 2015-2024 come il decennio internazionale delle persone di origine africana (International Decade for People of African Descent) al fine di rafforzare e garantire loro la piena realizzazione dei propri diritti». Più che opportuno: è il minimo della giustizia per i figli e le figlie di Mamma Africa, saccheggiata dai predoni dell’Occidente-Uccidente.
PER CHI DOMENICA 4 OTTOBRE è a Imola (e dintorni)
Nell’ambito dell’undicesima edizione della Rassegna DDT (Diversi Dirompenti Teatri) organizzata dall’Associazione Extravagantis – in collaborazione con il Combo Jazz Club e con Trama di Terre – c’è la presentazione del volume «Musica migrante. Dall’Africa all’Italia passando per il Mediterraneo». L’ autore ne parlerà con Daniele Barbieri, con gli interventi musicali di “Trame di Voci” , il coro di donne native e migranti diretto da Ilaria Petrantuono. In chiusura «L’ urlo dell’africanità»: concerto di Lisa Manara accompagnata da Federico Squassabia e Youssef Ait Bouazza.
L’iniziativa si terrà al MERCATO ORTOFRUTTICOLO a Imola (viale Rivalta 10/12) dalle 16 alle 19. L’ingresso è gratuito fino all’esaurimento dei posti a sedere. Saranno rispettate le normative anticovid per cui all’ingresso bisognerà lasciare nominativo e recapito, ed entrare con la mascherina. Per informazioni e prenotazioni: 339 2294412
«Jerusalema» al tempo del Creato
di Virginia Mariani (*)
Uno dei tormentoni musicali dell’estate è un brano gospel nato nelle chiese evangeliche: il testo è una preghiera a Dio in lingua Bantu
L’estate appena terminata per me è trascorsa nel timore di andare in spiaggia o fare qualche breve uscita, sebbene con tutte le cautele necessarie, ma anche nell’osservazione incredula di come nei comportamenti della gran parte delle persone sembrava fosse scomparsa ogni preoccupazione per il pericolo di contagio. A tutto questo a un certo punto ha fatto eco una serie anche di simpatici meme costruiti sulle foto di politici locali e nazionali con l’avvertimento che, se fossero continuati assembramenti e feste, avremmo ballato “Jerusalema” nel balcone… ma cos’era?
L’ho scoperto dopo aver saputo che anche la Marina Militare di Taranto ne aveva ballato la coreografia dopo la cerimonia di giuramento della Scuola Sottoufficiali.
“Jerusalema” è una canzone che nasce come un brano gospel nelle chiese evangeliche, e nel novembre 2019 viene pubblicata dal producer sudafricano Master KG, ovvero Kgaogelo Moagi: rimasta per mesi abbastanza localizzata e sconosciuta, è diventata popolare su TikTok anche grazie a un video di alcuni ragazzi angolani che la ballano tra una forchettata e l’altra mentre mangiano.
Spensierata e ballabile è diventata l’esempio di come un brano musicale possa diventare famoso a livello mondiale anche se non si comprende nulla di ciò che viene detto, poiché è il ritmo con una non troppo complessa coreografia a coinvolgere: la scoperta è che la canzone è una preghiera rivolta a Dio scritta in venda (lingua bantu parlata in Sudafrica e Zimbabwe), una vera e propria invocazione e richiesta di intercessione in stile veterotestamentario in cui la città d’Israele diventa città celeste nella quale si rinnova la speranza di una nuova vita. Il testo, ripetitivo come tutte le preghiere semplici e sincere, canta queste parole: «Gerusalemme è la mia casa / guidami, / portami con te / non lasciarmi qui. Il mio posto non è qui / il mio Regno non è qui / guidami / portami con te».
Così, dovendo preparare l’accoglienza per le classi della Scuola Secondaria di primo grado nella quale lavoro, ho pensato di proporre alcune attività anche interdisciplinari e creative su questo brano tutto da scoprire, pure dal punto di vista culturale nell’incontro fra popoli: dalle competenze alfabetiche funzionali per capire cos’è un tormentone, cos’è una canzone e com’è scritta, con schemi metrici ed eventuali rime, alla lingua venda, parte delle lingue bantu come l’italiano delle lingue neolatine; passando per il gospel tra Geostoria e Musica, fino ad arrivare al ballo di gruppo in Educazione fisica e senza trascurare la “nuova” Educazione Civica che prevede lo sviluppo delle competenze sociali ambientali e digitali. Quindi, cos’è una chiesa evangelica? Quali sono gli articoli della Costituzione che normano la libertà di culto? Quali Chiese sono presenti sul territorio? E poi cos’è Tik Tok? Cosa dice la Legge a proposito del suo utilizzo? Dove si trovano Sudafrica e Zimbabwe? Quali sono le bellezze naturali di questi Stati? Come tutelarle?
Queste sono state soltanto alcune delle domande per riflettere e avviare conversazioni e ricerche, elaborare mappe concettuali, creare regolamenti condivisi, introdurre gli argomenti del nuovo anno scolastico, e anche inventare cover e parodie (tante sono quelle pubblicate su YouTube) con parole assonanze e messaggi che, per esempio, invitano al rispetto delle norme di base per un rientro a scuola in sicurezza, ma anche gentilezza e condivisione di intenti. Sebbene di passaggio, abbiamo il dovere e la gioia di convivere in questo “posto” nel rispetto reciproco e, quindi, di tutto il Creato.
(*) ripreso da riforma.it «Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia»